domenica 29 giugno 2014

la protesta si è riaccesa in Spagna e in molte città europee …


A Valladolid, 

durante la processione del  DÍA DEL KOÑUS KRISTI
En Nuestros Úteros NO se legisla – Sui nostri uteri non si legifera
Nuestros Cuerpos NO se maltratan – I nostri corpi non si maltrattano
Nuestros Derechos NO se recortan – I nostri diritti non si tagliano

a Reggio Calabria 


 le donne della Collettiva Autonomia hanno “fatto a pezzi” la proposta di Legge Gallardon che intende di fatto vietare l’aborto come libera scelta della donna, permettendolo solo in rarissimi casi. E dicono che  La lotta delle donne spagnole E’ LA NOSTRA LOTTA  … e insieme alle nostre sorelle spagnole e a tutte le donne che si stanno nuovamente mobilitando in tutta Europa, chiediamo che non venga approvata la proposta del governo Rajoy!

a Firenze
 

le donne hanno detto Non restiamo a guardare e  si sono ritrovate davanti al consolato spagnolo per protestare contro la proposta Gallardon che riforma la legge sull’aborto e che costringerebbe le donne che vivono in Spagna all’illegalità e al rischio vita. Siamo con le spagnole che resistono al tentativo di controriforma di Gallardon e ricordiamo che noi vigiliamo! Lotteremo unite per i diritti con tutte le donne perché le donne non siano mai più costrette a morire in clandestinità, né in Spagna, né in Italia, né in Europa … né altrove!!!

sabato 28 giugno 2014

Rawan, sposa bambina in Yemen, Muore a 8 anni, durante la prima notte di matrimonio.

Si chiamava Rawan, viveva ad Al Hardh, regione nord orientale dello Yemen al confine con l'Arabia Saudita ed aveva 8 anni, di più non sappiamo. Ha perso la vita durante la prima notte di matrimonio con uno sposo la cui età era cinque volte la sua, a causa di un'emorragia interna, secondo alcuni attivisti.

Gli attivisti stanno chiedendo che lo sposo, che dovrebbe avere intorno ai 40 anni, e la famiglia della bambina, vengano arrestati e portati a giudizio. Purtroppo non è il primo caso e anzi ricorda un'altra storia recente, simile in tutto se non per l'età della vittima, Ilham, che in questo caso era una tredicenne. Mentre nel 2010, una bimba di 12 anni è morta durante il travaglio del parto.

Secondo Human Rights Watch, il 14 % delle donne yemenite viene dato in sposa prima dei 15 anni e se si pone il limite a 18 anni la percentuale sale al 52% ma alcune, come Rawan, vengono scelte per il matrimonio al'età di 8 anni. Le percentuali salgono se ci si sposta nelle aree rurali del paese, dove spesso prevalgono leggi ibride, con residui tribali e innesti di diritto islamico. Ad aggiungere al supplizio del matrimonio forzato in tenera età, le bambine sono spesso date in moglie a uomini decisamente più vecchi, come nel caso di Rawan.

Al momento, in Yemen, non esiste un età minima per il matrimonio. Nel 1999, infatti, il limite dei 15 anni fu abolito dal parlamento. Nel 2009 ci fu un tentativo, nel Paese, per porre l'età minima da matrimonio a 17 anni. Tentativo che fu bloccato da un gruppo di giuristi che sostenevano fosse in contravvenzione alla Sharia (legge islamica).

Sul fronte dei diritti delle donne, arriva oggi anche una notizia positiva. I quattro uomini che avevano aggredito ed ucciso una studentessa 23enne, 9 mesi fa a Nuova Delhi, sono stati condannati per stupro, omicidio e diversi altri reati. La pena non è ancora stata annunciata, ma potrebbe essere la pena di morte.

Per fortuna, ci sono anche storie a lieto fine, come quella di questa bimba di 11 anni, Nada Al Ahdal, fuggita un mese fa, grazie all'aiuto di un'insegnante e di alcuni giornalisti, al matrimonio combinatole dalla famiglia e alle minacce di morte dei genitori, dopo essersi rifiutata di unirsi in nozze. In questo video, la bimba yemenita spiega perché è ingiusta la pratica dei matrimoni dei minori.

venerdì 27 giugno 2014

Libia Un colpo alla nuca, assassinata l’attivista per i diritti umani Salwa Bugaighis ammazzata nel giorno delle elezioni politiche.


 Salwa Bugaighis avvocato, voce contro l’estremismo, a favore del dialogo.
 Un commando è entrato in casa. Poi l’esecuzione Un’esecuzione in piena regola. Uccisa per le idee che difendeva. Scomode.
Salwa Bugaighis, avvocato, era una delle attiviste per i diritti umani più conosciute in Libia. È stata ammazzata a Bengasi ieri, nel giorno delle elezioni per scegliere il nuovo Parlamento. Lo riferisce l’agenzia di stampa ufficiale libica Lana, spiegando che la donna è stata uccisa a casa , alcune ore dopo avere votato. Un’irruzione da parte di un gruppo di uomini armati. Il colpo alla testa. Quando gli assassini sono fuggiti la donna era ancora a viva. Sembra che accanto a lei ci fosse anche il marito, probabilmente rapito. Salwa è morta poco dopo, in ospedale.
 In prima linea nella rivolta del 2011 contro Muammar Gheddafi, Salwa Bugaighis è stata anche fra le voci più attive contro l’estremismo islamico. Secondo quanto ha riferito un uomo a guardia dell’abitazione della donna (riportato dal quotidiano Al-Wasat) cinque uomini armati, tutti a volto coperto tranne uno, prima hanno chiesto del figlio di Bugaighis, Wael, poi hanno sparato alla guardia a una gamba e infine hanno fatto irruzione nella casa. A quel punto si sono sentiti altri spari. Non è chiaro chi siano questi uomini, ma recentemente le milizie radicali islamiche a Bengasi sono state ritenute responsabili di frequenti omicidi di attivisti, giudici, religiosi moderati, poliziotti e soldati. Attivista a favore del dialogo Stando ai media locali, dopo l’assalto alla casa risulta disperso il marito di Bugaighis, che pare si trovasse all’interno. Negli otto mesi di guerra civile contro Gheddafi, Bugaighis è stata membro del Consiglio nazionale di transizione (Cns), l’organo di leadership politica dei ribelli. Da allora è stata poi vice capo della commissione per il dialogo nazionale, che sta provando a lavorare per una riconciliazione tra fazioni, tribù e comunità rivali all’interno del Paese.

L’intervista sotto i bombardamenti

Poco prima dell’assalto la donna aveva rilasciato un’intervista alla tv Al-Nabaa, mentre erano in corso bombardamenti nel suo quartiere. In quell’occasione aveva invitato i cittadini a recarsi alle urne, dicendo che sperava in un nuovo Parlamento senza la predominanza degli islamisti come nel Parlamento attuale. «Dal vostro network invito le persone di Bengasi a essere decisi e pazienti perché le elezioni si devono compiere», aveva detto, raccontando che vicino al suo quartiere erano in corso combattimenti che erano cominciati quando i militanti avevano attaccato dei soldati dispiegati vicino ai seggi. «Queste sono persone che vogliono far saltare le elezioni», aveva detto prima che la conversazione si interrompesse con il rumore di spari.

Il coraggio di Salwa

In passato Salwa Bugaighis era fuggita con la sua famiglia in Giordania a causa delle minacce di morte ricevute. Il figlio, Wael, era sopravvissuto quest’anno a un tentativo di rapimento. Un amico racconta che recentemente lei e il marito erano tornati a Tripoli mentre i due figli, compreso Wael, erano rimasti in Giordania. Sotto il governo di Gheddafi, in quanto avvocato, Salwa Bugaighis aveva rappresentato le famiglie dei prigionieri nella nota prigione Abu Selim di Tripoli, spingendo il governo a dire la verità su quanto fosse accaduto ai 1.200 prigionieri scomparsi, la maggior parte islamisti di Bengasi. Il suo omicidio ha sconvolto la comunità di attivisti, politici e diplomatici: «Tutti i sostenitori della verità sono minacciati», ha detto Hassan al-Amin, altro noto attivista ed ex capo della commissione diritti umani in Parlamento, che è fuggito all’estero dopo avere ricevuto minacce di morte.

giovedì 26 giugno 2014

Aborto, niente obiezione nei consultori La rivoluzione della Regione Lazio di Francesca Sironi



Un decreto dell'ente guidato da Nicola Zingaretti segna un passo importante a tutela della legge 194. Il ginecologo obiettore non potrà più sottrarsi al dovere di garantire a chi ne ha bisogno tutti i certificati necessari per abortire. E dovrà prescrivere i farmaci per la contraccezione, inclusa la pillola dei cinque giorni dopo


Aborto, niente obiezione nei consultori La rivoluzione della Regione Lazio
Il medico ha il dovere di informare. Di garantire alla paziente che richiede un aborto tutti i certificati necessari, di dare i consigli adeguati. Non solo: è tenuto alla prescrizione dei contraccettivi, pure "post-coitali". Insomma: se per legge può rifiutarsi secondo coscienza di operare un'interruzione volontaria di gravidanza, non può sottrarsi al suo compito di cura all'interno dei consultori familiari. Lo ha messo nero su bianco, per la prima volta, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, in un decreto da lui firmato sulla riorganizzazione dei servizi medici per la salute della donna.

Sembra una banalità, ma non lo è affatto per una regione come il Lazio dove gli obiettori di coscienza sono il 90 per cento dei medici . In un paese come l'Italia in cui al posto delle informazioni sulla contraccezione si possono trovare, nei consultori, i volantini-shock del movimento per la vita . In un sistema in cui i ginecologi arrivano a negare anche solo un'indicazione sul percorso e le strutture disponibili, come ha raccontato "l'Espresso" nello speciale " Aborti impossibili ".

Per questo, le frasi contenute nell'allegato "uno" del decreto sui consultori familiari voluto dal governatore Zingaretti sono un segnale importante a difesa della legge 194, che dal 1978 dovrebbe garantire alle donne la possibilità di abortire in sicurezza ma che in realtà oggi è difesa e sostenuta solo grazie ai volontari .

«In merito all'esercizio dell'obiezione di coscienza tra i ginecologi», si legge nel decreto: «si ribadisce come questa riguardi l'attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell'interruzione volontaria di gravidanza. Al riguardo, si sottolinea che il personale operante nel consultorio familiare non è coinvolto direttamente nell'effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare Ivg».

Il dovere di garantire le cure nei consultori riguarda anche la contraccezione. «Per analogo motivo», continua infatti il decreto: «il personale operante è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonché all'applicazione di sistemi contraccettivi meccanici», come la spirale. Scontato? Non tanto, come raccontava un'inchiesta de "l'Espresso" pochi mesi fa.

martedì 24 giugno 2014

Lettera a mio figlio che un giorno (non) sarà uomo violento di Alessandra Bravi

Un uomo dopo una notte di interrogatorio è crollato e ha spiegato di aver ucciso sua moglie, suo figlio di 5 anni, l’altro figlio di 20 mesi. L’ha fatto perché considerava la sua famiglia un ostacolo ad una nuova storia. Si era invaghito di una collega, un amore non corrisposto, ma che lui bramava come sogno. Ora chiede per se stesso il massimo della pena ma resta lucido quando racconta come e perché ha deciso di sterminare i suoi cari.

    Cosa c’entra questa storia brutale con te, figlio mio?

C’entra, perché sei un uomo. Perché lo stai diventando. Perché ogni volta che accade una cosa del genere, il mio primo pensiero, da quando sei nato è: ma la madre di questa persona come può amare ancora suo figlio? Come può trovargli una scusante, come può ancora guardarlo in faccia? Io, potrei? C’entra, perché di “uomini che odiano le donne” – gran bel libro che ha finito per diventare un’odiosa, ma pur vera, etichetta – ce ne sono tanti. E il germoglio di solito è la prepotenza e la vigliaccheria. Le donne non ne sono immuni, ovviamente, ma negli uomini, se si trasformano in violenza, sono letali.

Io, donna, vorrei insegnarti ad essere uomo. A scoprire dentro te stesso e mostrare agli altri, il tuo mondo maschile. Che è fatto di quella tenerezza riservata a pochi, di braccia forti e adolescenza ostentata, di sigarette che fumerai come un pazzo e che quando deciderai di smettere, niente e nessuno ti farà tornare indietro, di caparbietà e dolcezza, di pallone e macchinine, ma anche di piatti da lavare e camicie da stirare (tu e non la mamma o la fidanzata). Di pubertà vissuto da solo o con gli amici, di tanto studio o nessuno studio, di una ricerca continua alla tua strada, di lotta fra indipendenza e “mammosità”.

Vorrei insegnarti a capovolgere il tuo cielo per accogliere le donne nuvolose, a trasformarti in mare, anche quello burrascoso ma capace poi di trasformarsi in acqua limpida una volta passata la tempesta. Vorrei dirti che un giorno amerai tantissimo, costruirai una famiglia, sarai padre e compagno ma un altro giorno potresti scoprire di non amare più nello stesso modo e allora Pietro, ti prego, non essere vigliacco: abbi il coraggio di fare male, di ferire la donna che hai amato e non ami più. Parlale, accetta e subisci le sue lacrime, il suo dolore, la sua disperazione. Comprendile se puoi, ma sii sempre sincero. Le bugie sono come pugni, la verità, anche la più brutta, prima o poi verrà apprezzata. Se sarà lei a dirti addio, piangi figlio mio. Non ti vergognare della tua debolezza, della tua delusione, della tua paura, della tua rabbia. Ma incanalala, sempre. E le tue emozioni, le manifestazioni delle tue emozioni, conservale come gioiello prezioso. E se amerai un uomo, dillo con orgoglio, con fierezza, proprio come si grida al vento l’amore per una donna. Non chiederti se sei sbagliato, se non sei un uomo. Quei dubbi serviranno soltanto agli uomini e alle donne che non capiscono come l’amore superi qualunque etichetta, qualunque “giusto o sbagliato”.

E ridi, ridi tanto. Conserva la tua risata bambina di adesso, portane un pezzettino con te, quando sarai adulto. Le donne a volte dimenticano di ridere, anche di se stesse, spesso stritolate in mille ruoli e competizioni. Stempera il loro senso del dovere, la loro pesantezza, il loro continuo e perpetuo sentirsi sempre “dopo”. E leggi, leggi sempre. I tuoi bellissimi libri di avventure ma anche “Piccole donne”. Gli Aristogatti ma pure Cenerentola. Amale le donne, perché sono belle. E difficili. E complicate. Ma lo sei anche tu, piccolo uomo. È solo che la società spesso ci costringe a entrare nei nostri stereotipi e a non abbandonarli più. Lotta contro la gabbia della società, qualunque essa sia. Sul lavoro, nelle scelte personali, nell’amore, in famiglia.

E ogni tanto, a qualunque età, fai come hai fatto l’altro giorno mentre giocavi indaffarato. «Signor Pietro, ma che lo dà un bacino a sua mamma?». Tu ti fermi, ti giri, mi guardi e dici, serio serio: «Ti». Mi corri incontro e mi dai un bacio bavoso. Nel tuo «ti» c’è tutto l’amore che io ti auguro di conservare per le tue donne speciali.

lunedì 23 giugno 2014

Contro la violenza sulle donne un muro di bambole «griffate» di Luisa Pronzato



«Da piccola creavo gli abiti delle mie bambole, cucirli diventava un momento di meditazione in cui sviluppavo la mia creatività e pensiero»

Arruffata-chic, leather-geometrica, di fuoco nei tessuti e nello sguardo. Avventuriere, classiche, sognanti, concrete, affabulanti… un muro di bambole per dire «We are not just dolls» (non siamo solo bambole). Le hanno realizzate una cinquantina di stilisti, 30 Artisti, 20 Associazioni, da Salvatore Ferragamo, Costume National, Stella McCartney, Kristina Ti, Frankie Morello a Intervita e Donne in rete, ad Arisa, Ivana Spagna, Syria, Malika Ayane. E oggi, 21 giugno – solstizio d’estate, giorno della luce lunga in cui le tradizioni traggono auspici per i raccolti futuri – a Milano (ore 16, via De Amicis 2) con l’inizio della Settimana della moda maschile, inizia la costruzione di Wall of Dolls: performance, messaggio tra etica ed estetica, ideato da Jo Squillo e sostenuto dalla Camera della Moda.

Paradosso di creatività, griffato da stilisti e artisti, per disegnare un percorso lungo un anno (da oggi all’autunno 2015) in cui il muro vuole abbattere i muri, gli stereotipi cancellare gli stereotipi. Il messaggio è contro la violenza sulle donne. Ma soprattutto per nuovi modelli di femminilità e mascolinità su cui ri-immaginare l’essere donne e uomini.

Trecento mamme-signorine-bellezze-bambine-figlie per 150 metri di rete sono solo l’invito perché tutti portino le loro bambole. Non per abbandonare i sogni, ma perché con il simbolo su cui si sono sempre formati i modelli femminili, si ricostruiscano gli immaginari di bambine e bambini, adulte e adulti. «Da piccola creavo gli abiti delle mie bambole, cucirli diventava un momento di meditazione in cui sviluppavo la mia creatività e pensiero», racconta Jo Squillo, la conduttrice televisiva di una delle più storiche trasmissioni dedicate alla moda che nella sua adolescenza-punk è stata anche autrice e interprete di canzoni provocatorie come “Violentami” e “Orrore”. «Le cantavo in minigonna inguinale… Le cantavo con rabbia per rispondere a chi diceva ve la siete voluta… Sono passati alcuni decenni e c’è ancora bisogno di dirlo. E allora ridiciamolo, partendo dallo stile, dalla moda che incide per creare tendenze». E, non a caso, da una giornata molto maschile.

domenica 22 giugno 2014

«Noi, calciatrici, vi raccontiamo com’è scendere in campo nel Paese degli azzurri» di Federica Seneghini

«Quando andavo alle medie giocavo a calcio di nascosto. I miei compagni e i professori mi prendevano in giro, dicevano che ero un maschiaccio, che dovevo dedicarmi alla pallavolo perché ero una ragazza. Poi ho iniziato a fregarmene. Loro quando si sono accorti che sapevo calciare come i maschi ci sono rimasti quasi male. 
Lo scorso aprile con la Nazionale Under 17 siamo arrivate terze ai Mondiali ed è stata la mia rivincita». Carlotta Cartelli, 17 anni, si infila i guantoni da portiere. Lo sguardo concentrato, si aggiusta la maglia dentro i pantaloncini, si allaccia gli scarpini e si avvia verso la porta prima dell’amichevole Inter-Milan, a San Siro.
Del successo delle azzurrine in Costa Rica se ne sono accorti in pochi.

 Anche se nessuna Nazionale giovanile di calcio aveva mai vinto una medaglia ad un Campionato del Mondo. Autorità sugli spalti per la semifinale? Nessuna. La notizia sui giornali? Relegata in poche righe nelle brevi. Il premio in euro per essere salite su un podio mondiale? Zero. «Ci hanno pagato il viaggio e, dopo la finalina, ci hanno portato al mare per festeggiare», spiega Carlotta. «Ma è stata una emozione perché in Italia a vederci giocare non ci sono mai più di 100 persone, lì invece c’erano 30 mila spettatori».
 Nel Paese che impazzisce per gli azzurri, dove le uniche figure femminili che fanno notizia sono le fidanzate dei calciatori, se a scendere in campo sono le donne cambia tutto.

giovedì 19 giugno 2014

Dopo la strage di Motta Visconti, tutti i numeri della violenza sulle donne Giorgia Serughetti

Dati
Motta Visconti, Canicattini Bagni, gli ultimi casi di cronaca. Ma chi sono gli uomini che uccidono le donne? Il 70% italiani, il 58% fidanzati, mariti o ex. Il 30% degli assassini dopo l'omicidio si uccide. Due colpevoli su tre appartengono a una fascia sociale e culturale medio-alta

Un'altra donna uccisa, anzi due, anzi quattro. Da Motta Visconti nel Milanese a Canicattini Bagni in provincia di Siracusa, la mattanza che ogni anno conta decine di donne uccise non si ferma in questo 2014, dopo un 2013 da bollettino di guerra, con 134 casi di femminicidio in ambito familiare. Nel 2014 siamo a 38, ma il conto entro la fine dell'anno è destinato ad aumentare.

A uccidere sono uomini. Ma chi sono gli uomini che uccidono le donne? Secondo i dati elaborati della Casa delle donne di Bologna, basati sulla stampa nazionale e locale, nel 70% dei casi si tratta di italiani, nel 12% di est europei, e in prevalenza di uomini in età compresa tra 36 e 60 anni. Mariti, fidanzati ed ex formano insieme il 58% gli autori. Nel 2013, in quasi un caso su tre questi possedevano e hanno utilizzato un'arma da fuoco. Nel 30% dei casi, dopo l'omicidio si sono tolti la vita. L'impossibilità di accettare la fine della relazione è al primo posto tra i moventi dichiarati (16%), seguito motivi di liti (14%), gelosia (12%) e questioni economiche (8%).

Se invece parliamo, più in generale, di uomini violenti, possiamo guardare le statistiche di Telefono Rosa (rapporto Le voci segrete della violenza 2013) basate sui casi con cui l'organizzazione è entrata in contatto nell'anno passato. I maltrattanti risultano anche qui uomini di mezza età: il 58% del 
campione appartiene alle fasce d'età 35-44 
anni (29%) e 45-54 anni (29%). Ma è aumentato nel 2013 il segmento di violenti d'età superiore ai 55 anni: il 17% ha tra i 55 e i 64 anni e il 10% oltre 65 anni. C'è poi un 15% di violenti con età inferiore a 34 anni.

Non si tratta, come talvolta si sente dire, di persone di scarsa cultura, povere o marginali. Il 64% degli autori di violenza ha un grado d'istruzione 
medio-alto: il 44% è diplomato e il 20% è laureato.
 Fanno gli impiegati, anche di alto livello 
(17%), gli operai (16%) e i liberi professionisti (13%), ma anche gli infermieri, i vigili, 
i medici, gli agenti delle forze dell'ordine.

Stiamo parlando di “normalità”, dunque, almeno nel suo significato statistico. Ma questo non vuol dire che l'uccisione di una donna da parte di un partner o un ex sia un esito del tutto inaspettato e incontrollabile di relazioni “normali”. È vero che c'è una componente di imprevedibilità, legata a dinamiche delle relazioni di cui le persone vicine alla coppia, i servizi territoriali, le vittime stesse non sempre hanno piena consapevolezza. Ma decenni di studi permettono ormai di evidenziare alcuni fattori di rischio, spesso sottovalutati da chi opera nel settore, che potrebbero invece rappresentare importanti campanelli d'allarme.

Costanza Baldry, criminologa dell'Università di Napoli, nel suo Uomini che uccidono (2012) scritto insieme a Eugenio Ferraro della Questura di Roma, ne riporta una serie. Il rischio di commettere un femminicidio nella coppia aumenta per gli uomini (appartenenti a tutte le classi sociali) che attraversano difficoltà economiche o periodi di disoccupazione, che possiedono armi, che riportane precedenti penali (anche per crimini non violenti), che abusano di sostanze, che presentano varie forme di disturbi psicopatologici, in particolare depressione.

Ma è chiaro che non si tratta di fattori che causano di per sé la violenza omicida, mentre possono incrementarne il rischio in alcune persone e circostanze. Altrettanto importanti sono i vissuti familiari, come la violenza assistita da bambini e l'abuso subito. E certamente premonitori sono gli atteggiamenti di controllo ossessivo e di sorda e devastante gelosia dell'uomo nei confronti della partner.

Molto dipende, poi, dal tipo di relazione tra vittima e carnefice, dove il rischio di femminicidio aumenta con la diseguaglianza d'età tra l'uomo e la donna, e con la presenza di maltrattamenti fisici, psicologici e sessuali. La separazione è un fattore molto forte: tra il 30% e il 75% delle donne uccise dal partner o ex partner, secondo le ricerche citate da Baldry, si stavano separando o si erano già separate. Si tratta quindi, in molti casi, di una reazione alla perdita di controllo sulla donna, sui suoi movimenti e sulle sue decisioni, unita all'incapacità di accettare l'abbandono.

Anche la presenza di figli è un indicatore di rischio. Ed è difficile non crederlo mentre leggiamo i particolari raccapriccianti del triplice delitto della notte dei Mondiali in cui hanno perso la vita, sgozzati con un coltello, Maria Cristina Omes, 38 anni, la piccola Giulia di quasi 5 anni, e Gabriele di venti mesi appena. Succede che l'arrivo dei figli provochi una recrudescenza di atteggiamenti violenti, di controllo, di gelosia da parte del padre verso la madre. Succede anche che i minori diventino vittime loro stessi, uccisi dal per il desiderio di punire la madre o perché, semplicemente, rappresentano un peso. «Ma non le bastava il divorzio?», ha chiesto il magistrato a Carlo Lissi, il padre-marito assassino di Motta Visconti. «No. Con il divorzio i figli restano», ha risposto lui.

mercoledì 18 giugno 2014

Voucher baby sitter: lo stato paga nido e baby sitter. Lo sapevi?

Voucher baby sitter, le italiane non li usano, ma perché? Lo Stato dà un bonus alle madri per pagare una baby sitter per il proprio figlio ma la burocrazia complessa e la poca informazione fa si che questi soldi non vengano spesi dallo stato.

La legge Fornero ha introdotto il voucher in via sperimentale, per il triennio 2013 – 2015, e consiste nella possibilità per la madre lavoratrice di richiedere, al termine del congedo di maternità ed entro gli undici mesi successivi, in alternativa al congedo parentale, voucher per l’acquisto di servizi di baby sitting, ovvero un contributo per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati, per un massimo di sei mesi. [articolo 4, comma 24, lettera b) della legge 28 giugno 2012, n.92]
A chi spetta il Voucher baby sitter?

Le mamme alle quali spetta il voucher sono:

• lavoratrici dipendenti;
• lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art.2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n.335, (ivi comprese le libere professioniste, che non risultino iscritte ad altra forma previdenziale obbligatoria e non siano pensionate, pertanto tenute al versamento della contribuzione in misura piena), che si trovino in una delle seguenti condizioni:
• lavoratrici madri che, al momento della domanda, siano ancora negli 11 mesi successivi alla conclusione del periodo di congedo obbligatorio di maternità, e non abbiano fruito ancora di tutto o parte del periodo di congedo parentale;
• o le gestanti, la cui data presunta del parto è fissata entro i quattro mesi successivi alla scadenza del bando per la presentazione della domanda.

La domanda può essere presentata anche per più figli.


Il valore del buonus è di 300 euro al mese per sei mesi, in tutto 1.800 euro; in alternativa alla fruizione del congedo parentale, comportando conseguentemente la rinuncia dello stesso da parte della lavoratrice. Ma l’anno scorso solo 3.762 domande sono arrivate all’Inps, su 11 mila donne per la quale il voucher fu stanziato, per un totale di 20 milioni di euro.

Ci sono due forme di contributo, alternative tra loro:

1 • contributo per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati;
2 • voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting;

Nel primo caso viene erogato attraverso pagamento diretto alla struttura scolastica prescelta dalla madre, mentre nel secondo la madre ritira i voucher direttamente all’Inps in formato cartaceo.

Per ottenere il Voucher baby sitter bisogna presentare la domanda all’INPS in modo esclusivo attraverso il canale WEB – servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN attraverso il portale dell’Istituto (www.inps.it) attraverso il seguente percorso: Al servizio del cittadino – Autenticazione con PIN – Invio domande di prestazioni a sostegno del reddito – Voucher o contributo per l’acquisto dei servizi per l’infanzia.

Per tutte le informazioni in merito potete leggere il bando emesso dall’Inps.

martedì 17 giugno 2014

PUBBLICITÀ. IL COMUNE CHIEDE AD ATM RIMOZIONE MANIFESTI CHE OFFENDONO DIGNITÀ DELLE DONNE



Milano, 15 giugno 2014 
- In seguito alla diffusione sui tram e i bus cittadini di una pubblicità offensiva della dignità delle donne e palesemente in contrasto con la delibera approvata dalla Giunta il 28 giugno 2013, il Comune si è immediatamente attivato sia coinvolgendo lo IAP (Istituto Autodisciplina Pubblicitaria), che domattina renderà nota la propria decisione in merito, sia chiedendo con forza ad Atm di rimuovere i manifesti.
La Vice Sindaco Ada Lucia De Cesaris e la Delegata per le Pari Opportunità
Francesca Zajczyk hanno infatti dichiarato:

 “Chiediamo con forza ad Atm di rimuovere i manifesti che offendono non solo le donne ma l’intera città. Chiediamo altresì ad Atm di porre maggiore attenzione ai contenuti della delibera, che comunque li riguarda in quanto azienda partecipata del Comune di Milano, e in particolare al punto 4 della delibera stessa che
recita ‘(…) non è l’esposizione del corpo nudo di per sé a rendere il
messaggio pubblicitario contrario a tale criterio, ma lo diventa nel
momento in cui (…) non è presente alcuna correlazione tra l’immagine
femminile e il prodotto sponsorizzato e commercializzato’. 

La speranza  hanno proseguito la Vice Sindaco De Cesaris e la Delegata Zajczyk – è che da questo episodio Atm tragga la consapevolezza di dover applicare anche
alla propria società i criteri indicati nella delibera comunale, rifiutando pubblicità che usino impropriamente il corpo della donna e adeguandosi in questo modo alle altre aziende che già hanno seguito le indicazioni della delibera; tanto è vero che in un anno dall’approvazione della delibera nessun’altra segnalazione è pervenuta all’ufficio comunale preposto”.

lunedì 16 giugno 2014

Si chiama spazio conciliazione, si legge scuola aperta di Sara De Carli

Otto scuole milanesi hanno aperto un locale, dandolo ai genitori. Chi è in ritardo, avvisa e trova qualcuno a cui affidare il figlio. Chi ha tempo, organizza laboratori. I genitori si conoscono e si scambiano disponibilità e bisogni. E con il babysitting aumenta la partecipazione alle riunioni dei genitori.

Nell’anno che si è appena concluso, hanno usufruito dello spazio conciliazione 1.598 persone, di cui 688 adulti e 910 bambini: un bel risultato per un progetto pilota che ha solo due anni e che coinvolge 8 scuole milanesi. Carlotta Jesi, giornalista e fondatrice di Radiomamma, racconta così gli avvii del progetto, realizzato con il Comune di Milano: «Siamo partiti da un dato: nel 2010, in Lombardia, 5 mila mamme hanno lasciato il lavoro entro l’anno dalla nascita del primo figlio, di cui 1.700 a Milano. L’esigenza di conciliare famiglia e lavoro c’è, è reale. Abbiamo fatto un questionario online su Milano e abbiamo portato a galla i maggiori bisogni di conciliazione delle mamme e altri questionari nelle scuole dei Navigli: quasi tutte le mamme dicono che avrebbero bisogno di un aiuto ma non si conoscono tra loro, quindi non si fidano. Lo spazio conciliazione è nato da lì».
L’idea è semplice e geniale ad un tempo. Il lunedì non faccio in tempo a prendere mio figlio alle 16, avrei proprio bisogno che qualcuno lo prendesse e me lo tenesse un quarto d’ora; poi io potrei ricambiare il giovedì. Se tutto questo viene messo nero su bianco in un quaderno, con tanto di disponibilità e numeri di telefono per le emergenze, è più facile incrociare bisogni e disponibilità. La premessa indispensabile però è conoscersi, per fidarsi. «Siamo partiti l’anno scorso, con cinque scuole. I dirigenti hanno dato la disponibilità di un locale, che è diventato lo spazio conciliazione. È aperto una volta alla settimana, dal termine delle lezioni alle 18-18,30», spiega Carlotta. Qui i genitori si fermano, insieme ai loro bambini: fanno attività e laboratori, si conoscono, fanno rete, si scambiano idee. Se una mamma deve fare una commissione o portare a calcio il bambino più grande, può affidare il piccolo al genitore referente dello spazio conciliazione. Lo stesso se ha un imprevisto ed è un po’ in ritardo sull’uscita da scuola. Lì c’è il quaderno giallo con le tabelline “delegami”, per lo scambio di favori tra genitori.
«È una forma di auto-aiuto all’interno della scuola, che ci ha consentito di coinvolgere anche genitori che non sarebbero mai stati coinvolti da una proposta di attivazione o di scuola aperta. È uno spazio fisico che apre uno spazio mentale, partiamo da un bisogno di conciliazione per attivare e progettare», continua Carlotta. Un esempio? «In genere la presenza dei genitori alle riunioni di classe non è elevatissima, è un peccato. Quest’anno abbiamo pensato di creare un servizio di babysitting all’interno dello spazio conciliazione, durante l’assemblea, con i genitori che hanno sorvegliato a turno alunni e fratelli. È bastato un permesso speciale del dirigente per l’apertura straordinaria dello spazio conciliazione, è stato un successo». In un altro caso i genitori, incorciando le disponibilità e i bisogni, hanno trovato un aiuto per fare fare i compiti a una bambina straniera, che la famiglia non riusciva a seguire nei compiti: «Viene una maestra in pensione, volontaria, le fa fare i compiti all'interno dello spazio conciliazione», dice Carlotta.
I nodi veri però sono quelli: l’assicurazione per rimanere nella scuola dopo l’orario di lezione, le pulizie, i costi aggiuntivi per il personale… «Lo spazio conciliazione non comporta alla scuola un costo aggiuntivo perché sono gli stessi genitori a farsi carico delle pulizie del locale, a fine giornata. Spesso sono gli stessi genitori della scuola che arredano lo spazio conciliazione. Quanto all’assicurazione, nelle scuole elementari abbiamo risolto inserendo lo spazio conciliazione nel POF, alle scuole dell’infanzia oltre a questo i genitori firmano un modulo che scarica la scuola dalla responsabilità».
Quest’anno le scuole coinvolte sono diventate otto e lo slogan porto-progetto-penso in grande ha portato già diversi risultati. «Alla primaria di via Vigevano c’era una biblioteca scolastica vissuta solo da alunni e insegnanti, da tempo i genitori desideravano aprirla il pomeriggio ma c’era il problema dell’assicurazione. Abbiamo risolto trasferendo lo spazio conciliazione in biblioteca, con un’ottima collaborazione fra i genitori della biblioteca e quelli dello spazio conciliazione». I prossimi passi? Già li hanno immaginati: «Avere un rappresentante dello spazio conciliazione nel consiglio d’istituto. Allargare lo spazio conciliazione al giardino o al cortile della scuola, per farci anche delle feste di compleanno. Creare una figura di “genitore custode” che possa aprire lo spazio conciliazione anche durante il week end».


venerdì 13 giugno 2014

Nasce in Francia la “Carta per l’equilibrio dei tempi della vita”: mai più riunioni aziendale prima delle 9 o dopo le 18!

Nasce in Francia la “Carta per l’equilibrio dei tempi della vita”: mai più riunioni aziendale prima delle 9 o dopo le 18!
In questi giorni, in Francia, il Ministero per i Diritti delle Donne e l’ Osservatorio per la genitorialità nelle imprese (a cui aderiscono oltre 500 aziende con oltre 4 milioni di dipendenti) hanno presentato la “Carta per l’equilibrio dei tempi della vita“, una serie di norme aziendali che hanno l’obiettivo di migliorare la conciliazione tra vita professionale e famigliare.
Fra le cose più significative, il testo vieta le riunioni aziendali prima delle ore 9 e dopo le ore 18; vieta, salvo urgenze, di mandare email o sms fuori dall’ orario d’ ufficio; vieta  le comunicazioni professionali durante i weekend.
La Carta incita i dirigenti d’impresa ad assumersi 15 impegni per favorire l’equilibrio tra lavoro e famiglia. Il dirigente deve:
 

1 – Incarnare lo spirito d’èquipe
2 – Facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia
3 – Considerare le pecularità di ognuno per vigilare sulla coesione del gruppo
4 – Preservare orari di lavoro ragionevoli
5 – Comunicare con anticipo i rinvii dei congedi e delle ferie
6 – Evitare di convocare i lavoratori il weekend , la sera o durante le ferie salvo eventi eccezionali
7 – Prendersi le ferie e salvaguardare le ferie dei lavoratori
8 – Pianificare le riunioni tra le 9 e le 18 salvo urgenze
9 – Evitare le ruiunioni quando qualcuno dei partecipanti non possono essere presenti
10 – Favorire l’uso di audio e video conferenze e privilegiare le riunioni brevi
11 – Non considerare tutte le riuninoni obbligatorie, ma delegare
12 – Organizzare le riunioni in maniera efficace
13 – Non cedere all’instantaneità dei messaggi email
14 – Limitare l’invio delle email fuori dagli  orari di lavoro e nei weekend
15 – Essere brevi nelle email e non mettrere in copia persone non direttamente interessate
 

Di particolare rilievo il fatto che già 16 grandi gruppi  – Bnp Paribas, Carrefour, Capgemini, Bouygues Telecom, Caf de Paris, Allianz France, Axa, Caisse de Dèpot, Casino, Coca-Cola France, Hsbc, Lvmh, Michelin, Orange, Orangina-Schweppes, Randstad  – hanno sottoscritto il testo che dovrà essere rispettato dai dipendenti.
 


giovedì 12 giugno 2014

Agorà del Lavoro di Milano, 27 gennaio 2014 Silvia Motta presenta Ina Praetorius


Agorà del Lavoro di Milano, 27 gennaio 2014
Silvia Motta presenta Ina Praetorius
Buongiorno, benvenute e benvenuti all’Agorà.
Quella di stasera è un’occasione speciale di incontro e confronto qui all’Agorà perché abbiamo la fortuna di avere con noi Ina Praetorius.
Alcune già la conoscono: Ina è stata presente più volte a incontri alla Libreria delle Donne che, tra l’altro, ha tradotto e pubblicato il suo bel libro “Penelope a Davos, idee femministe per un’economia globale”.
Anche la rivista Via Dogana fin dal 2002 ha riportato suoi testi e conversazioni con il gruppo lavoro. Ma, per chi la conosce meno, due parole su di lei prima di cominciare.
Ina – che con gran senso dell’umorismo si autodefinisce una rompiscatole postpatriarcale, come abbiamo scritto nell’invito – è una pensatrice femminista di prima grandezza, autrice di numerosi libri, saggi, articoli su varie riviste. È nata in Germania e vive con la famiglia a Wattwil in Svizzera. È dottora in teologia, casalinga e madre di una figlia.
Se qualcuno però andasse a leggere la sua presentazione sul suo sito internet, nella sezione “about me”, troverebbe una cosa molto divertente: Ina si presenta in tre modi, con tre curriculum.
- Un CV (livello C), dove descrive quello che è fa in maniera personale /non neutra, ma piuttosto convenzionale: sua madre l’ha messa al mondo nel tal anno, dove è cresciuta, gli studi che ha fatto, chi ha sposato, che ha avuto una figlia, dove abita ora.
- Un CV (livello A), dove la stessa Ina è nata in vari paesi e cresciuta in varie città, Manila, Tokio, ha studiato e lavorato in tutto il mondo, è stata consigliera permanente al Pentagono e al Ministero Afgano degli Affari esteri, ha avuto tanti figli, ha sposato Bill Gates et Britney Spears …
Cioè si descrive come cittadina del mondo e artefice del mondo, per un’autorevolezza che non le deriva dall’esterno ma che lei si dà.
Poi un ulteriore CV (livello A*) , dove inizia dicendo:
Nel marzo 1956 sono uscita dal corpo di mia madre come una neonata sanguinante, appiccicosa, urlante, ricoperta di muco. Negli anni delle persone più grandi mi hanno fornito nutrimento, riparo, il calore e il senso della vita. Ho ricevuto delle parole come “Dio”, “Amore” o “Gesù Cristo” per orientarmi nel mondo e dare senso alla mia vita… ecc.Poi dice che al mattino si alza e alla sera va a letto e cosa fa tra questi due intervalli, fino a concludere “ Un giorno morirò”.
Cioè descrive se stessa a partire da quello che, nella costruzione patriarcale della storia, è stato rimosso: la nascita, che tutti nasciamo da donna e siamo esseri dipendenti. Un rimosso che ha prodotto quello che Ina definisce “un errore del pensiero, fonte di una serie infinita di conseguenze, intorno alla quale ruota la nostra percezione del mondo”.
In questa presentazione c’è molto del suo pensiero. Un pensiero che si misura con i grandi temi dell’oggi e che sovverte in maniera radicale il modo patriarcale di guardare all’economia, al lavoro, alla vita.
È un pensiero che io ho incontrato per la prima volta leggendo Penelope a Davos. Quella Davos dove ogni anno, anche in questi giorni, si riuniscono i big dell’economia e della finanza per, secondo loro, dare una sistemata al mondo, e dove Ina ha partecipato in qualità di osservatrice.
In una fantasia di Ina, Penelope è lì negli ingressi super sorvegliati del lussuoso centro congressi… è lì con il suo telaio per la tessitura, non più figura passiva come tradizione vuole, ma con il distacco e il punto di vista di una donna che sa che va ripensato tutto dall’inizio. Quindi disfa, per poi tessere, ri-tessere.
Ecco, “ripensare tutto dall’inizio” è quello che Ina Praetorius fa sviluppando il suo pensiero economico e politico. Un’economia e un’antropologia della natalità.
Le abbiamo chiesto di parlarne qui all’Agorà del lavoro, perché l’Agorà è nata proprio con l’ambizione di portare nell’economia, nel lavoro, nel mondo il punto di vista delle donne. Ambizione e contenuti che io ritengo molto in sintonia con il pensiero di Ina Praetorius.
È proprio qui, all’Agorà, che abbiamo dato voce e sostanza a concetti come il “Primum vivere”, che il lavoro è molto di più”, che “il lavoro è tutto il necessario per vivere, non solo il lavoro per il mercato” ecc.
Ma, proprio perché ne parliamo qui all’Agorà – che vuole essere un luogo di elaborazione politica e una pratica attiva – le abbiamo chiesto di parlarci anche delle traduzioni politiche e pratiche che lei fa del suo pensiero.
In particolare le abbiamo chiesto di raccontarci l’esperienza che ha fatto nella campagna in Svizzera sul reddito di base incondizionato, un’attività che ha portato avanti con l’intento di interpretare questo obiettivo in maniera post-patriarcale. E che le ha procurato non pochi conflitti.
Passo la parola a Ina Praetorius e a Traudel Sattler che farà le traduzioni.

Ina Praetorius Il reddito di base incondizionato come progetto postpatriarcale.
Per quanto ne sappiamo, finora tutti gli esseri umani sono venuti al mondo come poppanti: dal corpo di un essere umano di sesso femminile della generazione precedente. I “nuovi arrivati” possono sopravvivere solo se qualcuno/a dà loro ciò di cui hanno bisogno. Di che cosa hanno bisogno? Di protezione, di cibo, vestiti, calore, amore, stimoli, sonno, tranquillità, regole, lingua, morale e di molte altre cose. Tutto questo i nuovi nati lo ricevono come dono, perché non sono in grado di pagarlo.
Se cominciamo a ripensare l’economia a partire da questo fondamento – difficilmente contestabile – della conditio humana, allora molte cose cambiano. Perché oggi, nel tempo del fine patriarcato, viviamo ancora con un ordine simbolico che mette al centro il maschio adulto oppure uno pseudo-neutro da lui derivato: il soggetto economico “libero”, colui che partecipa al mercato, il cittadino ecc. Nella stessa logica l’economia viene sì definita come azione collettiva, basata sulla divisione del lavoro per soddisfare i bisogni umani, ma di fatto si comincia a parlare di economia a partire dai soldi, dal mercato, dallo stato e dall’età adulta, tacendo così almeno la metà delle misure atte a soddisfare i bisogni: infatti il lavoro di cura indispensabile, finora in larga misura gratuito, è il settore maggiore dell’economia, come è stato dimostrato. In Svizzera è entrato da qualche anno nella statistica ufficiale; solo che i media e la ricerca mainstream finora non ne hanno davvero preso atto. Anche se una grande parte della società continua a rifiutarsi di guardare tutta l’economia, è giusto dire che solo chi ha una visione d’insieme – che comprende cura di base, lavoro volontario, mercato e forse altro ancora – e solo chi vede il nostro agire economico inserito nel cosmo vulnerabile che continua ad elargire doni, può affrontare le varie crisi del nostro tempo in modo adeguato e sviluppare delle soluzioni durevoli.
2400 anni di Self Made Man (l’uomo che si è fatto da sé)
Dal 21 aprile 2012 fino ai primi di marzo 2013 ero impegnata a raccogliere firme per l’“iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato”. In quell’occasione, nelle strade e piazze svizzere, ho sentito dire tante volte: “La mia vita me la sono guadagnata da solo!”
Che cosa vogliono dire i numerosi ex poppanti con questa frase?
Loro pensano che, dopo aver ricevuto gratuitamente per anni da qualcun altro tutto il necessario, alla fine hanno fatto degli sforzi per guadagnare soldi: per esempio hanno fatto la scuola, si sono dati una formazione, hanno trovato un posto di lavoro oppure hanno “fatto carriera” . Queste fatiche pluriennali meritano, senza dubbio, un certo riconoscimento. Posso persino capire che alcune persone che sentono di “mantenere con le loro fatiche” se stessi e forse anche una famiglia, non se la sentano spontaneamente di dare una parte del loro denaro a coloro che si impegnano meno.
Questa affermazione “guadagnarsi la vita con le proprie forze” è abbastanza corrente e stranamente poco messa in dubbio. È il riflesso fedele della visione semplicistica dell’economia, con la quale conviviamo dalla fine del ‘700 circa. Il liberalismo economico moderno, a sua volta – così come molte parti della teoria socialista – si basa su una visione sdoppiata del mondo che troviamo già nel quarto sec. A. C., ad esempio nell’autorevole Politica di Aristotele: Il filosofo sostiene che l’uomo che secondo la sua natura non appartiene a se stesso ma ad un altro è per natura uno schiavo, e anche il rapporto tra maschile e femminile sarebbe per natura così: uno è meglio, l’altra inferiore, uno governa, l’altra viene governata. Sempre secondo il filosofo, la gestione della casa è una monarchia – perché ogni casa viene governata da un’unica persona – la politica al contrario consiste nel governare uomini liberi e uguali tra loro.
Esiste quindi una continuità strutturale tra la società schiavista dell’antichità, che molti ancora oggi chiamano affettuosamente “la culla della civiltà occidentale” – e la nostra vita collettiva di oggi. Ma si comincia a vedere che “la mano invisibile del mercato”, buona erede del “Dio padre” patriarcale, in realtà sono innumerevoli mani, soprattutto femminili, che lavorano. Ora quelle mani cominciano a diventare visibili, e ciò crea degli spostamenti, delle crisi – ed enormi spazi d’azione.
Si potrebbe ricominciare a riflettere …
Il dibattito sul reddito di base incondizionato sarebbe, ad esempio, una possibilità straordinaria per pensare noi stessi come esseri umani in modo del tutto nuovo – o forse antico: liberi nella dipendenza. Esseri umani che hanno ricevuto molti doni, in continuazione, all’inizio della vita e anche in età adulta, e che “si sono guadagnati da soli” solo una piccola parte della loro vita. La politologa Antje Schrupp spiega il necessario cambio di paradigma dicendo:
La realizzazione dell’idea del reddito di base richiede un profondo ripensamento culturale, con due aspetti che non si possono guardare separatamente: da una parte l’idea che è normale ricevere qualcosa senza prestazione in cambio, dall’altra parte l’idea che le persone si sentono responsabili del loro ambiente e che fanno il necessario, anche senza essere costrette o remunerate.”
Se si affrontasse il dibattito alla luce dell’intera economia, invece di quella basata esclusivamente sul denaro, allora si vedrebbe che il reddito di base non è solo una questione di più libertà, come continuano a sottolineare molti dei protagonisti maschili di questo movimento, ma che si tratta piuttosto di organizzare le attività necessarie in modo nuovo. Finora si è parlato molto di libertà e poco di dipendenza e necessità – e solo raramente si dice che le donne già da molto tempo si stanno facendo carico della maggior parte della attività necessarie, senza quegli “incentivi economici”, da molti ritenuti indispensabili.
e spesso si lascia perdere
A questo proposito vorrei citare l’esempio della polemica nata attorno alla trasmissione-dibattito “Arena” alla televisione svizzera del 27 aprile 2012, dedicata alla discussione sul reddito di base. In quella trasmissione si confrontavano quattro uomini, due favorevoli e due contrari. La trasmissione durava 75 minuti. Gli uomini presenti ne hanno occupato 72 per i loro interventi, le donne tre. Dopo 10 minuti viene inserito un grafico per illustrare il progetto reddito di base: una sagoma maschile, accompagnata dal commento
Uno che guadagna 10.000 franchi, nel nuovo sistema riceve un reddito di base di 2.500 franchi e uno stipendio di 7.500.”
Poi appare una sagoma femminile, accompagnata dal testo:
Chi non lavora riceve, senza fare niente, 2.500 franchi.”
L’affermazione ripetuta più volte dai contrari all’iniziativa, cioè “chi non guadagna denaro non rende, e quindi bisogna stimolare queste persone con incentivi monetari” non incontra quasi alcuna obiezione.
Fortunatamente la massima istanza per il controllo dei media ha accolto all’unanimità il ricorso di una telespettatrice, Martha Beéry-Artho, che aveva formalmente protestato per mancanza di informazione adeguata in questa trasmissione. Il giudizio che le dà ragione dice che il maggiore settore economico, non pagato o sottopagato, cioè la cura, non deve essere un “aspetto secondario” in una trasmissione dedicata al futuro della convivenza umana.
Ma la storia non finisce qui: nelle settimane successive al giudizio dell’autorità di ricorso, io in quanto membro del comitato d’iniziativa ho cercato di far capire alle e agli altri promotori e anche ai media che questo fatto era da mettere in grande rilievo.Ma giornalisti di grido, redattrici e attivisti per il reddito di base si sentivano infastiditi dalla mia richiesta e mi spiegavano che non spettava a loro “portare più donne in televisione”. Erano sordi alla mia obiezione che una rappresentazione adeguata della dipendenza dalla cura non si ottiene grazie a “più donne”, ma solo attraverso precise analisi economiche. Il comitato d’iniziativa ha deciso a maggioranza di non pubblicare un commento positivo sul giudizio dell’autorità di ricorso. Il giudizio è poi stato pubblicato in Internet e io ho smesso di raccogliere firme per l’iniziativa popolare, cosa piuttosto inusuale per una che l’ha promossa. In seguito la potente società televisiva ha trascinato il caso davanti alla corte suprema. Quest’ultima ha revocato il giudizio dell’autorità di ricorso l’11 ottobre 2013.
Ancora da capo
L’ “iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato” ha consegnato a Berna il 4 ottobre 2013 più di 120.000 firme valide. Il dibattito continua, e ciò significa che avremo ancora molte occasioni per dare un’impronta postpatriarcale al reddito di base incondizionato, contro una resistenza massiccia, ma con molto divertimento e molto lavoro sulle relazioni e sul linguaggio.
Insomma, la questione fondamentale di questo dibattito è di capire chi siamo in realtà, noi esseri umani: riconosciamo il fatto di essere dipendenti dalla cura, e che riceviamo tanti doni, anche da adulti? Capiamo che per questo motivo ogni forma di attività nel mondo è un atto di restituzione per qualcosa ricevuto in precedenza? In futuro, tutti, non solo le casalinghe e le madri, saranno disposti a fare le cose sensate e necessarie, senza incentivi monetari?
La politica postpatriarcale è un’arte. È un processo di contrattazione che non finisce mai. Mi capita di disperarmi per l’ottusità di tante persone. Mi capita di essere talmente arrabbiata da voler prendere d’assalto il grattacielo della società televisiva, e anche il tribunale federale. Ma quasi sempre è una festa continuare il lavoro, imperterrita, insieme alle mie amiche politiche. Traduzione dal tedesco: Traudel Sattler

mercoledì 11 giugno 2014

Da ceto medio a quasi poveri: ecco i «penultimi», di Carlo Buttaroni / Italia, i ricchi sempre più ricchi:

Da ceto medio a quasi poveri: ecco i «penultimi», di Carlo Buttaroni

Per lungo tempo il lavoro è stato il paradigma di una società che faceva perno intorno alla fabbrica e all’ufficio. Un modello di organizzazione sociale riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita, il cui tracciato essenziale era stato incastonato nel primo articolo della Costituzione: una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria ma anche le altre sfere dell’esistenza: la scuola accompagnava il giovane all’età lavorativa, la sanità pubblica si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti dalle malattie, le pensioni di anzianità garantivano la sicurezza economica all’uscita dal mondo della produzione.
È su queste premesse che l’Italia è cresciuta fino a diventare uno dei Paesi più ricchi del mondo, dando corpo al suo «ceto medio» e facendolo diventare il principale bacino di approvvigionamento del sistema di welfare: dalla scuola alla sanità, dalle pensioni agli strumenti di sostegno alle famiglie più disagiate. Per oltre mezzo secolo tutto questo è stato il tracciato di una storia di crescita economica, culturale e sociale straordinaria: a livello macro, erano molti più gli italiani che accedevano a livelli superiori di benessere di quanti, già benestanti, accumulavano altra ricchezza. E mentre le disuguaglianze diminuivano, il benessere si diffondeva insieme ai diritti di cittadinanza cui accedevano fasce sempre più ampie di popolazione.
Oggi tutto questo sembra lontanissimo: il lavoro non è più (se non a parole) il fulcro del modello di organizzazione sociale, il sistema di welfare è stato ampiamente rimodulato e non è più in grado di rispondere alla crescita della domanda di protezione sociale. E un fantasma si aggira fra i detriti della «tempesta perfetta»: quello della povertà. Chi diventa povero in Italia ha probabilità maggiori di restarlo per tutta la vita, contrariamente a ciò che accade in altri Paesi avanzati dove la povertà ha caratteristiche più transitorie e meno definitive. E nemmeno il lavoro, che ne ha sempre costituito l’antidoto, è in grado ormai di preservare dai rischi di vedere materializzarsi una condizione che in Italia ha tradizionalmente forme definitive.
Nel complesso, la condizione di povertà riguarda l’11% degli occupati ed è cresciuta sia tra i lavoratori dipendenti che tra gli autonomi, colpendo soprattutto le fasce affluenti del ceto medio, come dirigenti e impiegati. I segnali di peggioramento si rilevano in tutte le ripartizioni geografiche: il 6% nel Nord, il 7% nel Centro e il 26% nel Mezzogiorno. In quest’area, in particolare, vive in condizioni di povertà il 32% delle famiglie di operai, il 24% di quelle con a capo un lavoratore dipendente e il 21% di quelle che hanno come persona di riferimento un lavoratore autonomo. L’Italia è il Paese che, in questi ultimi due anni, ha perso più posizioni in Europa negli indicatori dello sviluppo economico e sociale e l’indice della popolazione a rischio di povertà propone gli scenari più inquietanti proprio per la quota di poveri che dispongono di un reddito mensile fisso. E qui la crisi c’entra, ma fino a un certo punto. Di più hanno contribuito le scelte di politica economica basate su quell’ossimoro che, con una punta di cinismo, è stata chiamata «austerità espansiva». Scelte che hanno dato forma a nuove traiettorie d’impoverimento, modificato le forme del disagio sociale, spostato l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di «povertà cronica» a quella di «processi d’impoverimento diffuso» in cui si è trovata coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita dignitosa e il sostentamento necessario.
Ed ecco che quindi gli working poors, definiti anche «poveri in giacca e cravatta», rappresentano una delle drammatiche conseguenze del momento buio che stiamo vivendo.
Una zona grigia di nuove povertà, forse la più rilevante, dal punto di vista economico e sociale, nel momento in cui rappresentano una condizione che ha radici, non nella mancanza del lavoro, ma nel lavoro stesso che non è più in grado di garantire un reddito sufficiente per una vita senza stenti. Se, un tempo, la presenza di anche solo un membro portatore di reddito in famiglia era condizione sufficiente per non cadere in povertà, oggi, con le medesime condizioni, ci si sposta rapidamente sotto la soglia. E questo vale per una famiglia su dieci che stenta ad arrivare alla fine del mese. Il fenomeno non ha «professione», ma ingloba quasi tutte le categorie: dal pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato, dal dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione. Ed ecco che la gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti «penultimi». Una grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che non riesce più a puntare verso l’alto della piramide sociale, ma si sente risucchiata verso il basso e sfiora pericolosamente la soglia di povertà fino a oltrepassarla. Un ceto medio che va scomparendo, quindi, portando alla destabilizzazione degli stabili, con una regressione nella scala sociale fino alla proletarizzazione, fino alla discesa nella sfera del bisogno e nella perdita del benessere, mettendo a nudo, in modo impietoso, lo stato di degradante malessere del Paese. È un’Italia che aggiunge, ai milioni di disoccupati e cassintegrati, altri milioni che non riescono ugualmente a far fronte alle necessità quotidiane. Le bollette della luce, del gas, le rate del condominio, la tassa della spazzatura sono diventate un incubo: oltre un quarto delle famiglie italiane ha difficoltà a pagarle. Mentre le diseguaglianze (dati Ocse) sono aumentate molto più che in altre economie occidentali: chi stava molto bene adesso sta ancora meglio mentre tutti gli altri stanno decisamente peggio.
Il crollo del ceto medio è il segnale di allarme rosso che suona da Nord a Sud. È la povertà dei «non-poveri», chiamati anche «poveri grigi», in bilico tra normalità e miseria, precipitati nel mondo del bisogno con percorsi di caduta diversi dal tradizionale accumulo di eventi critici (disoccupazione, problemi di salute, separazioni), come cartelle esattoriali impreviste e persino multe. E in quel corpo sociale che, per anni, ha rappresentato il motore economico dell’Italia e il grande incubatore della fiducia nel futuro, oggi prevale una sofferenza che non avevamo mai conosciuto, un’incertezza che li ha scoperti impreparati ad affrontare i problemi che si sono trovati davanti, senza che qualcuno si occupi veramente di loro.



Italia, i ricchi sempre più ricchi:
 il 10% possiede il 46,6% del Paese
Induce a riflettere sulle disuguaglianze crescenti nel nostro Paese: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% delle ricchezza netta familiare totale (45,7% nel 2010). A rilevarloL’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nel 2012 della Banca d’Italia. Che mostra come il 10% delle famiglie con il reddito più basso percepisce il 2,4% del totale dei redditi prodotti mentre il 10% di quelle con redditi più elevati percepisce invece una quota del reddito pari al 26,3%...
Induce a riflettere sulle disuguaglianze crescenti nel nostro Paese: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% delle ricchezza netta familiare totale (45,7% nel 2010). A rilevarloL’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nel 2012 della Banca d’Italia. Che mostra come il 10% delle famiglie con il reddito più basso percepisce il 2,4% del totale dei redditi prodotti mentre il 10% di quelle con redditi più elevati percepisce invece una quota del reddito pari al 26,3%.
LA COMPOSIZIONE – In Italia metà delle famiglie vive con meno di 2mila euro al mese. In particolare, solo la metà ha un reddito annuo superiore ai 24.590 euro (circa 2milaeuro al mese), mentre un 20% conta su un reddito addirittura inferiore ai 14.457 euro (1.200 euro al mese). Il 10% delle famiglie a più alto reddito, invece, percepisce più di 55.211 euro. L’esito è che in Italia la povertà pseudo-assoluta è salita dal 14% del 2010 al 16% nel 2012. Nell’indagine biennale sui bilanci delle famiglie, Bankitalia individua la soglia di povertà con un reddito di 7.678 euro netti l’anno (15.300 euro per una famiglia di 3 persone).
LA GENERAZIONE – La situazione peggiore è però ancora una volta quella dei giovani: negli ultimi 20 anni il reddito equivalente è calato di 15 punti percentuali nella fascia 19-35 anni e di circa 12 punti in quella 35-44. Ed è tra le famiglie sotto i 34 anni che nel 2012 si registra la diminuzione più marcata di ricchezza netta familiare. Resta contenuta la diffusione dell’indebitamento, legato per lo più a mutui per l’acquisto o la ristrutturazione della casa: risulta al 26,1%, in calo rispetto al 27,7% del 2010, con un ammontare medio del debito di poco superiore ai 51mila euro. Cresce invece la vulnerabilità finanziaria – una rata per il rimborso dei prestiti superiore al 30% del reddito insieme a un reddito monetario sotto la mediana – che nel 2012 riguardava il 2,6% delle famiglie (+0,4% rispetto alla rilevazione precedente), circa il 13,2% dei nuclei indebitati (+3,1%).
LE CLASSI – Tra il 2010 e il 2012 il deterioramento delle condizioni economiche ad ogni modo è stato più accentuato per i lavoratori indipendenti (il cui indice passa da 144 a 138 per cento della media) rispetto a quello dei dipendenti e delle persone in condizione non professionale (entrambi stabili intorno rispettivamente a circa 109 e 91). Solo l’indice relativo ai pensionati sale da circa 108 a 114. La flessione ha riguardato tutte le classi di età ad eccezione degli anziani, per i quali l’indice passa da 106 a 114. Nell’arco del passato ventennio chiuso nel 2012, il reddito equivalente degli individui anziani è passato, in termini relativi, dal 95 al 114 per cento della media generale. Anche la posizione relativa delle persone fra 55 e 64 anni è migliorata (+18 punti percentuali).
«MA C’E’ RIPRESA»- Per il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, l’indagine di Bankitalia non contraddice il fatto che l’Italia sia uscita davvero dalla crisi: «L’uscita dalla crisi vuol dire che c’è ripresa dell’attività economica e che si esce dalla recessione», ha sottolineato Saccomanni, «non si può negare che l’economia si è stabilizzata nel terzo trimestre 2013, ha cominciato a crescere nel quarto trimestre e crescerà anche nel 2014».

martedì 10 giugno 2014

Come diventare un paese anche per donne di Gianna Fregonara e Orsola Riva / La rivoluzione Huffington "Donne, lavorate meno"di ARIANNA HUFFINGTON


Come diventare un paese anche per donne di Gianna Fregonara e Orsola Riva

I dati diffusi dall’Istat confermano che l’Italia non è un Paese per donne. Le culle restano vuote, le più vuote d’Europa. E la partecipazione al mercato del lavoro non decolla: meno di una donna su due ha un impiego. Con un tasso di occupazione femminile del 46,6 per cento siamo il penultimo Paese del Continente, davanti soltanto a Malta. Come ci ha rimproverato qualche settimana fa il direttore del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, siamo «uno dei Paesi che incoraggiano di meno la partecipazione delle donne al lavoro». Una donna su due, dopo il primo figlio, alza bandiera bianca e lascia la fabbrica o l’ufficio.
È questa una scommessa persa non solo per le donne — perché tutte le volte che leggiamo una statistica sul fatto che non facciamo più figli ci giriamo a guardare solo dalla parte delle donne? — ma per tutto il Paese. Si calcola, infatti, che se ci allineassimo agli standard europei, il nostro Pil aumenterebbe di sei o sette punti percentuali. E forse anche le nostre culle resterebbero meno vuote. Perché non è più vero che ci sia un nesso negativo fra tasso di fecondità e tasso di impiego. Vale semmai l’opposto: le donne francesi sono in cima alla classifica europea per numero di figli (un paio a testa, contro una media Ue di uno e mezzo e il record negativo italiano di 1,3) e il loro tasso di impiego è sensibilmente più alto che da noi (sfiora il 60 per cento). Certo, loro possono contare su una serie di misure (in primis il celeberrimo sistema di nidi) che aiutano la conciliazione fra vita professionale e famiglia. Mentre da noi solo 10 bambini su 100 nella fascia d’età fra zero e due anni trovano posto negli asili pubblici.
Il problema è che finora gli interventi a sostegno della maternità sono stati pensati prevalentemente come aiuti alle famiglie deboli, ai redditi bassi, come welfare anti-povertà, senza un vero e proprio riconoscimento del valore sociale della maternità in generale. Né tantomeno del valore del lavoro femminile.
E così finisce che a molte donne lavorare non conviene: senza reti familiari (per trovare un impiego spesso bisogna essere disposti a spostarsi da casa e andare dove il mercato chiama) e prive di strutture pubbliche di sostegno (non solo per l’accudimento dei più piccoli ma anche per la cura degli anziani che, tradizionalmente in Italia, è in capo alle figlie o alle nuore), lavorare diventa, paradossalmente, non una fonte di guadagno ma un costo personale, e anche economico, insostenibile. Uno studio riportato oggi sul Corriere dimostra come nelle aziende italiane siano ormai tramontati i vecchi pregiudizi sulle donne ma permanga un’organizzazione rigidissima del lavoro che spesso le costringe a rinunciare quando fanno un figlio. Alcuni progressi sono stati fatti in termini di incentivi fiscali alle aziende che assumono donne dopo la maternità, ma le politiche sulla conciliazione lavoro-famiglia restano molto indietro. Il Nord e il Sud poi ci raccontano due realtà completamente diverse con una qualità dei servizi molto distante e punte di inefficienza inaccettabili come il caso della chiusura lo scorso anno dell’ultimo asilo rimasto a Reggio Calabria.
Come aiutare l’Italia a diventare un Paese anche per donne (e bambini)? Qualche mese fa sulle pagine del Corriere Maurizio Ferrera ha fatto una proposta in 4 punti che vorremmo rilanciare.
Primo: allungare il congedo obbligatorio di paternità; un giorno non basta nemmeno da un punto di vista simbolico, figuriamoci sul piano pratico.
Secondo: ampliare l’offerta dei nidi pubblici creando almeno 100 mila posti in più in 5 anni.
Terzo: aumentare i servizi anche a domicilio per la cura dei nostri genitori.
Ultimo ma non per ultimo, agire sugli orari di lavoro rendendoli molto più flessibili (la stessa Lagarde citava il modello olandese dove il part-time è quasi un diritto e a chiederlo sono sempre più spesso anche gli uomini).
Si potrebbe aggiungerne un quinto. Come suggerito qualche giorno fa sulla Lettura da Paola Mastrocola, basta con le scuole medie chiuse al pomeriggio. Non ha senso abbandonare i nostri ragazzi a se stessi in una fase così delicata del loro sviluppo. Usiamo quelle ore in più non per lezioni frontali ma ad esempio per la lettura condivisa di un libro in classe. Aiuteremo loro a diventare grandi e sgraveremo le loro mamme dal compito (oggi immane) di educarli da sole. Certo per farlo ci vogliono dei soldi ma, come diceva Benjamin Franklin, nessun investimento paga un rendimento più alto di quello in conoscenza. Quando, passando davanti a una scuola, inizieremo a guardarla con occhi nuovi, a pensare che lì dentro è custodito un pezzo del nostro Pil (e una garanzia per la nostra pensione), allora e solo allora forse le nostre culle non saranno più vuote.

  1. La rivoluzione Huffington "Donne, lavorate meno"di ARIANNA HUFFINGTON

IL CONCETTO di successo che va per la maggiore adesso (in base al quale lavorare fino al logoramento psicofisico si considera un titolo di merito), e che ci porta all’annientamento, se non addirittura alla tomba, è stato introdotto dagli uomini, in una cultura dominata dagli uomini. Però è un modello di successo che non funziona per le donne, e in realtà nemmeno per gli uomini. A quanto ci dicono, nulla funziona meglio dell’eccesso. Se una certa dose di qualcosa ci sta bene, una dose maggiore deve andare ancora meglio. Dunque lavorare ottanta ore alla settimana dev’essere meglio che lavorarne quaranta. E si dà per scontato che essere reperibili 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana sia un requisito standard di qualunque lavoro serio; il che significa che dormire meno e fare costantemente più cose assieme è il modo più rapido per fare carriera. Siete d’accordo? È venuto il momento di rivedere queste ipotesi. Quando lo facciamo, si vede chiaramente che il prezzo che paghiamo per questo modo di pensare e di vivere è decisamente troppo alto e insostenibile.
L’architettura della nostra vita dev’essere assolutamente rinnovata e ristrutturata. Ciò che apprezziamo davvero è fuori sincronia rispetto al nostro modo di vivere. E occorrono urgentemente nuovi progetti per riconciliare le due cose. Nell’Apologia di Platone, Socrate afferma che la missione della sua vita è far capire agli ateniesi quanto sia importante prendersi cura della propria anima. Il suo invito senza tempo a entrare in sintonia con noi stessi rimane ancora l’unica ricetta per prosperare veramente. Siamo decisamente in troppi a lasciarci dietro la vita — e anche l’anima — quando andiamo al lavoro. [...] Il concetto di successo che va per la maggiore adesso — in base al quale lavorare fino all’esaurimento e al logoramento psicofisico si considera un titolo di merito — , e che ci porta all’annientamento, se non addirittura alla tomba, è stato introdotto dagli uomini, in una cultura dominata dagli uomini. Però è un modello di successo che non funziona per le donne, e in realtà nemmeno per gli uomini. Se vogliano ridefinire il significato di successo, se vogliamo adottare una terza metrica che va al di là del denaro e del potere, dovranno essere le donne a segnare la via, e gli uomini, liberati dall’idea che l’unica strada per il successo sia prendere l’autostrada dell’infarto verso la città dello stress, ci seguiranno riconoscenti sia al lavoro sia a casa. È la terza rivoluzione femminile.
La prima fu guidata dalle suffragette più di un secolo fa, quando donne coraggiose come Susan B. Anthony, Emmeline Pankhurst ed Elizabeth Cady Stanton combatterono per assicurare alle donne il diritto di voto. La seconda fu guidata da Betty Friedan e Gloria Steinem, che combatterono — e Gloria continua a farlo — per ampliare il ruolo delle donne nella nostra società e dare loro pieno accesso alle stanze e ai corridoi del potere, dove si prendono le decisioni. La seconda rivoluzione è ancora in corso, come è giusto che sia. Ma non possiamo proprio più aspettare che cominci la terza rivoluzione. Questo perché le donne stanno pagando un prezzo ancora più alto degli uomini per la partecipazione a una cultura del lavoro alimentata dallo stress, dalla privazione del sonno e dal logoramento psicofisico. Il che spiega perché molte donne di talento e molto qualificate, che occupano posizioni di grandissima responsabilità, finiscono per rinunciare alla carriera appena possono permetterselo.
Vediamo come e perché questi costi personali sono insostenibili. Come accennavo nell’Introduzione — ma è fondamentale ripeterlo — le donne che svolgono lavori altamente stressanti hanno un rischio di sofferenza cardiaca superiore di circa il 40% a quello delle colleghe meno stressate, e un rischio superiore del 60% di ammalarsi di diabete di tipo 2 (un collegamento che non esiste per gli uomini, detto per inciso). Le donne colpite da infarto hanno quasi il doppio delle probabilità degli uomini di morire entro un anno, e le donne che occupano posizioni ad alto stress hanno maggiori probabilità delle altre di diventare alcoliste. Lo stress e le pressioni che si accompagnano a una carriera di alto profilo possono anche causare disordini alimentari nelle donne di età compresa tra i 35 e i 60 anni. Il più delle volte, il dibattito sui problemi che affliggono le donne top manager si incentra sulla difficoltà di conciliare la carriera con l’allevamento dei figli, di “riuscire a fare tutto quanto”. È ora di riconoscere che, di fronte alla struttura attuale dell’ambiente di lavoro, tantissime donne non vogliono arrivare al vertice né rimanerci, perché non vogliono pagarne il prezzo, in termini di salute, di benessere e di felicità. Quando le donne lasciano posti di grande responsabilità, il dibattito si riduce quasi sempre alla contrapposizione binaria tra madre-casalinga e donna in carriera. In realtà, però, quando le donne che occupano posizioni di vertice — o di alto profilo — decidono di andarsene, non è solo per curare i figli, anche se a volte questi prendono il posto del lavoro. [...] Stando a un’indagine di ForbesWoman, un incredibile 84% delle donne lavoratrici intervistate dichiara che stare a casa a curare i figli è un lusso finanziario a cui aspirano. Il che la dice lunga sia sulla soddisfazione che ricaviamo dal lavoro sia sull’amore che ci lega alla nostra certamente adorabile prole.