martedì 18 giugno 2019

Violenza sulle donne, aumentano le richieste ai centri della Lombardia: oltre 6.600 nuovi contatti nel 2018


La rete dei 50 centri antiviolenza e delle 74 case rifugio danno ascolto e ospitalità alle donne che denunciano maltrattamenti fisici e psicologici. Il 62% delle donne accolte sono italiane, vittime soprattutto di mariti e conviventi

Sono ancora in aumento in Lombardia le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza regionali. Nel 2018, secondo i dati raccolti dalla Regione, le vittime di abusi e intimidazioni che hanno usufruito dei servizi sono state 11.323. "Solo i nuovi contatti del 2018 sono stati 6.646, rispetto ai 5.892 casi del 2017", ha spiegato Silvia Piani, assessore alle Politiche per la famiglia, genitorialità e pari opportunità della Regione Lombardia. Sono i 50 centri antiviolenza che, insieme alle 74 case rifugio (erano 46 nel 2017) e alle 27 reti territoriali, "coprono il 100 per cento del territorio" (contro il 98,4 per cento del 2017).

Il 62 per cento delle donne accolte sono italiane, il 31 per cento ha meno di 34 anni, il 33 per cento tra 35 e 44 anni, il 54 per cento sono sposate o conviventi, il 60 per cento ha figli minori, il 43 per cento non lavora. Dei 6.646 nuovi contatti del 2018, 4.295 sono i casi sfociati in accoglienza, 2.496 le donne prese in carico e che usufruiscono di servizi specialistici, di cui 329 conclusi nell'anno, e 650 gli abbandoni. I maltrattanti sono: marito o convivente, nel 60 per cento dei casi; ex marito o ex convivente, 17 per cento. I tipi di maltrattamento sono: psicologico, 86 per cento; fisico, 72 per cento; economico, 31 per cento; stalking 19 per cento (indicati piu' maltrattamenti). I dati emergono dalla quarta Relazione annuale 'La violenza contro le donne in Lombardia', che sono stati anticipati oggi nel corso di un incontro con l'assessore Piani, alla presenza del vice prefetto di Milano Alessandra Tripodi, del presidente della Sezione autonoma 'Misure di prevenzione' del Tribunale di Milano Fabio Roia, di Alessandra Simone, dirigente dell'Anticrimine della Questura di Milano, e di Luigi Manzini, tenente colonello del Comando provinciale dell'Arma dei carabinieri di Milano.

Le donne che hanno contattato i centri antiviolenza hanno chiesto: informazioni generiche, il 63 per cento; ascolto/sfogo, il 49 per cento; informazioni legali, il 31 per cento; percorsi psicologici, il 21 per cento; ospitalita', casa, lavoro, denaro, il 10 per cento; richiesta sanitaria, il 2 per cento; emergenza h24, il 2 per cento. I 329 percorsi che si sono conclusi sono: in autonomia abitativa, 61 per cento; economica, 66 per cento; con allontanamento del maltrattante 69 per cento. I servizi offerti alle 2.496 donne prese in carico sono: 2.193 colloqui di accoglienza, 2.091 ascolti telefonici, 1.967 consulenze psicologiche, 1.265 consulenze legali, 583 equipe/consulenze sociali, 431 percorsi psicoterapeutici, 282 accompagnamenti ai servizi territoriali, 245 assistenze legali, 143 orientamenti al lavoro o all'autonomia abitativa, 133 percorsi di gruppo e 79 ospitalita' di I, II livello o in emergenza.

lunedì 17 giugno 2019

Cesano Boscone. In 250 in marcia per Tante gambe, un solo cuore contro la violenza 16-06-2019

Stamane, circa 250 sono stati i e le partecipanti, provenienti da tutto il territorio,  alla seconda edizione della marcia contro la violenza a cura del Circolo Donne Sibilla Aleramo  con l’adesione delle associazioni Running Club Cesanese,  ASD GIOCARE, Auser di Cesano Boscone e Ventunesimo Donna di Corsico.

Due i percorsi sul territorio di Cesano Boscone:  uno di 4 km per le famiglie e uno di 10 km per i podisti.


I FONDI RACCOLTI SARANNO DEVOLUTI AL CENTRO ANTIVIOLENZA DEL PIANO DI ZONA (CADMI)
https://www.mi-lorenteggio.com/2019/06/16/cesano-boscone-in-250-in-marcia-per-tante-gambe-un-solo-cuore-contro-la-violenza/87631/?fbclid=IwAR3_TbqpllthjI8vLJGtYheEnwQa8-C5Vb4UWWZxRK4xy5LaanQujfu6ZRg

sabato 15 giugno 2019

Le azzurre del calcio femminile sono vincenti, ma restano… dilettanti di CRISTINA PIOTTI

Non è un offesa, è la realtà. Arrivano alle stesse altezze del podio, qualche volta superano di gran lunga le controparti maschili: è successo con le azzurre ai Mondiali di calcio di Francia. Eppure, in Italia le donne non possono essere professioniste, nello sport. Ecco perché

Le une vincono tanto quanto gli altri. Arrivano alle stesse altezze del podio, qualche volta superano di gran lunga le controparti maschili: l’abbiamo visto sui campi del volley mondale, nel settembre 2018, sta succedendo proprio in queste settimane, con le azzurre in campo ai Mondiali di calcio di Francia 2019, un anno dopo la mancata partecipazione degli uomini.

Eppure tutto questo lo fanno per puro diletto. Dilettanti infatti è la categoria nella quale si misurano e competono, visto che in Italia sono solo quattro gli sport contemplati nel professionismo (calcio, ciclismo, golf e pallacanestro), e sono tutti praticati da uomini. Le donne restano quindi sempre un passo indietro, anche se per cambiare le cose basterebbe partire da una legge. La 91 del 1981, che disciplina le “norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti”.
Ce ne parla Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, l’Associazione Nazionale Atlete.

«Nel 1981, in virtù del grande movimento economico che iniziava a ruotare attorno al mondo del calcio, lo Stato italiano fece una legge sul professionismo sportivo, la 91/1981. Si tratta di una legge fatta frettolosamente, che stabiliva delle tutele doverose, ed elementari, che dovevano essere assicurate ad un lavoratore dello sport, se faceva dello sport il suo lavoro e la sua professione».

Quali sono quindi i professionisti, oggi?

«Ad oggi ad usufruire della legge sono quattro discipline, calcio, ciclismo, golf e pallacanestro solo maschili. Quindi si è creata una situazione per la quale nessuna donna sportiva ha lo status di professionista, né può accedere ad una legge dello stato. E che uno strumento possa essere adottato solo per gli uomini e non per le donne, lo trovo altamente anticostituzionale».

Come si può cambiare la situazione?
«La legge spiega che a decidere quali siano le discipline sportive in questione, lo deciderà il Coni, che è l’organo che governa lo sport, con le federazioni sportive nazionali. Ma il Coni non l’ha mai fatto e l’unico modo è che il le federazioni facciano richiesta al Coni. La responsabilità è sicuramente anche delle federazioni, ma a monte dovrebbe esserci una legge, anche se, a ben guardare, basterebbe ricordarci dell’articolo 3 della costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

La discriminazione riguarda però anche alcune categorie maschili.
«Certo. Parliamo di una situazione rocambolesca, e senza dubbio anche tanti atleti maschi subiscono questa vergogna, ma per le donne la discriminazione è totale. Nessuna donna sportiva può accedere al professionismo».

Questo quali ricadute ha, sulla vita di un’atleta?
«Per una donna, come un uomo, non essere riconosciuti come professionisti significa non avere un lavoro per il quale siano riconosciuti dei diritti elementari. Parliamo di mancanza di un contratto tipo, di contributi previdenziali, di tutele della maternità, della malattia, dell’infortunio, del Tfr. Un’atleta quando è incinta, generalmente deve interrompere il suo contratto: grazie ad Assist, abbiamo ottenuto un fondo a sostegno delle atlete madri, che riconosce mille euro al mese, per nove mesi. Ma alla base della questione c’è il fatto che per legge sei un lavoratore invisibile, mentre se lavori in maniera continuativo e dallo sport deriva il tuo reddito prevalente, sarebbe doveroso il riconoscimento».

Invece…
«Invece calciatrici che oggi ci portano ai Mondiali, vivono in uno stato di dilettantismo forzato, tra rimborsi spese e bonus, nell’impossibilità di accedere al professionismo. E, sempre parlando di calcio, ci troviamo di fronte a veri e propri paradossi, peraltro ridicoli, come un tetto massimo allo stipendio fissato a 27 mila euro – cosa che come ben sappiamo non esiste assolutamente per i calciatori».

Ma quindi, calcio a parte, come e di cosa vivono le atlete italiane?
«L’escamotage, per atleti ed atlete di discipline singole, è quello di entrare in gruppi militari, dove vengono assunti. E come soldati assunti, hanno una doverosa protezione. Il paradosso è quindi che il medagliere italiano, l’eccellenza dell’eccellenza, è incredibilmente militarizzato. In questo, siamo un caso unico in Europa, a parte in Russia».

Parliamo però di società che a questa richiesta risponderebbero che non possono permettersi la contrattualizzazione in blocco delle atlete.
«Ma le condizioni economiche dei datori di lavoro non possono far cambiare le tutele del lavoratore! Se non costruiamo delle tutele, nello sport così come in atri settore, i lavoratori non saranno tutelati mai. Certo, è evidente che lo Stato deve aiutare le società nella fase di passaggio, ma questa non può essere la ragione principale per una mancanza di diritti. Anche perché, lo ricordo, parliamo di migliaia di lavoratori e lavoratrici che fanno professionismo vero, portando a giri d’affari di milioni di euro in alcuni club – hanno quindi tutto il diritto di veder riconosciuti i loro diritti».

Quali sono le prospettive, per il futuro?
«Questo governo è il primo a parlare di lavoro sportivo, cosa che noi chiediamo da anni. Hanno annunciato una grande riforma a riguardo, hanno istituito una nuova realtà, Sport e Salute che diventa collettore dei fondi e prenderà il posto della Coni Servizi. Come si svilupperà il tutto, deve ancora essere compreso, ma quello che abbiamo scoperto con piacere è appunto che all’interno del progetto c’è l’istituzione del lavoro sportivo».

Perché l’impressione è che il calcio femminile sia in fase di sprint?
«Perché in effetti il movimento calcio femminile ha subito un’accelerazione. La Uefa ha chiesto a tute le federazioni nazionali di investire sul movimento femminile due anni fa, finanziandone economicamente lo sviluppo, perché ha capito che potenzialità ci sono. Finanziamenti dati perché venissero fatte delle operazioni di promozione importanti – ecco perché la Figc due anni fa ha promosso lo sviluppo del calcio femminile, chiedendo ai club di creare sia delle divisioni femminili in serie A sia nei vivai».
https://www.iodonna.it/benessere/fitness-e-sport/2019/06/14/mondiali-femminili-di-calcio-azzurre-professionismo-negato-alle-donne-sportive-dilettanti/?fbclid=IwAR0Nw9YIhu67d48LEyuwEVOXWaqTBbxtUS5bmRzJdqTLgLGVAVyYFgajchw&refresh_ce-cp

martedì 4 giugno 2019

L'importanza dell'anonimato per le donne vittime di violenza È il principio fondamentale dell'accoglienza, da non mettere mai in discussione. Ne abbiamo parlato con Cristina Carelli, coordinatrice della Cadmi di Milano. di MATTEO INNOCENTI

Ci sembra importante farvi conoscere l'intervista a Cristina Carelli, coordinatrice del Cadmi e del Centro Antiviolenza del distretto di Corsico.
Nell'intervista vengono chiarite e puntualizzate le motivazioni per cui Cadmi rifiuta di chiedere alle donne vittime di violenza il codice fiscale e di inserirlo nel sistema di raccolta dati come pretende Regione Lombardia.

L'importanza dell'anonimato per le donne vittime di violenza  È il principio fondamentale dell'accoglienza, da non mettere mai in discussione. Ne abbiamo parlato con Cristina Carelli, coordinatrice della Cadmi di Milano.  di MATTEO INNOCENTI 
Il principio più importante della metodologia dell’accoglienza, adottata da tantissimi centri antiviolenza in tutta Italia, è la garanzia dell’anonimato. È solo grazie ad essa che migliaia di donne, ogni anno, accettano di farsi aiutare. In fuga da contesti famigliari o partner violenti, alla ricerca di un consiglio o di un tetto sotto al quale dove dormire, per poi ricominciare da zero, non vogliono che il loro nome ‘giri’, per finire chissà dove. Peccato che questo non sia chiaro a tutti. A maggio del 2019, infatti, due strutture affiliate alla D.i.Re hanno ricevuto dalla Regione Calabria la richiesta di trasmettere, ai fini di controllo e monitoraggio delle attività finanziate dall’ente, «copia dei registri presenze/prese in carico delle utenti nell’anno 2018». La richiesta, com’è naturale, ha scatenato polemiche: se la necessità di controllare dove vanno a finire soldi pubblici è più che lecita, è sicuramente sbagliato il metodo scelto. «Non abbiamo fornito i codici fiscali delle donne accolte e non lo faremo mai», spiega a LetteraDonna Cristina Carelli, coordinatrice della Cadmi di Milano, dal 1986 punto di riferimento per le vittime di violenza che nel 2017 ha ricevuto una richiesta analoga dalla Regione Lombardia: «Il nostro compito è rassicurare chi si rivolge a noi. Per questo accogliamo anche nel completo anonimato».

DOMANDA. Capita spesso?
RISPOSTA. Ogni tanto succede che chi si rivolge a noi preferisca dare un nome fittizio. A noi sta benissimo così. Poi solitamente, instaurato un rapporto di fiducia, ci dicono quello vero. In generale, se ci vogliono fornire i loro dati, dobbiamo dare loro la garanzia di non diffonderli. Di sicuro non possiamo né imporre condizioni, perché si bloccherebbero, né dire: «Mi dia il codice fiscale che lo giro alle istituzioni».

Che rischi comporta la diffusione di dati personali?
Principalmente quello di esporre le donne che si rivolgono a noi, che vivono nella vergogna e nella paura che gli abusi si verifichino di nuovo. Noi sappiamo come funziona la violenza ed è fondamentale che i dati non escano. Se entrano in possesso della Regione Lombardia, vengono associati e finiscono in un fascicolo tutti insieme. Altro che dati aggregati… se dico questo alle donne maltrattate scappano subito.

Che cosa dice l’intesa Stato-Regioni del 2014 a proposito dei centri antiviolenza?
Ne stabilisce la natura, specificando che in essi viene applicata la metodologia dell’accoglienza, basata proprio sul principio dell’anonimato. Anche il garante della privacy è dalla nostra parte: chiedere di fornire dati personali, come moneta di scambio in un momento di particolare debolezza, è una specie di ricatto.

Allora continuerete così, rifiutandovi di fornire dati?
Se parliamo di nomi, cognomi e codici fiscali sì. Ma noi in realtà forniamo già un sacco di elementi qualitativi riguardanti le 800 donne che ogni anno si rivolgono a noi: fasce di età, professioni, provenienza, tipo di abuso, chi è il maltrattante, etc. Se in Italia ci sono dati riguardanti la violenza sulle donne è proprio grazie a noi e alla rete che abbiamo fondato.

Che rapporti avete con il Comune di Milano?
È un interlocutore molto più interessante per quanto riguarda contenuti, sostegno nelle varie attività e anche investimenti economici. Con loro abbiamo una raccolta dati precisi: a ogni donna associamo un numero di scheda e il Comune può venire in qualsiasi momento a fare controllo a campione, per capire che facciamo le cose per bene. La Regione invece è un’istituzione che in modo arrogante ci chiede di modificare una metodologia che funziona, visto che in 30 anni nessuna delle ‘nostre’ donne è stata ammazzata.

Altri centri antiviolenza della Lombardia hanno però accettato di fornire i codici fiscali.
Sì, lo hanno fatto otto centri su 16. Quelli più piccoli, che altrimenti rischiavano di essere esclusi dai progetti di finanziamento. Loro vivono essenzialmente grazie ai fondi pubblici, noi abbiamo anche altre risorse. È stato un ricatto di tipo economico, simile a quello che subiscono tante donne in Italia.

A proposito di privacy, cosa ci può dire delle case segrete in cui ospitate alcune ragazze?
Questo genere di ospitalità è riservato alle ragazze in pericolo di vita. L’80% di loro ha tra i 18 e i 27 anni. Abbiamo sette appartamenti sparsi per Milano, con una ventina di posti letto in tutto. Come può capire, la privacy è fondamentale.

È sempre per una questione di riservatezza che la Cadmi non vuole che testate come LetteraDonna parlino direttamente con le ragazze per farsi raccontare le loro storie?
Per questo, ma non solo. In generale siamo critiche verso i mezzi di comunicazione che strumentalizzano le storie di violenza, mettendo sotto accusa le vittime.

In che senso?
Innanzitutto c’è una ricerca delle debolezze e delle responsabilità delle donne. Poi si verifica spesso una vittimizzazione non necessaria. Pensiamo al classico occhio nero: la violenza può essere anche psicologica, economica, sessuale, dunque invisibile. Crediamo che le cose si possano comunicare cose in modo diverso, senza far conoscere i particolari di ogni storia. Le donne vengono presentate come delle poverette che vengono maltrattate, ma non è così: abbiamo anche manager, che viaggiano per il mondo e guadagnano bene. Usciamo dallo stereotipo, iniziando con una comunicazione diversa. Basta cultura di pietismo e paternalismo. Anche le donne forti possono subire abusi.

https://www.letteradonna.it/it/articoli/conversazioni/2019/05/16/violenza-donne-vittime-anonimato-cadmi/28346/