giovedì 27 aprile 2023

Bambini in carcere con le madri, una vita da reclusi: “Trattati come boss, Salvini venga a vedere come vivono” Rossella Grasso

 Viaggio nell’Icam di Lauro tra le mamme detenute con i loro bambini

“Questo è proprio un carcere e lo stanno facendo i bambini, un 41 bis. E soffrono”, dice una mamma. “Non lo so se mia figlia un domani mi potrà mai perdonare per dove l’ho portata. Ci penso ogni giorno. E mi fa stare male”. Sono questi i pensieri di due madri detenute insieme ai loro bambini nell’Istituto di Custodia Attenuata per Madri di Lauro, provincia di Avellino. Il Riformista ha potuto visitare il carcere insieme al Garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello, chiacchierare con le mamme che sono lì insieme ai loro figli e toccare con mano come vivono. “È un ossimoro dire mamme e carcere – ha detto Ciambriello entrando nella struttura – Qui dentro ci sono bambini da 3 o 5 anni. Come crescono? Io sono indignato”. Nell’Istituto di lauro ci sono 11 madri e 13 bambini. “Le mamme detenute possono tenere accanto i loro figli fino all’età di 8 anni, fino a qualche anno fa il limite era a 6”, spiega Ciambriello. Una scelta facoltativa per le madri che devono scontare una pena: “Io vengo dall’ordinario e non ho sofferto come soffro qua – racconta una mamma – Con il mio primo figlio ho preferito lasciarlo a casa e io scontare la pena da sola al carcere ordinario. Ma lui era a casa e soffriva per me. Adesso, il secondo figlio, ho deciso di tenerlo qui con me. Ma soffre. Se torna a casa dopo 15 giorni vuole la mamma. È piccolo, è normale. Che fare? Ti giuro qui stanno male. Io ho finito le lacrime a furia di piangere per questa situazione”.

“Sono qui da quasi un anno con mio figlio che ha 6 anni, ne aveva 5 quando è entrato”, dice una mamma. “Sto qua da 9 mesi, ho una bambina che quando siamo entrate aveva 3 anni. Ha festeggiato, per modo di dire, il suo quarto compleanno qui dentro”, racconta un’altra. La sua storia è emblematica perché si intreccia con il dramma della lungaggine della giustizia italiana. Racconta di stare scontando ora un reato commesso 13 anni fa quando era una persona diversa. E soprattutto di avere una figlia, all’epoca, non aveva nemmeno mai pensato. “Tredici anni dopo arriva la condanna – racconta – se avessi potuto scontare all’epoca la pena, ora mia figlia sarebbe a casa sua in grazia di Dio, non con me in carcere. Perché questo è un carcere, non una casa famiglia come tanti credono”. La mamma racconta al Riformista che quando è stata condannata al carcere a sua figlia ha detto che insieme dovevano andare al campeggio per un certo periodo. “Ho cercato in tutti i modi di non farle pesare questa situazione raccontandole che era solo una vacanza in un posto dove c’erano anche altri bambini – continua – All’inizio ci ha creduto, credo. Poi qui ha parlato anche con altri bambini che sono più grandi che sanno dove si trovano. Purtroppo tra di loro se ne parla. Io spero che con il lavoro che sto facendo riuscirò ad annebbiare il ricordo di mia figlia di questo posto. Ho provato a dirle che io devo restare qui per lavorare. Lei mi ha detto che vuole andare a casa dai fratelli e che soldi non ne vuole. A volte non so cosa dirle. Io ringrazio l’Icam perché da una parte mi ha dato la possibilità di essere qui con mia figlia ma davvero non so se un domani mia figlia mi potrà perdonare”.

L’ambiente dell’Icam non è proprio “penitenziario”: sui muri ci sono disegni dei personaggi Disney (alcuni un po’ scrostati), la sala colloqui è tutta colorata e a dimensione di bambino. In un’area comune all’aperto ci sono panchine, uno scivolo, qualche altalena e qualche altro gioco per i bambini. Giochi colorati che stagliano sul grigiore di sfondo: quello delle sbarre vicino alle finestre. Ogni mamma ha a disposizione una cella attrezzata come una sorta di piccolo appartamento per cercare di garantire al bambino una dimensione familiare. C’è la cucina dove la mamma può cucinare a pranzo e a cena, la camera da letto con un letto matrimoniale vero e un bagno con doccia e lavandino. “Comunque sono celle – racconta una mamma mostrando le foto appese nelle cornici – Qualcuno dice che sono mini-appartamenti ma sono celle”. Ogni mamma cerca di “arredare” la stanza come farebbe a casa con foto della famiglia e piccoli giochi. Qualcuna ha messo le tende alle finestre cercando di occultare le sbarre. Ma ci sono, è innegabile. “Io e mia figlia qui dentro passiamo il tempo da detenute, entrambi. Non facciamo nulla o quasi dalla mattina alla sera. Penso che non è giusto: non è il modo per educare noi o i bambini”, racconta ancora un’altra mamma.

Anche la porta della stanza-cella viene aperta e chiusa secondo i dettami del carcere. “Nei periodi invernali i passeggi sono chiusi presto – racconta una mamma – i bambini sanno già cosa vuol dire ‘assistente’, ‘apertura’, ‘chiusura’. Quando sentono il rumore delle chiavi hanno paura”. Le detenute raccontano una giornata tipo all’Icam: al mattino sveglia e colazione in cella, poi le mamme preparano i bimbi per andare a scuola. Uno scuolabus li prende e li accompagna a scuola o all’asilo e alle 16 li riporta all’Icam. Qualcuno fa anche delle attività pomeridiane come ad esempio il calcetto. “Di solito tornano alle 16 e la giornata è finita, si torna in stanza. Non c’è nient’altro da fare e lui dice sempre che si annoia – racconta ancora una madre – È seguito da uno psicologo ma spesso ha crisi di pianto o sfoga mangiando tutto quello che trova davanti. È l’unico modo che ha per sfogarsi”.

In realtà i bambini che sono nell’Icam sono liberi. Il problema e che dovrebbero avere qualcuno che li accompagna a fare attività e come in ogni carcere non sempre c’è il personale a disposizione. Le mamme raccontano che non possono lasciare la struttura, nemmeno per andare a parlare con le maestre o andare a vedere la recita o accompagnarli nel primo giorno di scuola. “Mia figlia ha fatto la prima recita della sua vita all’asilo. L’ho preparata io da qui, nella nostra stanza. L’ho dovuta salutare sull’uscio dell’Icam. Nonostante siano venuti i nostri familiari dalla Puglia per non farle mancare l’affetto, lei si è rifiutata di farla. Voleva la sua mamma e non poteva averla”.

“I nostri sono ‘i bambini reclusi’e vittime di pregiudizio fuori da qui – continua la mamma – Sono figli di detenuti e devono essere messi da parte. C’è una bambina che ha sentito parlare del panino del McDonald’s da uno degli ‘amici liberi della scuola’, come li chiamiamo noi, e voleva mangiarlo. Come fai a spiegarle che non lo può avere?”. C’è un’altra cosa che le mamme proprio non sanno come spiegare ai loro figli: “Ogni mese abbiamo i colloqui con i familiari e due telefonate a settimana – spiega una mamma – quando mio figlio piange che vuole parlare con il papà come faccio a dirgli che mamma ha finito il tempo? È giusto che il bambino debba aspettare?”.

“Per noi è come una terza carcerazione qui dentro perché vedi tuo figlio soffrire e non puoi fare niente”, racconta una madre. “Mi manca proprio fare la mamma – racconta un’altra mamma – Se io sto qua con mia figlia io credo che è per continuare a fare la mamma però poi non ci danno la possibilità di farlo”. Le parole delle mamme arrivano dritte al cuore come un pugno. Nei loro occhi c’è tutto il dolore di chi sa di aver sbagliato ma sa bene che la loro colpa è caduta ingiustamente anche sui figli e non se lo perdonano. Per loro è un dramma è quando pensano al loro presente e anche al loro futuro. “Mio figlio non ha mai vissuto fuori da qui – spiega un’altra donna – cosa penserà del mondo fuori? È come se qui dentro stesse diventando più cattivo, arrabbiato, aggressivo”.

Tra le difficoltà che le madri raccontano c’è il vitto. “Non viene dato in base alle esigenze del bambino – spiega Ciambriello – per cui le mamme devono ricorrere all’acquisto del sopravvitto, una spesa aggiuntiva che non sempre è sostenibile per loro. Ci vorrebbe una dieta specifica per i bambini non di quello che offre la gara al ribasso di una ditta. Servirebbe anche un pediatra che indichi una dieta adatta a un bambino e che fosse fisso perché adesso c’è solo per alcune ore e a chiamata. Ho chiesto anche maggiore personale femminile e personale che possa accompagnare più spesso i bambini fuori per attività all’aperto. Inoltre serve sostegno permanente per i bambini e le loro mamme, più educatori, assistenti sociali e pedagoghi”.

“Ho sentito che Salvini promuove la costruzione di altri posti come questo – dice una mamma, arrabbiata – ma lo sa cosa com’è vivere qui dentro con un figlio? Come vivono? Comunque ci sono le misure alternative: i domiciliari, le case famiglia,…perché non darci la possibilità di scontare lì le nostre pene senza far soffrire i nostri figli?”. Mentre la mamma parla è impossibile non pensare a come sarà quel drammatico momento del distacco, quello che alcune di loro dovranno vivere per forza di cose quando il bimbo sarà troppo grande per restare lì ma loro dovranno andare all’ordinario per finire la pena. Un dolore enorme che probabilmente il bambino non dimenticherà mai. E chissà come questo si trasformerà nella sua vita.

Samuele Ciambriello da tempo si batte insieme a Paolo Siani per l’eliminazione di luoghi di reclusione come l’Icam. Per quanto nell’istituto si veda lo sforzo enorme per rendere la vita delle detenute madri e dei loro figli più vivibile e meno traumatica, resta una situazione paradossale e problematica nella sua concezione. “Può continuare a esistere la maternità in carcere? Come cresce un bambino in carcere? Che tipo di affetto e di relazioni potrà mai avere? È vero, possono andare a scuola. Ma non è meglio per loro un luogo alternativo al carcere? Una non deve venire in carcere con i figli. L’anno scorso il parlamento ha approvato una legge per far uscire dal carcere i bambini, creando delle comunità di accoglienza. Ebbe solo 6 voti contrari. Quest’anno è stata bloccata al Senato”.

In tutta Italia ci sono 17 bambini detenuti con le loro madri, numero che negli ultimi giorni è lievemente aumentato. “In Italia non c’è più né fascismo né comunismo, c’è il giustizialismo che fa più morti alcune volte – continua Ciambriello – Il populismo politico e penale vuole che se una ha sbagliato deve andare in carcere. Peccato che qui ci sono anche persone accusate di piccolo spaccio con una condanna a tre anni. Perché non fargli vivere una misura alternativa al carcere? L’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente. Chiediamoci perché stanno qui loro con i figli. E chiediamoci perché 12mila minori in Italia e 6.400 in Campania vivono una disgregazione familiare, affettiva, familiare, economica. Quando ci occupiamo di loro? Quando commettono un reato grave? Non vorrei che la pubblicistica comune porti a non dare speranza a queste persone. Dico ‘No ai bambini in carcere’ e quindi liberando i bambini dobbiamo liberare anche le mamme. Lo so a volte la politica tra il dire e il fare ci mette il mare. Io chiedo di mettere il coraggio. Dobbiamo intervenire per ricucire queste vite disgregate altrimenti queste lacerazioni crescono. E i ragazzi che vivono qui dentro che idea si fanno? Non solo dei genitori ma dello Stato. Uno Stato vendicativo? Occorre liberare i minori ed educare gli adulti”.

https://www.ilriformista.it/bambini-in-carcere-con-le-madri-una-vita-da-reclusi-trattati-come-boss-salvini-venga-a-vedere-come-vivono-353616/?fbclid=IwAR3WY9-BeeBtX86mpJswBOPl91sa6Dvh70gbo1JHy7mPvxCofrbHWLwszp0

mercoledì 26 aprile 2023

Perché l'accesso gratuito alla pillola è solo l'inizio? Non Una Di Meno - Milano

Dopo 50 anni dalla depenalizzazione della pillola, che avvenne grazie alla Corte costituzionale che abrogò l'articolo 533 del Codice Rocco, retaggio fascista che vietava la "la propaganda dei mezzi atti a impedire la procreazione", contraccettivi compresi, un primo passo è stato fatto oggi con l’annuncio dell’AIFA sulla gratuità della pillola in tutta Italia (e non a macchia di leopardo come è accaduto fino ad ora).
Di quel retaggio sentiamo oggi l'eco, dalle voci che stanno provando ad alzarsi in questi giorni dal governo e i suoi sostenitori per esprimere il loro dissenso.
👉L'accesso gratuito alla pillola su tutto il territorio è un passo in avanti verso una prevenzione necessaria, in un paese in cui preservativo e pillola non sono ancora i metodi più diffusi e una persona su quattro si affida comunque al coito interrotto.
🔢In Italia, come dimostra una ricerca del European Parliamentary Forum for Sexual & Reproductive Rights (EPF), sono molto scarsi il livello di consulenza sulla pianificazione familiare e la quantità di informazioni disponibili online sulla contraccezione.
Un gruppo particolarmente vulnerabile quando si tratta dell’uso di contraccettivi e dei metodi di prevenzione è quello delle persone più giovani, dato che l’età media del primo rapporto sessuale è di 17-18 anni.
Ci siamo arrivat*. Bene.
🔥Adesso servono programmi specifici di educazione sessuale di educazione alla salute nelle scuole per favorire scelte informate e consapevoli per la contraccezione.
🔥Adesso serve sostenere e potenziare i consultori perché devono essere pronti ad assistere chi vuole usare la contraccezione orale.





lunedì 24 aprile 2023

Gianna Radiconcini, da staffetta partigiana a prima donna corrispondente dall’estero della Rai di Marcello Cecconi

Nascondeva il tritolo in casa barattato con i gioielli e si fingeva fidanzata dei partigiani per accompagnarli, trasportando un paniere di bombe. Nel dopoguerra diventa corrispondente Rai da Bruxelles, sempre in prima linea per le lotte di emancipazione.

In foto: Gianna Radiconcini insieme ai suoi fratelli


Gianna Radiconcini, romana, divenne antifascista già da ragazzina. L’affliggeva quel torpore in cui si viveva in quel ventennio, una sensazione pesante che a scuola diventava ancor più invivibile. All’età di 15 anni si sentì già di impegnarsi nell’attività svolta da un gruppo di “staffette partigiane”, dove trovò amiche del quartiere e con, grande sorpresa, una sua professoressa che comandava il gruppo.

Gianna ha più volte raccontato come teneva nascosto in casa propria il tritolo in attesa di poterlo consegnare, acquistato barattandolo con alcuni gioielli di casa. Ha raccontato anche dell’incoscienza che l’aiutava nelle operazioni assegnate, come quando accompagnava Antonello Trombadori che si spostava per Roma (faceva parte del comando dei Gap romani ndr.) fingendo di esserne la fidanzatina con un paniere sottobraccio colmo di bombe.

Ma ciò che più emoziona dei suoi racconti è quello che riguarda la morte della donna del popolo Teresa Gullace, nella finzione cinematografica interpretata da Anna Magnani in Roma città aperta. Nel film, la popolana romana cade sotto una raffica di mitra mentre insegue il camion sul quale i tedeschi portano via il marito.

Ferme la sostanza e drammaticità dell’accaduto, i fatti reali avvennero diversamente. Teresa e centinaia di donne coraggiose si riunirono a protestare in via Giulio Cesare, sede della caserma dove, dopo uno dei tanti rastrellamenti, erano stati rinchiusi figli e mariti.

Il comando della Resistenza romano inviò Gianna e tutte le giovani staffette a sostenere la protesta. Improvvisamente, da una camionetta tedesca, fu aperto il fuoco sul gruppo di donne e Gianna vide cadere, proprio accanto a sé, una donna coperta di sangue. Era proprio Teresa Gullace e Gianna racconta “La morte mi ha sfiorato, e lì ho avuto la certezza che bisognava combattere ad ogni costo” – aggiungendo –  “È rimasta indelebile negli anni la figura di chi ha sparato. Aveva gli occhi azzurri e spaventati. Era giovanissimo. Anche io. Che tristezza: era una guerra di ragazzini, ma noi dovevamo tornare liberi”.

Gianna è morta a dicembre del 2020, a 96 anni, ed è stata e resta una delle figure più importanti di quella indimenticabile generazione di donne che hanno vissuto gli anni della guerra nazifascista con coraggio e determinazione per poi, a guerra finita, restare in un percorso di vita in continua e vivace lotta per l’emancipazione.

La staffetta partigiana Gianna Radiconcini

Si avvicinò al Partito d’Azione dopo l’incontro con Altiero Spinelli che poi lascerà per seguire Parri e La Malfa nel Partito repubblicano. Dopo una battaglia personale in Rai riesce a diventare la prima corrispondente dall’estero donna, successo che lei dissacrava così: “Ovviamente volevo Bruxelles, alla fine fu facile, non ci voleva andare nessuno. Non avevano capito niente…”.

Questa scelta, che le impose battaglie di sofferente emancipazione personale, l’ha raccontata in Semafori rossi (2019), La Lepre Edizioni, Roma, p. 180, con eventi complicati come la separazione dal marito e la gravidanza da madre separata, con gli incubi che attanagliavano la donna preoccupata di non poter tenere il bambino; incubi appesantiti in quegli anni di grande oscurantismo. In un altro libro, Memorie di una militante (2015) Carocci editore, Roma, p. 120, ricostruisce l’ambiente intorno a una ragazzina, figlia di un cappellaio romano, che ha fatto la scelta della Resistenza.

https://www.globalist.it/culture/2023/04/22/gianna-radiconcini-da-staffetta-partigiana-a-prima-donna-corrispondente-dallestero-della-rai/?fbclid=IwAR3ZxRYOLH-s8HZ1LQ7kKnQx5zr_x6HwVWbDFj8TTGC6VrGsHSddn5i6vt8


sabato 22 aprile 2023

Da Gae Aulenti a Cini Boeri: le donne che hanno cambiato la storia del design di Simona Sirianni

 Coraggiose, anticonformiste, innovative: chi sono le donne del XX secolo che hanno dato un contributo fondamentale alla creatività progettuale, segnando in maniera indelebile il mondo del design

Lina Bo Bardi, Gae Aulenti, Cini Boeri sono solo tre dei tanti nomi di donne coraggiose, anticonformiste, innovative che hanno rivoluzionato il mondo del design e dell’architettura in maniera indelebile.

Pioniere troppo spesso dimenticate il cui percorso è stato per la maggior parte dei casi in salita, ma che, grazie alla loro sensibilità e competenza, hanno lasciato in eredità idee, suggestioni e opere indimenticabili.

«Qui non si ricamano cuscini»

A partire dalla francese Charlotte Perriand (Parigi, 24 ottobre 1903 – 27 ottobre 1999). È con lei che nasce il design moderno. Era il 1927 e Perriand riuscì a collaborare con il mitico atelier parigino di Le Corbusier e Jeanneret con i quali firmò alcuni tra i più prestigiosi oggetti di équipement degli anni Venti.

Lei stessa racconta che quando ancora giovanissima entrò nello studio di Le Corbusier, l’architetto le si avvicinò e dopo un veloce sguardo ai disegni esordì in tono sarcastico con un «qui non si ricamano cuscini…». 

Ma da lì in poi la sua carriera non fece che crescere, con risultati di estremo fascino tanto che oggi i suoi prodotti vengono ancora disegnati e messi in produzione. 

Pioniere del design, le italiane: la visione “democratica” di Cini Boeri

Tra le italiane, indimenticabile Cini Boeri (Milano, 19 giugno 1924, 9 settembre 2020), architetta e simbolo per eccellenza di emancipazione femminile. La sua carriera ha preso il via dagli incontri con Gio Ponti e Zanusso. Ma poi negli anni ’60 Cini Boeri ha aperto il suo studio realizzando pezzi di design diventati icone del settore, come la sedia Ghost e il divano Strips per Arflex che le vale il Compasso d’Oro. 

Per lei il design doveva essere “democratico”. Per questo ha creato oggetti di design “umili” che potessero essere accessibili a tutti.

Sperimentava i primi materiali pionieristici come la gomma, il poliuretano e la plastica per prodotti d’arredo storici, distinti sempre da un intenso rigore progettuale. 

Per quanto riguarda l’architettura, Boeri è entrata nella storia con le sue residenze: Casa Bunker e Casa Rotonda, entrambe costruite sulle coste dell’isola della Maddalena, ma anche la Casa nel Bosco in cui appare evidente la sua sensibilità verso il rapporto uomo-natura.  

La divisiva Gae Aulenti

Gae Aulenti, studio in Milano In via Fatebenefratelli angolo piazza San Marco. Milano, 16 aprile 1996. (Photo by Leonardo Cendamo/Gettyimages)

«L’architettura è un mestiere da uomini ma ho sempre fatto finta di nulla», diceva Gae Aulenti (1927-2012), una delle donne più influenti del mondo del design e della progettazione. Si è occupata di industrial, interior ed exhibition design, oltre che di teatro e grafica, cominciando la sua carriera nell’editoria alla redazione di Casabella.

Credeva fermamente che «l’architettura appartiene alla città e il contemporaneo deve integrarsi con il passato». Il clou della sua carriera appartiene al cuore degli anni Cinquanta. Basti pensare alle ristrutturazioni celebri della Gare d’Orsay e del Centre Pompidou a Parigi. O anche all’arredo urbano di Piazza Cadorna a Milano e Piazza Dante a Napoli.

Si è occupata anche della ristrutturazione della casa di Agnelli in zona Brera a Milano e con la famiglia Agnelli ha lavorato a diversi progetti anche per la Fiat.

La sua fama è enorme in tutto il mondo e le collaborazioni sono state infinite. Dal Museo d’arte asiatica (Asian Art Museum) a San Francisco al Museo d’arte catalana a Barcellona, dal restauro del Palazzo Pubblico a San Marino all’Istituto di cultura italiano a Tokyo.

Pochi giorni prima della sua scomparsa, la Triennale di Milano le ha conferito la Medaglia d’oro alla carriera.

› Le architette pioniere della parità in mostra ad Helsinki

La Casa de Vidro di Lina Bo Bardi

Altra figura emblematica della storia della progettazione è l’emblematica e rivoluzionaria Lina Bo Bardi (Roma, 5 dicembre 1914 – San Paolo, 20 marzo 1992). Intorno agli anni ’40 ha iniziato a collaborare con Pagani e Ponti, poi è diventata vicedirettore di Domus quindi ha creato la rivista A-Cultura delle vita per diffondere l‘idea di abitare razionale a un pubblico più vasto. 

Esponente di spicco del movimento modernista sudamericano del Secondo Dopoguerra, nel 1946 si è trasferita insieme al marito Pietro Maria Bardi in Brasile, Paese nel quale ha trovato tutta la libertà di espressione creativa che cercava.

Il Museo Museo di Arte Moderna di San Paolo è forse l’opera architettonica più famosa di Bo Bardi. Progettato tra il 1958 e il 1967 assieme al marito, il MASP è concepito come un monumentale ponte di vetro sospeso da due enormi travi in cemento dipinte di rosso.

Il museo all’interno è un grande open space libero da qualsiasi intralcio, caratterizzato da ambienti aperti, uno spazio pensato per la socializzazione.

Anche lo spazio sottostante la struttura, che prende le forme di una grande piazza pubblica, è pensato per essere “vissuto” dalle persone.

https://www.iodonna.it/attualita/eventi-e-mostre/2023/04/18/salone-mobile-milano-pioniere-italiane-design-donne-architette-gae-aulenti-cini-boeri/?fbclid=IwAR2xlAn8YKbE6h_Yk9haXDEyTAkLhUxHjfRtbVbRwBcHXcg4gLV6dNlJ8TY


lunedì 17 aprile 2023

comunicato

 "Un “Comitato spontaneo delle donne lavoratrici” ha  comunicato storie di misoginia che avverrebbero all'interno del nostro Comune. La vicenda ha i contorni oscurati, non si conoscono i particolari degli avvenimenti. Le lavoratrici e il comitato, per paura, mantengono l'anonimato e non rendono noto il nome dell' autore della violenza. 

Auspichiamo che nel più breve tempo possibile le autorità competenti facciano luce su questa vicenda e che vengano fornite informazioni corrette e trasparenti alle cittadine e cittadini, avulse da qualsiasi strumentalizzazione politica. Passaggio necessario affinchè anche le lavoratrici e i lavoratori insieme alla Giunta e al Sindaco possano lavorare  in un clima di serenità. 

Ventunesimodonna è da sempre al fianco delle donne che subiscono violenze di qualsiasi natura e in qualsiasi luogo esse avvengano. 

Nella speranza che un cambiamento culturale profondo  consenta alle donne di denunciare nelle sedi opportune le violenze subite a viso aperto, senza intermediazioni e senza paura.


mercoledì 12 aprile 2023

Afghanistan: nelle scuole segrete le ragazze sfidano la legge talebana

 I fondamentalisti islamici impediscono alle studentesse di frequentare le lezioni, eppure ragazze e insegnanti non si rassegnano e si riuniscono di nascosto per continuare a studiare

Alcune vogliono diventare ingegnere, altre mediche, qualcuna vuole insegnare. Le ragazze afghane non accantonano i loro sogni e nonostante le difficoltà continuano a impegnarsi per realizzarli.

Da quando i talebani sono tornati al governo di Kabul, ad agosto 2021, il diritto alla scolarizzazione femminile è stato ridotto sempre più. L’accesso alle scuole secondarie è stato il primo a essere colpito, con il divieto a più di un milione di ragazze dai tredici ai diciotto anni di tornare a studiare. Lo scorso dicembre il gruppo islamista ha poi annunciato un’ulteriore stretta sulle università, impedendo a circa 90.000 studentesse di completare la propria formazione.

Le afghane però non si sono date per vinte e hanno deciso di organizzare delle scuole segrete per aggirare le imposizioni. I corsi si tengono prevalentemente in abitazioni private, dove ragazze e insegnanti si radunano rischiando l’arresto, come successo il mese scorso a una docente a Kabul. Per limitare i rischi le lezioni durano generalmente un’ora e mezza e sono frequentate da studentesse di diverse età.

Un sistema alternativo e legale è quello portato avanti da Radio Begum, l’unica emittente afghana che trasmette programmi realizzati dalle donne e per le donne. Tra questi ci sono sei ore al giorno dedicate all’insegnamento, che prevedono anche la possibilità per le ascoltatrici studentesse di telefonare alla radio per fare domande.

C’è anche chi prova a sopperire alla mancanza di istruzione con corsi online, ma a causa della scarsità di connessione ed elettricità l’apprendimento virtuale rimane un’opzione poco praticata. Senza contare il fatto che questo tipo di studi non è riconosciuto dal governo.

Con il passare del tempo alcune scuole segrete sono state chiuse, ma l’iniziativa sta andando avanti e secondo il Wall Street Journal anche alcuni funzionari del governo starebbero consentendo alle figlie di frequentare questi corsi clandestini.

I talebani non sono un gruppo monolitico e spesso le divisioni interne vengono sottovalutate, oltre che negate dagli stessi esponenti. Tra di loro c’è a esempio chi riconosce l’importanza dell’istruzione femminile e vuole garantirla alle proprie figlie, sia in patria nelle scuole illegali, sia mandandole a studiare all’estero, soprattutto in Pakistan. In alcune zone nel nord del Paese le scuole hanno potuto rimanere aperte probabilmente proprio grazie alla connivenza dei leader locali.

Alcuni membri del governo hanno rilasciato dichiarazioni ambigue in tal senso, che alcuni analisti hanno interpretato come una critica indiretta al divieto all’istruzione delle ragazze, e questo confermerebbe quanto spesso dichiarato dai talebani, ovvero di non voler proibire alle donne di accedere alla scolarizzazione. Il divieto secondo alcuni sarebbe quindi solamente una misura temporanea per consentire un adattamento graduale del sistema scolastico ai principi islamici.

Il ministro della Giustizia Abdul Hakim Sharayi ha infatti affermato che i corsi di studio devono essere rivisti e conformati ai valori religiosi prima di poter permettere alle ragazze di ritornare a studiare e che i talebani «non sono contrari all’istruzione - ma l’intervento americano ha comportato anche una - invasione ideologica contro la quale è necessario reagire».

https://www.lasvolta.it/7014/afghanistan-nelle-scuole-segrete-le-ragazze-sfidano-la-legge-talebana?fbclid=IwAR03UyOCUzBLYIifaOSKxXc7Q-p9nZERr1yutXdKQHOwiWeretqngEKKYpg



martedì 11 aprile 2023

I femminicidi in famiglia non si arrestano, ma per l'informazione restano sempre "inspiegabili". di Lea Melandri

Il rapporto tra gli uomini e le donne, il perverso tragico annodamento di dominio e amore, deve essere davvero la “roccia basilare” contro cui si arrestano ragione, cultura, responsabilità civile e morale, se a nessuno viene in mente di chiedersi la cosa più banale e più sensata: perché la decisione di una donna di separarsi riesce a scatenare la furia omicida-suicida dell’uomo che con lei ha vissuto e visto crescere figli. 

La maggior parte dei casi di violenza maschile all’interno della coppia, negli ultimi anni, è motivata infatti dalla scelta della donna di interrompere una convivenza divenuta evidentemente insopportabile, da una affermazione di libertà dovuta al rispetto di se stessa, o al semplice desiderio di dare una svolta alla propria vita. L’aggettivo “inspiegabile”, che la cronaca usa ormai ritualmente per questi delitti, è la maschera di una ipocrisia, o comunque di una incuria, generalizzate, che non accennano a incrinarsi: “inspiegabile” vuol dire, in questo caso, qualcosa su cui non si vuole riflettere e fare chiarezza, una evidenza  -il volto violento dell’amore- che deve restare invisibile.

Non ci vogliono conoscenze particolari della vita di relazione e della vita psichica di un individuo, per sapere che la “normalità” di una coppia, di una famiglia, così come viene ripetuta fino alla nausea nelle testimonianze del vicinato, significa essenzialmente che nessuno sa più cosa succede oltre le pareti della propria casa, del suo cortile, e se lo sa, tace per quieto vivere o perché all’invadenza della comunità chiusa paesana non abbiamo saputo finora sostituire nessuna altra forma, libera e solidale, di socialità. 

Non serve neppure una preparazione psicanalitica, per capire quanto sia legata l’idea proprietaria su cui si è retta storicamente la famiglia  - la dipendenza psicologica, giuridica, morale, affettiva, che essa struttura, tra marito e moglie, madre e figli-, con le pulsioni aggressive che vi crescono dentro inevitabilmente, e che in taluni casi provocano gli effetti nefasti che conosciamo.

 C’è una responsabilità, si potrebbe dire una colpevolezza, più odiosa di quella dell’uomo che uccide uccidendosi a sua volta o passando il resto della sua vita in carcere: è quella di una società  -di maschi prima di tutto, ma anche di donne- che non pronuncia una parola, non muove un passo, non fa il minimo gesto perché questa infamia che si protrae da secoli sia almeno portata allo scoperto, analizzata per la centralità che ha nella vita di tutti, per il peso che ancora sostiene nel dare alla sfera pubblica la sua apparente autonomia, il suo arrogante disinteresse per quel retroterra dove, in nome dell’amore, si consumano una quantità enorme di lavoro e di energie femminili.

Ormai dovrebbe essere nella consapevolezza di tutti che il privilegio maschile nella società comincia nelle case, che il potere dell’uomo sulla donna passa, prima di tutto, da quell’appropriazione del corpo delle donne –sessualità, capacità generativa e lavorativa- che ancora oggi ha nella famiglia il suo fondamento “naturale”, nella “norma eterosessuale” la sua copertura ideologica. Nonostante che gli omicidi quotidiani  -di donne, prevalentemente, ma non solo- abbiano tolto da tempo alla famiglia la sua immagine tradizionale di ‘luogo sacro’, focolare dell’amore, culla di teneri affetti, riposo del guerriero, nonostante che la diffusa pedofilia si annidi proprio nelle stanze che si vorrebbero destinate ad altra intimità, la famiglia resta il grande rimosso dell’insicurezza sociale, delle paure reali o ingigantite ad arte, la zona di passioni “inspiegabili” per una cultura di massa che, per un altro verso, pretende di portare tutto allo scoperto, e che oggi penetra più o meno cinicamente, per ragioni scientifiche commerciali, politiche, moraliste o religiose, fin nelle pieghe più insondabili della nascita, della morte, della maternità, della malattia. 

E’ facile fare una battaglia perché si limiti il porto d’armi, perché cessi la campagna sicuritaria da parte di politici interessati a raccogliere consensi giocando sull’emotività della gente più indifesa. Più difficile è guardare senza orrore e senza arretramenti quel coltello che compare sulle cucine, sulle tavole, e che somministra cibo e morte, arma a doppio taglio proprio come il legame che stringe amore e odio intorno alla coppia, alle parentele, alle convivenze. 

All’interno delle case, in nuclei famigliari sempre più ristretti, si gioca ancora la partita del potere, dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza più resistente a ogni cambiamento, per la radice antica e per la complessità, contraddittorietà, delle esperienze che vi sono implicate. 

Ma c’è, e non da ora, una storia e una cultura politica di donne che ha osato portare lo sguardo oltre i confini della polis, scoperchiare mascheramenti ideologici secolari, riformulare da quell’ ‘altrove’, cellula prima di ogni forma di dominio, l’idea stessa di politica. Se, nonostante il pervicace silenzio di cui è fatta oggetto, torna da più di un secolo a riempire piazze e strade, si può ancora far finta di non vederla ma non si può non sapere che esiste.

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venerdì 7 aprile 2023

Buona Pasqua di Pace

 Ci auguriamo che "Il Canto di Pace" di Anna Achmatova, originaria di Odessa, possa raggiungere gli uomini artefici delle guerre che devastano il mondo.




sabato 1 aprile 2023

8 marzo, la strada è ancora lunga: i congedi parentali che frenano la parità di genere sul lavoro A cura di Tortuga

La parità di genere sul mondo del lavoro è ancora distante. Le politiche di riequilibrio dei ruoli familiari sono essenziali e tra queste rivestono un’importanza primaria i congedi paritari dei genitori. Ecco perché.

A quasi 50 anni dall’istituzione ufficiale della Giornata internazionale per i diritti della donna, il mercato del lavoro italiano è ancora fortemente disuguale. Secondo i dati Istat più recenti, il tasso di occupazione femminile (fascia 15-64 anni) è del 50,9%, rispetto al 69,7% maschile. Il divario è tra i maggiori in Europa.

La differenza aumenta considerando gli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni con almeno un figlio: all'interno questa categoria, solo il 55,1% delle madri italiane lavora rispetto all’83,2% dei padri. Questo significa che il dovere di occuparsi dei figli ricade in misura prevalente sulle prime.

Difatti, le donne in Italia registrano un numero di ore molto superiore agli uomini nel lavoro non retribuito o di cura, che comprende i lavori domestici, di accudimento di figli e anziani. Secondo il Report dell’Unione Europa sulle disuguaglianze di genere e il lavoro non retribuito, l’Italia è al secondo posto in Europa per tasso di donne inattive in ragione di care responsibilities, cioè di responsabilità familiari.

In questo contesto, le politiche di riequilibrio dei ruoli familiari sono essenziali e tra queste rivestono un’importanza primaria i congedi paritari dei genitori, che possono incentivare una diversa allocazione di lavoro retribuito e non retribuito.

In particolare, distinguiamo tra congedi di maternità e paternità, obbligatori, e contestuali alla nascita di un figlio, e parentali, facoltativi e distribuiti su un periodo di tempo più lungo.

In Italia, mentre il congedo di maternità obbligatorio, che ha durata pari a 5 mesi, è in linea con la media europea, il congedo di paternità obbligatorio, di 10 giorni lavorativi, è tra i più brevi, come è visibile nella figura 2. Bisogna inoltre considerare che alcuni Stati che sembrano avere dati peggiori rispetto all’Italia, come Germania e Islanda, in realtà adottano altre misure compensative, come congedi parentali riservati gli uomini più generosi e più lunghi rispetto a quelli previsti nel nostro Paese.

Pur essendo importante per chi ha partorito disporre di un periodo di recupero fisico corretto e passare del tempo con il neonato, una disparità eccessiva dei congedi può portare a un sovraccarico ingiustificato dei compiti domestici affidati alla donna alla luce della prolungata permanenza a casa.

Il medesimo ragionamento vale per il congedo parentale. Il congedo facoltativo è infatti uno strumento paritario che, rendendo il lavoro più flessibile, permette una migliore conciliazione tra lavoro e famiglia e favorisce l’aumento del tasso di occupazione femminile. In Italia, esistono addirittura degli incentivi affinché anche il padre ne usufruisca. Tuttavia, nonostante un aumento dei padri beneficiari negli anni, il 77% delle richieste proviene da lavoratrici donne, tanto che, secondo il Family Database dell’Ocse, l’Italia non ha un’effettiva quota di congedo parentale riservata agli uomini e non trasferibile.

Inoltre, sia la sua durata (10 mesi durante i primi 12 anni di vita dei figli) che le indennità previste (30% della retribuzione ordinaria) sono basse rispetto agli altri Paesi europei.

Gli effetti positivi del congedo parentale sull’occupazione femminile potrebbero aumentare ulteriormente se fosse più diffuso tra gli uomini, dato che permetterebbe una maggiore condivisione del lavoro domestico. Vi sono varie ragioni per il suo insuccesso tra i padri. La significativa decurtazione dello stipendio, ad esempio, potrebbe essere particolarmente scoraggiante per gli uomini che spesso hanno una retribuzione più elevata (in ragione del divario salariale di genere). Come suggerito dal report Ue sopracitato, anche l’esistenza di alcuni stereotipi culturali può giocare un ruolo importante, ma adeguate politiche di incentivo potrebbero invertire la tendenza.

Le politiche relative ai congedi, riguardando sia la famiglia che l’uguaglianza di genere, possono avere molteplici benefici. L'obiettivo principale è quello di garantire la parità tra i sessi, evitando il dissidio tra le funzioni di donna-madre e donna-lavoratrice, in modo da favorire la libertà di scelta e la piena realizzazione della persona. Un migliore equilibrio vita-lavoro aumenterebbe l’occupazione femminile, portando quindi effetti positivi sulla crescita economica dell’intero Paese. Inoltre, alcuni studi evidenziano la correlazione positiva tra il tasso di natalità e queste misure, che aiuterebbero dunque a rispondere alla crisi demografica italiana. Infine, queste politiche potrebbero diminuire la discriminazione delle donne (tutte, non solo quelle che desiderano avere figli) all’ingresso del mercato del lavoro: infatti, se la cura dei figli e della casa fosse ripartita equamente, i datori di lavoro non avrebbero motivo di ritenere l'assunzione delle donne più svantaggiosa.

Dati gli effetti positivi sull’uguaglianza di genere, nonché sul sistema Paese, è importante per l’Italia inserire queste misure all'interno delle proprie priorità politiche, come Tortuga ha già sottolineato in passato. Senza l’individuazione e la proposta di misure concrete per avvicinarsi ad una più completa parità dei sessi, le celebrazioni dell’8 marzo rischiano di rimanere uno sterile esercizio retorico.

https://www.fanpage.it/politica/8-marzo-la-strada-e-ancora-lunga-i-congedi-parentali-che-frenano-la-parita-di-genere-sul-lavoro/