giovedì 19 settembre 2019

Festa della solidarietà e del buon cibo per tutti domenica 29 settembre 2019

Anche quest'anno ventunesimodonna ha aderito alla festa della solidarietà 
vi aspettiamo domenica 29.9 in piazza Europa a Corsico



lunedì 16 settembre 2019

Sessismo, la pubblicità spiegata alle aziende in 10 punti di Annamaria Arlotta

Quando da questo gruppo Facebook protestiamo sulle pagine delle aziende per un’immagine che troviamo offensiva, ci rispondono che siamo bacchettoni. Dovremmo farci una risata. C’è ben altro! E comunque siamo gelose, è chiaro (anche quando a protestare sono uomini).

Però il concetto di sessismo comincia ad essere percepito come qualcosa di negativo, e quando le proteste sono tante i titolari rispondono tutti: “noi sessisti? Assolutamente no”. Ci dispiace che abbiate percepito la nostra pubblicità in modo sbagliato, la nostra intenzione era di fare dell’ironia. E poi nell’azienda ci sono anche donne!” Una volta una macelleria mostrò una donna in abiti succinti sdraiata su un vassoio accanto a un pezzo di carne, con uno slogan sui piaceri della carne. Ma non erano sessisti!

Ma non è una questione di pelle esposta. Per inquadrare i termini ho stilato delle linee guida per le aziende, e spero che il mio Bignami della pubblicità sessista chiarisca che quello che abbiamo a cuore è la dignità della donna.

Spettabile Azienda o Società,
la vostra pubblicità è sessista se rientra in uno di questi casi:

1) usate la figura femminile sessualizzata, con o senza doppi sensi, per promuovere prodotti, eventi o servizi. Usate zone erogene di donne, isolate dal resto, su corpi senza testa, e se in questo tipo di immagine ci fosse un uomo al posto della donna non funzionerebbe;

2) mostrate la donna come sciocca, dedita ad attività frivole (es. lo shopping) e ossessionata dalla cura del corpo, e gli uomini dediti ad attività lavorative;

3) fate corrispondere colori e forme della donna con il prodotto (esempio: abito rosso se il logo dell’azienda è rosso) o abbinate due o tre tipi di donne alle qualità del prodotto (es: donna intraprendente, automobile scattante, o gusto alimentare deciso);

4) mostrate le donne unicamente come mamme, casalinghe e cuoche;

5) usate stereotipi: se non è giovane cucina o stira, in certi giorni è aggressiva, è chiacchierona e pettegola, è spendacciona;

6) ridicolizzate la donna, per esempio mettendole insalata o un altro cibo in testa. La mostrate in pose improbabili o in vestiario inadatto all’attività che svolge (es. cambia le gomme da neve in minigonna e tacchi alti);

7) la fate sentire sbagliata se non usa i vostri servizi (es. depilazione, dimagrimento);

8) mostrate uomini incapaci di svolgere le faccende di casa o prendersi cura dei figli, suggerendo che quei compiti siano di pertinenza femminile;

9) i bambini che mostrate sono intraprendenti se maschi, e vanitose se femmine;

10) nelle vostre pubblicità imponete a tutti una visione, maschile, che piace ad alcuni, proponendo solo i ruoli del passato – la donna come fonte di piacere e al servizio degli altri.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/09/14/sessismo-la-pubblicita-spiegata-alle-aziende-in-10-punti/5427811/?fbclid=IwAR0zDJznQmzyF___I6_7_8bC79X4Ocgv7a7DhjGxRGgu3oVliUOs71sBEfc

domenica 15 settembre 2019

La donna a cui dobbiamo la pillola nacque 140 anni fa

La storia di Margaret Sanger, considerata l'inventrice dell'espressione "controllo delle nascite" e una delle prime e più importanti attiviste per i diritti riproduttivi

Sabato pomeriggio a Verona ci sarà un corteo per chiedere l’abrogazione della legge 194, quella che in Italia permette e regola l’accesso alle operazioni di interruzione volontaria di gravidanza. Fin da quando abortire legalmente e in modo sicuro è diventato possibile, in Italia nel 1978, ci sono minoranze che si oppongono a questo diritto delle donne. In altri paesi, anche di cultura occidentale, le cose vanno peggio: negli Stati Uniti nell’ultimo anno sono state introdotte varie leggi statali che limitano l’accesso all’aborto, mentre in Argentina il grande impegno dei movimenti femministi per legalizzarlo non ha ancora portato a conseguenze legislative.

Una cosa curiosa della manifestazione di Verona di oggi è che è stata organizzata nel 140esimo anniversario della nascita di Margaret Sanger, una delle prime grandi attiviste per i diritti riproduttivi, fondatrice della rete di cliniche americane Planned Parenthood, che oggi si occupano anche di interruzioni di gravidanza, e tra le persone a cui dobbiamo l’esistenza della pillola anticoncezionale: aiutò il biologo Gregory Pincus, uno dei tre scienziati che la svilupparono, a studiare gli effetti degli ormoni femminili trovando dei fondi per le sue ricerche.

La biografia di Sanger è molto avventurosa e anticonformista per una donna che visse a cavallo tra Ottocento e Novecento. Fu arrestata più volte per il suo attivismo per i diritti riproduttivi, incontrò capi di stato stranieri e organizzò centinaia di manifestazioni. Ebbe inoltre una relazione con lo scrittore inglese H.G. Wells, autore di La guerra dei mondi e La macchina del tempo, tra gli altri, mentre insieme alla nipote Olive Byrne fu una delle donne che ispirò il personaggio di Wonder Woman.
Margaret Sanger nacque a Corning, una cittadina nello stato di New York, il 14 settembre 1879 come Margaret Higgins. I suoi genitori erano di origine irlandese e aveva i capelli rossi, come facevano notare molti articoli di giornale su di lei e come non si può capire dalle foto in bianco e nero. Come la maggior parte degli irlandesi, suo padre era cattolico, ma nel tempo divenne ateo e aveva idee progressiste: per esempio era a favore del diritto di voto alle donne che, per gran parte della vita di Sanger, fu il principale obiettivo delle femministe. Sua madre ebbe 18 gravidanze in 22 anni, ma solo 11 bambini nati vivi; aveva la tubercolosi e morì a 49 anni. La storia della sua vita ebbe un grande effetto sulle scelte successive di Sanger. Era la sesta figlia dei genitori e da ragazza aiutò spesso la madre nel prendersi cura dei fratelli più giovani: a soli 8 anni la aiutò a partorire.
Grazie al lavoro delle due sorelle più grandi potè studiare come infermiera a New York. Nel 1902 si sposò con l’architetto William Sanger. I due vivevano a New York e il loro appartamento divenne un punto di ritrovo per socialisti e anarchici. Come sua madre Sanger si ammalò di tubercolosi, per questo la coppia si trasferì in una località più salubre. Negli anni lei e il marito ebbero tre figli.
Sanger divenne un’attivista poco dopo il suo rientro a New York, nel 1912. Lavorava come infermiera nei reparti di maternità degli ospedali del Lower East Side di Manhattan, all’epoca un quartiere di immigrati e lavoratori dei livelli più poveri della società. Conobbe molte donne spossate e invecchiate a soli 35 anni a causa di numerose gravidanze, e di frequente dovette assisterle mentre soffrivano per le conseguenze degli aborti autoinflitti che spesso le portavano alla morte. Raccontò di aver sentito una donna chiedere a un medico come fare per non restare di nuovo incinta, in un contesto in cui la contraccezione non esisteva e i mariti potevano fare quello che volevano a prescindere dal consenso delle mogli: il medico le disse di dire al marito di dormire sul tetto. La donna morì sei mesi dopo a causa di un aborto.
Sanger poco dopo rinunciò al lavoro di infermiera. Il suo necrologio sul New York Times riporta una cosa che disse per spiegare la sua scelta:
All’improvviso capii che il mio lavoro di infermiera e le mie attività nei servizi sociali erano solo dei palliativi e di conseguenza inutili a ridurre la miseria che vedevo attorno a me.
Sanger si convinse che il fatto che le persone più povere non potessero avere il controllo sul numero dei propri figli – molti dei quali morivano nel parto o nei primi anni di vita per le dure condizioni di vita delle proprie famiglie – fosse uno dei maggiori problemi della società e delle donne in particolare. Sempre nel 1912 scrisse 12 articoli in serie per il New York Call, un quotidiano socialista: la serie si intitolava “What Every Girl Should Know”, “Le cose che tutte le ragazze dovrebbero sapere”, e parlava di attrazione sessuale, masturbazione, sesso, malattie veneree, gravidanza e parto. La polizia postale vietò la pubblicazione del dodicesimo articolo con l’accusa di oscenità: all’epoca si pensava che la contraccezione favorisse la promiscuità, che era mal vista.
Nel frattempo studiava il tema della contraccezione e nel 1914, insieme alla sorella Ethel Byrne (a sua volta infermiera), cominciò a diffondere una newsletter mensile di 8 pagine in cui per la prima volta fu usata l’espressione birth control, cioè “controllo delle nascite”: Woman Rebel. Il manifesto della newsletter, pubblicato nel primo numero, ne spiegava il titolo dicendo, tra le altre cose: «Credo che la donna sia schiavizzata dal mondo, dalle convenzioni riguardo al sesso, dalla maternità e dall’esigenza di crescere i bambini». Una delle newsletter elencava sette circostanze in cui usare metodi contraccettivi, tra cui i casi in cui uno dei partner aveva una malattia infettiva, quelli in cui la donna non era in salute, quando il reddito della coppia era troppo basso e, in ogni caso, durante il primo anno di matrimonio. Tuttavia la newsletter non spiegava nei fatti come si potesse evitare di restare incinta: rispettava la cosiddetta legge Comstock, allora in vigore nello stato di New York, che vietava di dare informazioni sulla contraccezione.
Sei dei sette numeri di Woman Rebel furono comunque giudicati osceni e sequestrati: Sanger fu ritenuta responsabile e chiamata a comparire in tribunale, ma fuggì in Europa. Lì proseguì i suoi studi sulla contraccezione e fu influenzata dalle idee del medico Havelock Ellis (di cui divenne amica e amante): credeva che l’uguaglianza erotica, cioè il riconoscimento del fatto che anche le donne provano piacere sessuale, fosse importante quanto l’uguaglianza politica. All’epoca queste idee erano più comuni tra gli uomini progressisti che tra le donne, le cui battaglie femministe si concentravano quasi esclusivamente sui diritti politici. Per Sanger al contrario la libertà di poter gestire il proprio corpo era più importante del diritto di voto.
Sanger scrisse ciò che imparò in Europa in un libretto di 15 pagine che intitolò Family Limitation e che fu distribuito per le strade a New York anche se il suo contenuto era illegale per le leggi dell’epoca: tra le altre cose conteneva una ricetta per preparare un farmaco abortivo. Nel settembre del 1915 suo marito William Sanger fu processato e condannato per averlo distribuito. Un mese dopo Sanger tornò negli Stati Uniti per stare con sua figlia, che aveva 5 anni e si era ammalata di polmonite. La bambina morì e per questo nel febbraio del 1916 le accuse contro Sanger per Woman Rebel (per cui la pena massima era di 45 anni di carcere) furono ritirate: l’accusa pensò che processare una donna che aveva appena perso una figlia avrebbe potuto favorirla in tribunale.
Nell’ottobre di quell’anno quindi Sanger proseguì la sua opera di attivismo per la contraccezione entrando ancora di più in azione. Insieme a Ethel Byrne affittò un negozio a Brooklyn (il cui proprietario abbassò l’affitto quando seppe cosa ne avrebbero fatto) e diffuse un annuncio che diceva, in inglese, italiano e yiddish:
MADRI!
Potete permettervi di avere una grande famiglia?
Volete altri bambini?
Se no, perché averli?
NON UCCIDETE, NON TOGLIETE LA VITA, MA PREVENITE
Informazioni affidabili e sicure possono essere ottenute da infermiere esperte al 46 di Amboy Street
La Sanger Clinic, la prima clinica americana in cui fosse possibile ottenere informazioni sul controllo delle nascite, a Brooklyn, il 27 ottobre 1916 (Social Press Association, Library of Congress via AP)

Nacque così la Sanger Clinic, la prima “clinica” degli Stati Uniti a fornire informazioni sui contraccettivi. Sanger e Byrne tenevano delle lezioni di fronte a gruppi di sette o otto donne per spiegare loro come usare preservativi o pessari: il primo giorno di apertura 140 donne si presentarono alla clinica. L’esperienza però durò poco: dopo nove giorni dall’apertura (in cui 464 donne ricevettero assistenza) una poliziotta si presentò alla clinica fingendo di essere una madre in cerca di aiuto e il giorno successivo Sanger e Byrne furono arrestate.
Ovviamente le due sapevano che quello che stavano facendo era illegale, e in un certo senso avevano un piano simile a quello che stanno portando avanti gli attivisti anti-abortisti negli Stati Uniti da circa un anno a questa parte: vogliono che le cause contro le nuove leggi statali che riducono l’accesso all’aborto arrivino fino alla Corte Suprema e sperano che questo tribunale – che grazie a Donald Trump è in maggioranza composto da giudici conservatori al momento – ribalti la sentenza Roe v. Wade del 1973 che legalizzò l’aborto nel paese. In modo simile, Sanger e Byrne speravano di finire in tribunale per il loro lavoro nella Sanger Clinic: chiedere che le cliniche dedicate alla contraccezione fossero legalizzate avrebbe richiesto tempi troppo lunghi, come dimostravano le battaglie per il diritto di voto, mentre mettere in discussione in tribunale la legge che ne vietava l’esistenza avrebbe potuto creare dei precedenti giudiziari vantaggiosi.
Nel 1917 Sanger e Byrne furono processate: prima toccò a Byrne, che fu condannata a 30 giorni di carcere. Si parlò moltissimo del suo caso perché ispirandosi alle suffragette britanniche fece uno sciopero della fame per protesta contro la sua prigionia: arrivò vicina alla morte e fu la prima carcerata nella storia degli Stati Uniti a essere alimentata a forza. Alla fine ottenne la grazia del governatore di New York. Anche Sanger fu condannata a 30 giorni di carcere e li scontò rifiutandosi di pagare la multa che glieli avrebbe risparmiati.
In un certo senso Sanger ottenne un importante risultato con il suo processo: il giudice che la condannò disse che non aveva il diritto di dare informazioni sulla contraccezione ma che un medico – lei era solo un’infermiera – avrebbe potuto farlo per la prevenzione o la cura di malattie. Da quel momento in poi Sanger cercò la collaborazione dei medici (professione che intrapresero entrambi i suoi figli maschi, Stuart e Grant Sanger) per portare avanti la sua battaglia e con essi aprì nuove cliniche. Avviò inoltre la pubblicazione di una nuova rivista, la Birth Control Review e intanto, nel 1919, divorziò dal marito e iniziò una relazione con lo scrittore H.G. Wells, che aveva idee molto progressiste riguardo ai diritti delle donne e al poliamore e che si ispirò a lei per il romanzo autobiografico The Secret Places of the Heart (1922).
Nel 1921 Sanger fondò l’American Birth Control League che nel 1946 sarebbe diventata la Planned Parenthood Federation of America: è l’organizzazione americana di cliniche non profit che tuttora fornisce molti servizi sanitari alle donne, tra cui le interruzioni di gravidanza. In quel periodo tuttavia erano soprattutto i liberali affascinati dalle teorie dell’eugenetica – cioè secondo cui si sarebbe potuto e dovuto migliorare la «qualità genetica» della popolazione, pensando che una cosa del genere esistesse – a interessarsi al controllo delle nascite e alla contraccezione: non condividevano le idee femministe di Sanger sulla libertà sessuale. Per questo alla fine Sanger rinunciò alla presidenza dell’American Birth Control League e negli anni si allontanò dall’organizzazione che divenne sempre di più controllata da uomini interessati a ridurre la crescita della popolazione.
Intanto continuò a diffondere le sue idee e a farsi notare per come le pubblicizzava, scontrandosi spesso con la Chiesa cattolica e facendosi arrestare. Nel tempo però il suo impegno diede altri frutti: nel 1936 la legge Comstock fu reinterpretata in modo che le donne potessero ricevere informazioni sui metodi contraccettivi e nel 1937 l’American Medical Association riconobbe la diffusione di tali informazioni come parte legittima della pratica medica.
All’inizio degli anni Cinquanta, frustrata per il fatto che la liberazione sessuale delle donne non fosse ancora avvenuta come sperava, Sanger si rivolse a Gregory Pincus, biologo che aveva studiato gli ormoni femminili ed era stato licenziato dall’Università di Harvard per le sue ricerche sulla fecondazione in vitro. Sanger gli chiese di inventare un nuovo metodo contraccettivo imbattibile, preferibilmente in forma di pillola, e Pincus acconsentì. Sanger trovò anche i fondi per finanziare la sua ricerca: quelli forniti dall’ex suffragetta e laureata del Massachusetts Institute of Technology Katherine McCormick, che dal 1904 al 1947 si era presa cura del suo ricco marito, affetto da schizofrenia, e alla sua morte si era ritrovata in possesso di una grossa eredità. Se non ci fosse stata McCormick sarebbe stato complicato finanziare la ricerca dato che all’epoca la contraccezione era illegale in circa 30 stati americani.
Ci vollero diversi anni perché Pincus e i suoi collaboratori, primo tra tutti il ginecologo John Rock, riuscissero a mettere a punto la prima pillola anticoncezionale, l’Enovid. Per poterla testare sulle persone, gli scienziati andarono a Porto Rico, dove fecero assumere gli ormoni (contravvenendo in molti modi alle attuali regole sulle sperimentazioni dei farmaci) a donne con pochi mezzi economici che volevano smettere di restare incinte. La pillola fu approvata dalla FDA (Food and Drug Administration), l’agenzia americana che si occupa dei farmaci, nel 1957: per essere sicuri di ottenere l’approvazione Pincus e Rock proposero il farmaco come rimedio per regolarizzare il ciclo mestruale; la sua reale funzione era indicata come un effetto collaterale. Sulla confezione c’era scritto: «Attenzione: impedisce gravidanze».
Nello stesso periodo in cui Pincus cominciò a lavorare alla pillola nacque una versione internazionale di Planned Parenthood, l’International Planned Parenthood Federation: fu fondata nel 1952 a Bombay, in India, proprio da Sanger insieme all’attivista indiana Dhanvanthi Rama Rau. In India Sanger incontrò anche il primo ministro Jawarharlal Nehru ed ebbe un’influenza su molti altri paesi dell’Asia e dell’Africa con le sue idee. Fu la prima donna a parlare davanti al Parlamento del Giappone.
Sanger morì a causa di problemi legati all’arteriosclerosi il 6 settembre 1966, una settimana prima di compiere 83 anni. Sei anni prima l’FDA aveva approvato l’uso dell’Enovid come contraccettivo, ma solo nel 1972 – un anno prima della sentenza Roe v. Wade – la pillola divenne prescrivibile in tutti gli Stati Uniti, a prescindere dallo stato civile della donna che voleva assumerla.
https://www.ilpost.it/2019/09/14/margaret-sanger-aborto-pillola/?fbclid=IwAR1zBzkG7iz8QwSkpP1Zt9tfwXw0IodH4z2HfUIUWF3i5MJ36jQnUn-hZsQ



venerdì 13 settembre 2019

Il potere distruttivo della anaffettività

 Con una sentenza che si può definire storica, la Corte di appello di Roma ha condannato all’ergastolo Vincenzo Paduano per omicidio e stalking dell’ex fidanzata Sara Di Pietrantonio. Il 29 maggio 2016 a Roma Paduano prima le tolse la vita e poi le diede fuoco, dopo averla perseguitata per mesi. Per questo motivo era stato condannato in primo grado all’ergastolo. Ma, il 10 maggio 2018, la Corte di appello ridusse la pena a trent’anni “assorbendo” il reato di stalking nell’omicidio. Lo scorso aprile la Cassazione aveva reputato errata questa decisione stabilendo che si tenesse un nuovo procedimento di secondo grado e l’11 settembre 2019 la Corte d’appello bis si è pronunciata, in sostanza confermando la condanna del primo grado.

Vi riproponiamo due articoli sul caso pubblicati su Left il 12 agosto 2017: il primo della psichiatra consulente della difesa Barbara Pelletti e il secondo di  Stefania Iasonna, avvocato di parte civile della mamma di Sara. [A.G.]

Il potere distruttivo della anaffettività
«La demolizione totale di Sara», «la cancellazione anche della memoria del suo bel volto, la rovina inferta ai suoi occhi, espressione della gioia di vivere, la devastazione della femminilità di Sara..». Questa breve citazione, dalle prime pagine che raccolgono le motivazioni della condanna all’ergastolo di Vincenzo Paduano per l’omicidio di Sara Di Pietrantonio, racchiude bene il senso e il valore, in termini culturali, ancor prima che sociali, di questa sentenza. Non è tanto importante che la pena sia esemplare, e funzioni così da deterrente, perché non è vero che si uccide per «emulazione», come purtroppo ha dichiarato anche Francesca Puglisi, presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, in una recente intervista. È importante che si faccia luce sulla realtà mentale di chi arriva a uccidere, sull’intenzionalità che sostiene la violenza e che collega, secondo il giudice Sturzo, tutti i reati commessi da Paduano: l’agghiacciante omicidio, preceduto dallo stalking e seguito dalla distruzione del corpo senza vita di Sara. Paduano ha voluto con «assoluta lucidità» eliminare Sara, fino a farla sparire anche fisicamente, «per non avere riconosciuto il suo preteso potere padronale» sulla sua vita. La premeditazione si struttura nel tempo, secondo la ricostruzione del magistrato, mentre Sara si sottrae, fino a lasciare Paduano, alla persecuzione che le nega «qualsiasi spazio di libertà fisica, intellettiva, amicale ed affettiva», con «una condotta ben diversa dallo schema della gelosia». La premeditazione è confermata dall’inquietante e tristemente noto messaggio postato da Paduano su Facebook due ore prima del delitto, sul quale il giudice torna continuamente: «Quando il marcio è radicato nel profondo ci vuole una rivoluzione, tabula rasa. Diluvio universale». È chiaro che Paduano non aveva soltanto una «fortissima determinazione omicidiaria»: l’eliminazione totale era il suo obiettivo. Questa sentenza, storica per molti aspetti, risponde con chiarezza a tante delle domande che sempre suscitano vicende così tragiche e ne pone, sia pure solo implicitamente, altre alle quali possiamo rispondere grazie alle fondamentali scoperte di Massimo Fagioli. Quello che disumanizza un uomo al punto da commettere azioni impensabili per tutti noi è l’anaffettività, che si genera dalla pulsione d’annullamento. Sara intuiva la violenza latente. Ha avuto a lungo paura di lasciare Paduano, ha temuto la sua reazione, presentendola, quando ha trovato il coraggio di farlo. Forse, se avesse potuto dare un nome alle sue sensazioni, avrebbe potuto difendersi.
Barbara Pelletti, psichiatra e psicoterapeuta

 Riconosciuta la gravità della violenza invisibile
Alle prime luci dell’alba del 29 maggio 2016 Concetta Raccuia ha trovato sua figlia, Sara Di Pietrantonio, appena ventenne, semicarbonizzata sul ciglio di quella strada che tante volte aveva percorso per tornare a casa: una bambola di pezza, riconosciuta solo grazie ai suoi abiti, lasciata in un angolo, senza vita e sfregiata dal fuoco, da chi diceva, sino a pochi giorni prima, di amarla. Quel corpicino di un metro e cinquanta per quaranta chili di peso ha svelato da subito alla madre l’inaudita ferocia del suo assassino, che ha tentato fino alla fine di manipolare, depistare, calcolare ogni via d’uscita e sviare le indagini, condotte e portate a termine in modo instancabile ed estremamente competente dalla Procura e dalla Squadra mobile di Roma, senza lasciare nulla al caso, con una umanità in cui raramente ci si imbatte al giorno d’oggi. È stato difficile spiegare a questa madre come fosse possibile che per un reato così grave, preceduto e seguito da delitti altrettanto orribili e crudeli, Vincenzo Paduano potesse essere giudicato accedendo a un rito “premiale” a seguito del quale, come nella maggior parte dei casi succede, avrebbe scontato in carcere una pena di fatto non superiore a dieci, dodici anni. E invece il Gup del Tribunale di Roma, Gaspare Sturzo, in 60 pagine di motivazione, ha ricostruito e puntualmente motivato, con una sentenza che lascia veramente pochi spazi di impugnazione, le ragioni per le quali Vincenzo Paduano meritava, per tutti i fatti commessi, di essere condannato a un “fine pena mai”. Il giudice ha ritenuto responsabile Paduano per tutti i reati a lui contestati, riconoscendo anche le aggravanti. Forte evidenza viene data alla grave modalità dei fatti commessi. Il perpetrare gli atti persecutori con una intensità di dolo tale da raggiungere quasi un “livello di tortura psicologica”, l’“indirizzo punitivo” che si concretizza nell’omicidio, in quanto Sara non voleva riconoscere il ruolo di “padrone” del suo persecutore, il tendere un vero e proprio agguato alla giovane vittima, una “battuta di caccia”, l’averle in ogni modo impedito di difendersi ed averne distrutto il cadavere con il fuoco, dopo averla soffocata: questi, e molti altri, i motivi per cui il Gup non ha ritenuto dover concedere alcuna attenuante, nessun beneficio, nessuno sconto di pena. Ma a questa sentenza va dato l’ulteriore merito di aver saputo bene inquadrare il reato di atti persecutori che, non a caso, il giudice ha ritenuto affrontare per primo, entrando appieno nella dinamica del rapporto relazionale della giovane coppia, guardando oltre e riconoscendo la gravità della violenza non visibile, che per questo spesso viene considerata meno grave, tanto da giustificare l’archiviazione delle querele delle donne che la denunciano. Dal 3 agosto scorso, grazie alla cosiddetta Legge Orlando, potrebbe addirittura accadere che si arrivi all’estinzione del reato a fronte del pagamento di una somma ritenuta congrua, quand’anche non accettata dalla persona offesa. Sotto questo profilo, la sentenza si discosta dalle tante presenti nel panorama giurisprudenziale che arrivano a non riconoscere il ruolo di vittima di stalking alle donne che non si ribellano o assecondano il comportamento del loro persecutore. Le migliaia di messaggi whatsapp raccolti dagli inquirenti hanno fatto emergere chiaramente il comportamento tenuto, per due anni, da Vincenzo Paduano. Il magistrato ha ritenuto di evidenziare quel suo continuo “esigere rispetto”, pretendere che la ragazza “continuasse a chiamarlo ed a scambiare con lui messaggi”, privandola “della gioia di vivere”, “provocandole enormi sofferenze” e facendole subire un controllo ossessivo da cui lei tentava, completamente soggiogata, di fuggire. Insomma un vero e proprio inferno, che è assurto a prova regina, per il Tribunale, del “dolore di Sara”.
Stefania Iasonna, avvocato di parte civile della madre di Sara, Concetta Raccuia
https://left.it/2019/09/12/il-potere-distruttivo-della-anaffettivita/?fbclid=IwAR2io0daOagynJB8vbaS_nS5WZO2Hi8EyePvkp5cQLN1o0BbqnqaRAq6j-Y

giovedì 12 settembre 2019

Rosa contro celeste, «Quei pregiudizi di genere che distruggono i bambini» di Laura Bogliolo

«Come sei carina, da grande farai la modella...». Lei, 11 anni, in realtà, sogna di fare l'astronauta e prova disagio nel tradire le aspettative di altri, basate sugli stereotipi di genere. A dieci anni invece c'è chi vuole  giocare a calcio, ma ha paura degli insulti sessisti. L'omofobia, poi, è uno spauracchio così forte che colpisce ogni diversità. «C'era un ragazzino che giocava a basket, ma si vergognava a piangere davanti ai compagni se perdeva una partita, perché altrimenti gli dicevano che era "fr..". Mentre il termine "lesbica" resta un insulto».

APPROFONDIMENTI
Dentro la vita dei bambini delle scuole elementari e dei ragazzini delle medie, tra paure, solitudini e disagio interiore per educare alle differenze, contro gli stereotipi. L'educazione sentimentale serve anche a questo, a «imparare a dialogare, a gestire la rabbia, a sviluppare relazioni in modo sereno al di là dei pregiudizi, degli stereotipi di genere». Prima di ogni percorso si parla con i genitori e con i docenti. Secondo molti per combattere la violenza di genere, quella che poi sfocia nel femminicidio, è fondamentale introdurre l'educazione sentimentale nelle scuole.

A Roma partirà il progetto «ABC, Alfabeti per l'educazione sentimentale» in 11 scuole pubbliche grazie alla collaborazione tra il I e III Municipio, con l'associazione S.CO.S.S.E. (Soluzioni Comunicative, Studi, Servizi Editoriali) e Aidos. «Ogni percorso prevede 16 ore con gli studenti, si va dalla quarta elementare fino alla terza media, tre incontri con i docenti e due  con i genitori - spiega Monica Pasquino presidente dell'associazione S.CO.S.S.E. - la presenza dell'educazione sentimentale nelle scuole è importante per il ruolo che ha e perché rispecchia i problemi che esistono nella società e in un certo senso li anticipa. Nei laboratori si gioca, si approfondisce la conoscenza di se stessi e degli altri, si parla di emozioni, si combatte contro gli stereotipi di genere». Quegli stereotopi tossici per la costruzione della propria identità libera, quelli secondo i quali, banalmente le femminuccie vestono di rosa, i maschietti di celeste. Anche i colori, insomma, rafforzano i pregiudizi.

«Il dialogo - aggiunge - nella preadolescenza è molto importante, ma non si ha più il tempo per parlare, per sviluppare relazioni». Tra le tante iniziative dell'associazione c'è "Leggere senza stereotipi", «una sorta di catalogo ragionato che proponga un immaginario libero da stereotipi di genere e non solo» spiega l'associazione.

«L’Europa sta investendo molte risorse sul tema della violenza di di genere e sul bullismo e noi abbiamo avuto e stiamo avendo l’opportunità di lavorare in tandem con le associazioni S.CO.S.S.E e ora AIDOS - ha spiegato Sabrina Alfonsi, minisindaco del I Municipio - Mi auguro che anche in futuro vengano coinvolte sempre più istituti, perché il contrasto al bullismo e alla violenza di genere parte dall’educazione. La cosa più importante che possiamo fare noi adulti, come genitori e come istituzioni, nei confronti delle bambine e dei bambini, dei ragazzi e delle ragazze, è tornare a privilegiare il dialogo, a parlare con i nostri figli, allievi, studenti, permettere loro di pensare se stessi e gli altri in termini di parità – ma soprattutto, tornare ad ascoltarli». «La violenza maschile cresce e fermenta in questo modello culturale, il modo migliore per scardinarlo è l'educazione e luogo migliore è proprio la scuola», ha detto Claudia Pratelli, assessore alla scuola del III Municipio.

Tra le tante storie che Pasquino ricorda c'è quella di una ragazzina che veniva bullizzata a scuola perché non vestiva alla moda. «Diceva che non voleva acquistare abiti firmate per ribellarsi agli stereotipi, per non omologarsi. Invece, durante uno degli incontri in classe è scoppiata a piangere e ha detto: "Da quando è morta mamma, papà ha meno soldi e quei vestiti non posso comprarli...."».

https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/bambini_bullismo_rosa_celeste_scuola_stereotipi_mind_the_gap_violenza_di_genere-4555341.html?fbclid=IwAR3FB_sMX3O6BzoLsEi4pJBekFmKGk6TLFre4TbXvFm-OjkXr928NyVNVY0

mercoledì 11 settembre 2019

QUANDO VOLEVO ESSERE PIPPI

Pippi Calzelunghe è forse il personaggio femminile della letteratura per l’infanzia che più di ogni altro ha conquistato in tutto il mondo bambine e bambini senza essere rinchiusa nella gabbia dei “libri per femmine”, come è successo per altri. E fra i tanti e le tante conquistò me, all’inizio degli anni Settanta.

Conosciamo tutti e tutte la sua  autrice, Astrid Lindgren, che nel 1945 inventò la bambina  e le prime storie per distrarre la figlia ammalata. Conosciamo meno invece la prima illustratrice di Pippi, la danese Ingrid Vang Nyman. Avrebbe avuto lo stesso successo Pippi se fosse stata illustrata in modo meno rivoluzionario e fuori dagli schemi?

I telefilm uscirono in Svezia nel 1969, in particolare il primo era uscito il 25 agosto, dunque si festeggia il loro 50° compleanno in questi giorni. Già l’anno successivo, poi, nel 1970, arrivarono anche alla tv italiana e il loro successo spinse la casa editrice Vallecchi a ripubblicare il libro (nell’edizione illustrata con le fotografie tratte dai telefilm), uscito in prima edizione in Italia in sordina già dal 1958 (tradotto da Donatella Ziliotto e illustrato appunto da Ingrid Vang Nyman).

È il 6 settembre 1970 quando Pippi fa la sua comparsa in RAI. Nel 1970 avevo giusto l’età e le caratteristiche per diventare una grande fan di Pippi: ero una bambina che amava giocare all’aperto, arrampicarsi sugli alberi, inventare strane avventure e cominciai immediatamente a divorare, in parallelo, i telefilm (sì, voglio proprio chiamarli telefilm, come si diceva allora, e non serie tv!) e poi il libro. Come non appassionarsi, e non a caso proprio negli anni successivi al ’68, a questa ragazzina buffa, stravagante, libera, generosa, intelligente ma fuori da ogni schema, fantasiosa, eccentrica e piena di voglia di vivere che riesce a gestire con serenità anche la tragedia di aver perso la mamma, convinta com’è che la osservi dal cielo con un cannocchiale! Come non desiderare di essere come lei, al punto da vestirmi a Carnevale non da principessa o da fatina ma da Pippi Calzelunghe?

Forse anche troppo trasgressiva sì da essere considerata diseducativa in periodi più recenti (ma anche in Svezia negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione suscitò un po’ di polemiche), in tempi di censura e di controllo che poi paradossalmente si applicano su bambini e bambine che non hanno quasi più regole. Sì perché negli ultimi anni viviamo il paradosso di un permissivismo sfrenato accompagnato poi dalla ricerca stolta di “racconti con la morale” e di censure ai libri operate a volte da politici e amministratori e a volte da mamme e papà che cercano nei libri modelli educativi che nella realtà quotidiana non sanno proporre.

Le avventure di Pippi invece non hanno morale, non propongono messaggi educativi, non stabiliscono regole ma sono un inno alla libertà di pensiero, al coraggio, al vivere fuori dagli schemi.

Quanto diverse sono le avventure di Pippi, il classico per eccellenza dei paesi scandinavi, dalle avventure di Pinocchio, il “nostro” classico. Mentre Pippi celebra la libertà, l’indipendenza, la scoperta, Pinocchio insinua il senso del dovere, il senso di colpa, l’obbedienza, il dover stare in guardia dalle cattive compagnie. Pinocchio viene punito quando dice le bugie, invece le bugie di Pippi, così assurde e paradossali, diventano un incitamento alla fantasia e al pensiero libero.

E quanto diversa è Pippi da Alice, l’altra grande eroina femminile dell’infanzia della prima metà del secolo scorso. Alice sembra essere più trascinata dalle avventure, Pippi le avventure le inventa ogni giorno, per sé e i suoi amici del cuore, Tommy e Annika, giudiziosi e “perfettini” che d’altra parte non smettono mai di rappresentare il giusto modello, quasi come fossero l’altro piatto che equilibra la bilancia.

Sì perché poi alla fine ogni bambina o bambino che legge o vede Pippi (anche attraverso il cartone animato… che mi rifiuto di vedere per non contaminare i miei ricordi!) sa bene che sono Tommy ed Annika a rappresentare la realtà, laddove Pippi rappresenta invece quel pizzico di fantasia, di disobbedienza, di pensiero libero che, nella giusta dose, non dovrebbe mai mancarci.


Articolo di Donatella Caione Editrice  ama dare visibilità alle bambine, educare alle emozioni e all’identità; far conoscere la storia delle donne del passato e/o di culture diverse; contrastare gli stereotipi di genere e abituare all’uso del linguaggio sessuato. Svolge laboratori di educazione alla lettura nelle scuole, librerie, biblioteche. Si occupa inoltre di tematiche legate alla salute delle donne e alla prevenzione della violenza di genere.

https://vitaminevaganti.com/2019/08/31/quando-volevo-essere-pippi/

martedì 10 settembre 2019

Sono ministre, smettiamo di giocare a «Ma Come ti vesti»?

Le critiche sessiste a Teresa Bellanova
La neo ministra presa di mira per il suo titolo di studio e l'abito scelto per il Giuramento - per qualcuno inadatto al suo aspetto fisico. Quando smetteremo di giudicare i politici per i loro look? E soprattutto, perché gli uomini sono immuni?

Ex bracciante e operaia tessile, ex sindacalista Cgil e militante di sinistra, quella di Bellanova è una storia di impegno e di riscatto. Questo però non è bastato a evitarle una marea di critiche - oltre a quelle sull'outfit e l'aspetto fisico - anche per il suo titolo di studio: la licenza media. Per fortuna, in difesa di Bellanova, si sono espressi/e decine esponenti del mondo politico, da Nicola Zingaretti a Matteo Renzi, da Mara Carfagna a Laura Boldrini. Non solo: anche l'esperto di look Enzo Miccio (storico volto di Ma come ti vesti?) ha manifestato il suo endorsement per l'abito dell'ex sindacalista.

Ma lasciamo da parte un attimo l'assurda polemica sull'outfit di Bellanova e chiediamoci per l'ennesima volta: per quale motivo la stampa e l'opinione pubblica si occupano di analizzare e criticare i tailleur delle ministre senza invece citare nemmeno le scelte di abbigliamento dei ministri uomini? Un esempio lampante di questo iniquo trattamento ci viene offerto, per esempio, da Repubblica, che si è preoccupata di commentare «l'abito nero fasciante» di Nunzia De Girolamo, il «sobrio tailleur scuro» scelto da Luciana Lamorgese, quello «chiaro» di Nunzia Catalfo e ovviamente il famoso abito «blu elettrico con le balze» di Bellanova. Come mai non sono stati dati voti a camicie e cravatte? Aspettiamo di scoprirlo.
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lunedì 9 settembre 2019

I FEMMINICIDI NON SONO CRONACA NERA E NEANCHE ROMANZO ROSA. di Lea Melandri

Sono la forma più selvaggia del sessismo e come tali devono essere affrontati dall'informazione.
Ha ragione Elisa Giomi: la lettura che i media danno dei femminicidi in chiave di patologia del singolo è cancellazione consapevole della violenza di genere, o se si preferisce del rapporto di potere tra i sessi che si è intrecciato e perversamente confuso da millenni con la vita intima.
È violenza su violenza, è collusione colpevole di una società nel suo complesso con le forme più selvagge del sessismo ancora dominante.

Elisa Giomi
ATTENZIONE, NON E' INCOMPETENZA O MESCHINITA'. E' UN ATTO POLITICO.
E' UNA DICHIARAZIONE DI GUERRA.
UNA GUERRA MAI CESSATA, CHE OGGI COME 40 ANNI FA - PER CHI CONOSCE LA STORIA - SI CHIAMA BACKLASH.

TITOLANO COSI' DI PROPOSITO.
Nessuna incapacita' tecnica o misconocenza del fenomeno. Gli strumenti oggi ci sono, l'ordine del discorso e' noto, i repertori per parlarne correttamente facilmente accessibili persino ai/alle non addetti ai lavori.

Il mio primo lavoro sulla copertura giornalistica del femminicidio in Italia e' apparso nel 2009, grazie a Rivista il Mulino. Venne considerato lavoro pionieristico, per tema, estensione del corpus e risultati. Fortunatamente, io e le altre non siamo piu' pioniere, e anzi, siamo in buona compagnia anche in accademia, dove tutte e tutti formiamo da anni centinai di studenti di media e giornalismo. La rivista AG About Gender-Journal of Gender Studies ha dedicato interi numeri al femminicidio, esplorandolo in tutte le sue forme.

Comunque, i centri anti-violenza e i collettivi femministi fanno cultura e divulgazione sul tema da ben prima di noi.
La rete NON UNA DI MENO ad esempio ha dettagliato i does e donts della narrazione mediale della violenza di genere nel suo Piano.

Consiglio Nazionale Ordine Dei Giornalisti, FNSI - Federazione Nazionale Stampa Italiana e CORECOM regionali, da 3-4 anni a questa parte, organizzano ottimi corsi di formazione, seminari, convegni in tema (Alessandra Mancuso Lorena Saracino Maria Tiziana Lemme). E auspichiamo prendano provvedimenti contro certi loro iscritti.

La rete Giulia Giornaliste unite libere autonome, di cui sono parte persone come Barbara Bonomi Romagnoli e Silvia Garambois, ha prodotto manuali utilissimi, grazie anche a Graziella Priulla Francesca Dragotto Luisa Betti Dakli. E altrettanto ha fatto Nadia Somma.
ANSA, la principale agenzia italiana, ha costituito un gruppo interno per la riflessione e messa a punto di buone pratiche giornalistiche su femminicidio e violenza di genere, su iniziativa dell'inarrestabile Elisabetta Stefanelli

Da quando il Monitoraggio sulla rappresentazione della figura femminile in RAI e' stato coordinato da Enrico Menduni, abbiamo inserito una sezione di rilevazione apposita, che RAI ha poi deciso di rendere obbligatoria anche per gli anni venturi. Anche AGCOM si e' pronunciata al riguardo.

Lea Melandri scrive da sempre cose potenti sull'argomento, e grazie a Stefania Anarkikka Spanò e alle sue vignette ne abbiamo poi anche per chi non sa leggere.

Eppure niente, loro continuano a spargere i loro miasmi tossici con queste narrazioni distorcenti, giustificatorie e persino celebrative (dell'assassino). E sul femminicidio di Elisa, quella del Giornale e' stata solo una delle tante.

PERCHE'?
Non è solo una provocazione acchiappa-like.
Il fatto è che non sopportano che stia divenendo egemonica la lettura in chiave di genere e di ordine di potere di genere, che vuole il femminicidio come forma estrema di assoggettamento delle donne (giacche' sono convinti che assoggettarle almeno un po' si debba). Quindi ricacciano la violenza nella dimensione del privato, nella non intellegibilita' del raptus, nella alterita' della devianza sociale e dell'immigrazione. E soprattutto nel fatalismo inevitabile e fascinoso dell'amore "primitivo e morboso", come e' stato scritto da altra testata sull'operato di questo ennesimo farabutto, dando spesso la responsabilita' alla vittima: ora sprovveduta e incauta, ora ingiusta perche' respinge o lascia, spesso implicitamente poco di buono.
"Degendering the problem, gendering the blame", come scriveva Nancy Berns gia' nei '90.
Sperano, cosi' facendo, di marginalizzare l'analisi e le istanze femministe. Sperano, cosi' facendo, di silenziare la nostra lotta.

QUINDI
Come intendiamo rispondere, sorelle e fratelli di buona volonta', alla guerra che una parte dei media ha ormai dicharato contro le donne e la loro vita?
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