domenica 31 gennaio 2021

 Siamo accanto alle donne polacche che da giorni sono tornate nelle piazze di numerose città per protestare contro una legge appena entrata in vigore che, limitando ulteriormente una già restrittiva legge, rende praticamente impossibile l'interruzione volontaria di gravidanza anche nel caso in cui le gravi malformazione del feto portino morte sicura.

Donne coraggiose che continuano a manifestare pacificamente in difesa del diritto di autodeterminazione nonostante le risposte repressive della polizia e i numerosi arresti fra cui Klementyna Suchanov la co-leader del movimento di protesta.

Tre articoli sull'argomento:

https://www.repubblica.it/esteri/2021/01/29/news/polonia_arrestata_suchanow_leader_del_movimento_di_protesta_contro_la_legge_anti-aborto-284730343/

Polonia, arrestata Suchanow, leader del movimento di protesta contro la legge anti-aborto di Andrea Tarquini

L'attivista fermata durante gli scontri tra polizia e manifestanti nel centro di Varsavia. La mobilitazione contro il governo andrà avanti per tutto il fine settimana in un clima di tensione crescente

BERLINO - Cresce di ora in ora il clima di tensione tra governo e società civile, e specie tra governo e movimento delle donne, in Polonia. La leader di Strajk Kobiet (sciopero delle donne, l'organizzazione femminile che mobilita la società civile) Klementyna Suchanow, è stata arrestata dagli agenti nella tarda serata di ieri nel corso di scontri tra forze di sicurezza e manifestanti svoltisi nel centro della capitale Varsavia. Gli scontri sono avvenuti davanti al palazzo neoclassico che ospita la Corte costituzionale. Secondo la polizia i dimostranti stavano tentando di dare l'assalto all´edificio. L'agenzia di stampa ufficiale Pap scrive che sarebbero riusciti a superare le recinzioni e a entrare nel giardino davanti al palazzo.

La leader della protesta: “Noi polacche in piazza per l’aborto. Nessuno fermerà la nostra rivoluzione”di Andrea Tarquini

Si temono altri confronti duri di piazza e incidenti nelle prossime ore: Strajk Kobiet ha indetto fin da ieri una nuova manifestazione contro la nuova legge che vieta l'aborto in ogni caso salvo stupro, incesto o pericolo di vita per la madre, e proibisce definendola anticostituzionale (caso unico nell'Unione europea) l'interruzione di gravidanza anche se la donna incinta la chiede perché il nascituro è colpito da malformazioni letali o malattie o difetti letali di qualsiasi tipo. "Continueremo a scendere in piazza per difendere i nostri diritti, il governo non può illudersi di imporci la sua volontà e le sue leggi disumane", ha dichiarato la co-leader di Strajk Kobiet, Marta Lempart.

 Non è finita: il confronto in piazza potrebbe durare anche l'intero weekend. Una grande manifestazione nazionale del movimento femminile e delle organizzazioni europeiste, antisovraniste, antiautocratiche e liberal della società civile è attesa per domani sabato a Varsavia. I dimostranti verranno da ogni parte del Paese con ogni mezzo. Secondo voci insistenti, confermateci da Klementyna Suchanow nell´intervista pubblicata oggi su Repubblica, il governo si prepara a tutto e sta facendo affluire da ogni città e regione nella capitale consistenti rinforzi sia di polizia antisommossa sia della Zandarmeria Wojskowa, cioè la Gendarmeria militare, che ha un ruolo simile sia alla National Guard americana sia alla polizia militare in ogni Paese o ai carabinieri in Italia.

Secondo dati ritenuti attendibili in Polonia prima dell'inasprimento delle leggi sull'interruzione di gravidanza si avevano in media duemila aborti legali ogni anno, nel 96-98 per cento dei casi effettuati appunto perché il nascituro aveva malformazioni mortali o malattie che lo avrebbero fatto morire alla nascita. Oltre duecentomila all'anno in media sono invece gli aborti effettuati clandestinamente o all'estero in Paesi vicini (Cechia, Germania, Nordeuropa) ove l'interruzione di gravidanza è legale. Le limitazioni ai viaggi imposte dal Covid rendono ora tale soluzione ben più difficile.

https://www.repubblica.it/esteri/2021/01/30/news/polonia_migliaia_manifestanti_a_varsavia_contro_divieto_aborto-284903015/

Polonia: migliaia di manifestanti a Varsavia contro il divieto di aborto di Andrea Tarquini

Diverse migliaia di persone sono scese di nuovo nelle strade di Varsavia ieri sera per esprimere rabbia contro l'entrata in vigore di una controversa sentenza che di fatto vieta l'aborto. Riunioni simili si sono svolte anche in altre città della Polonia, per la terza notte consecutiva dalla pubblicazione mercoledi' della sentenza della Corte costituzionale nella Gazzetta ufficiale. In linea con i programmi della coalizione di destra ultra-cattolica al governo, questa sentenza vieta l'interruzione volontaria della gravidanza in caso di anomalie fetali. D'ora in poi, qualsiasi aborto e' vietato in Polonia, tranne nei casi di stupro o incesto o quando la vita della madre e' in pericolo.

"Il mio corpo, la mia scelta", "Penso, sento, decido", "La rivoluzione, ha un utero", "Hai sangue sulle mani", proclamavano i cartelli tenuti dai manifestanti a Varsavia dove diverse migliaia di persone hanno risposto all'appello per lo sciopero delle donne, il principale movimento dietro le proteste. Molti manifestanti indossavano maschere adornate con un fulmine rosso, simbolo degli attivisti abortisti. Al suono di tamburi e di qualche petardo fumogeno sono risuonate richieste di "aborto su richiesta" e avvertimenti al governo che sara' "abolito dalle donne". Alcuni indossavano sciarpe verdi intorno al collo, simbolo degli attivisti per i diritti dell'aborto in Argentina, che il mese scorso sono riusciti a ottenere la legalizzazione dell'aborto nel loro Paese. A Varsavia la manifestazione si e' conclusa, senza incidenti di rilievo, davanti alla casa di Jaroslaw Kaczynski, leader del partito Legge e giustizia (PiS) al potere, protetta da un imponente dispositivo della polizia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/29/polonia-le-voci-delle-donne-in-piazza-contro-la-legge-che-vieta-laborto-cosi-la-loro-lotta-e-diventata-simbolo-di-liberta/6081370/

Polonia, le voci delle donne in piazza contro la legge che vieta l’aborto: così la loro lotta è diventata simbolo di libertà di Eleonora Cirant 

Oggi a Varsavia la presenza di patologie fetali anche gravi e incompatibili con la vita non è un motivo valido per interrompere una gravidanza. Marta Lempart, ideatrice del movimento Women’s Strike, spiega al fatto.it che la stampa allineata con il governo lavora di continuo per gettare discredito sulle militanti più in vista. Ma la protesta continua e oggi 29 gennaio il Paese si prepara alla mobilitazione nazionale

Polonia, la sentenza che vieta quasi totalmente l’aborto “verrà pubblicata in Gazzetta ufficiale”. Attesa una nuova ondata di proteste

Aborto, la Polonia lo vieta anche in caso di malattie e malformazione del feto. Federazione donne: “È un’infamia dello Stato”

In Polonia le proteste di piazza non si sono mai fermate da quando, il 22 ottobre scorso, il Tribunale costituzionale ha emesso una sentenza che riduce ulteriormente l’accesso all’aborto legale nel paese che, insieme a Malta, ha la legge sull’aborto più restrittiva d’Europa. La sentenza è entrata in vigore il 27 gennaio e la sera stessa la popolazione si è riversata nelle strade di 51 città polacche. Una nuova mobilitazione nazionale è stata lanciata per venerdì 29 gennaio, a 100 giorni dall’inizio delle proteste. La formulazione della sentenza rifiuta il benessere della donna come motivo valido per l’interruzione della gravidanza anche in caso di patologie fetali gravi e incompatibili con la vita e apre la strada a potenziali ulteriori divieti di aborto in caso di stupro e incesto. I medici che forniscono assistenza alle donne rischiano 3 anni di prigione. “L’annuncio è il risultato del deliberato smantellamento dello stato di diritto in Polonia”, si legge in una nota stampa della IPPF, Federazione internazionale per la pianificazione familiare. “Il presidente e tre dei giudici del Tribunale costituzionale sono stati nominati illegalmente e politicamente per dirigere le decisioni di questo organo cruciale. La Polonia si trova in un limbo giuridico. L’annuncio non può essere considerato un atto legale”. E solleva il tema delle responsabilità dell’Unione europea: “Il popolo polacco ha bisogno che l’Ue aiuti a sostenere lo stato di diritto e la democrazia nel suo paese”.

LA REPRESSIONE DELLA POLIZIA – “La brutalità della polizia è stata continua durante le proteste della Women’s Strike, con arresti e detenzioni: tra il 22 ottobre e il 22 dicembre abbiamo contato 115 persone detenute, di cui 69 trattenute durante la notte nelle stazioni di polizia e successivamente incriminate, 39 sono state lasciate andare il giorno del loro arresto, ma accusate in anticipo, e 7 rilasciate senza alcuna accusa”, racconta a ilfattoquotidiano.it Eliza Rutynowska, che fa parte del gruppo di avvocate/i pro-bono che supporta la Women’s Strike. A denunciare la violenza della polizia contro le manifestazioni pacifiche sono anche organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani come Amnesty international, IPPF e Civicus.

Marta Lempart, ideatrice della Women’s Strike nel 2016 e tra le più impegnate del movimento dichiara a ilfattoquotidiano.it che “sono circa duecento le denunce alla settimana da parte della polizia. Ma, quando vanno di fronte alla corte, le persone vengono scagionate. Il governo sta cercando di cambiare la legge, per far sì che le multe siano somministrate più velocemente dalla polizia, senza passare dal tribunale. Significa che siamo forti, che il governo è sulla difensiva e noi all’attacco. Penso che possiamo gestire le cose grazie al fatto che c’è molta gente arrabbiata”, dice. La stampa allineata con il governo lavora di continuo per gettare discredito sulle militanti più in vista. “Mi vorrebbero morta”, commenta Lempart. Attualmente il portale di Stato TPVInfo ha preso di mira Klementyna Suchanow, rilanciando le accuse di violenza sessuale che una presunta attivista LGBT le avrebbe rivolto. Nonostante la macchina del fango, oggi il 75% delle persone in Polonia conosce la Women’s Strike, soprattutto grazie alla stampa indipendente, spiega Lempart.

IN POLONIA LA LOTTA PER L’ABORTO È DIVENTATA IL SIMBOLO DELLA LIBERTÀ – Anche prima che la sentenza entrasse in vigore, l’accesso all’aborto legale si era già ulteriormente ristretto. “Ci sono stati casi di intimidazione su donne e attiviste/i, chiamate a testimoniare alla polizia. Di solito non vengono punite, ma è comunque stressante per le interessate e aggiunge stigmatizzazione intorno all’aborto. L’assistenza all’aborto è un atto criminale secondo la legge polacca”, dichiara Urszula Grycuk, di Federa (Federation for Women and Family Planning). “Subito dopo la sentenza gli ospedali avevano smesso di praticare anche gli aborti consentiti dalla legge, cioè quelli per malformazioni fetali gravi, ma adesso hanno ripreso. Considerando che, stando al sito di Federa, “nel 2018 solo il 10% degli ospedali ha fornito l’aborto, anche quello previsto legalmente. Intere regioni sono sprovviste di un ospedale che offra il servizio, l’obiezione di coscienza è abusata e spesso utilizzata illegalmente dall’intera istituzione”.

Si calcola che oltre 120mila donne cerchino di andare all’estero ogni anno per aggirare le restrizioni. Su internet le attiviste e le organizzazioni pro-choice hanno realizzato servizi informativi e di supporto, inclusa la linea telefonica +48 22 29 22 597, e inviano il “kit” per l’aborto domiciliare con misoprostolo e mifepristone alle donne che vivono in paesi dove l’aborto non è legalizzato.

Il regime socialista aveva legalizzato contraccezione e aborto. Dopo il suo crollo l’aborto era tornato illegale ma accessibile per chi aveva denaro sufficiente per pagare il servizio privato. Il governo di Jaroslaw Kaczynski ha cambiato le carte in tavola. “Nel 2016 il governo ha reso di nuovo obbligatoria la prescrizione per la contraccezione di emergenza, contro le raccomandazioni dell’Agenzia europea del farmaco. Nello stesso anno la proposta di legge delle organizzazioni ultracattoliche che avrebbe mandato le donne in prigione ha scatenato la protesta, con grandi manifestazioni promosse dalla Women’s strike e appoggiate dall’opinione pubblica. Persino la Chiesa polacca si è dissociata. Nel 2018 le stesse fondazioni cattoliche hanno fatto una nuova proposta di legge popolare per eliminare l’eccezione basata sulla malformazione, che riguarda il 98% degli aborti legali, proprio l’eccezione che è stata eliminata”, riepiloga Irene Donadio, di IPPF European Network. La sentenza entrata in vigore ieri dichiara incostituzionale la disposizione della legge anti-aborto del 1993, che consentiva l’aborto in caso di danno grave e irreversibile del feto o di una malattia incurabile che ne minaccia la vita.

“Le donne e la popolazione polacca, favorevole al diritto all’aborto, si opponevano alle politiche restrittive attraverso una resistenza individuale piuttosto che attraverso uno sforzo collettivo pubblico”, spiega Joanna Mishtal, antropologa della University of Central Florida. “La situazione è cambiata da quando i tentativi di limitare l’aborto si stanno intensificando. Il partito Legge e Giustizia, che sostiene l’agenda della Chiesa cattolica, è la ragione principale del relativo successo di questi tentativi. Ma questa volta ci sono proteste di massa su una scala più grande di quanto si sia mai visto prima”.

COME FUNZIONA LA WOMEN’S STRIKE OGÓLNOPOLSKI STRAJK KOBIET – L’opposizione popolare al PiS è stata innescata dalla Women’s strike / Ogólnopolski Strajk Kobiet, che da 2016, anno di inizio della protesta, è quasi quadruplicata. La Women’s strike è un’organizzazione reticolare e fluida, fornisce supporto nella comunicazione, materiali grafici di qualità, parole comuni per gli eventi, call for action, aiuto legale e psicologico, aiuto nella raccolta fondi. Lo spiega a ilfattoquotidiano.it Marta Lempart, tra le più impegnate del movimento: “Nel primo National Women’s Strike erano circa 200 le città coinvolte, oggi sono circa 600. Noi facciamo da coordinamento e supporto, ma sono le persone ad organizzarsi localmente, perché solo chi vive in un posto conosce i modi migliori per protestare lì. Facciamo riunioni su zoom in cui sono coinvolte fino a 450 persone in cui comunichiamo quello che succede e facciamo delle proposte, ma sappiamo che le persone faranno solo ciò che a loro piacerà di fare”.

E il rapporto con i partiti di opposizione? “Collaboriamo fin dall’inizio con chiunque voglia partecipare alla lotta, anche i politici. La cooperazione è a livello locale, non ci sono accordi ufficiali. Non ci interessano i programmi ma le azioni. L’arrabbiatura che abbiamo sollevato nelle persone sta funzionando e il governo ha paura, questo varrà per qualsiasi governo”, prosegue Lempart. “Stiamo lavorando ad una legge di iniziativa popolare. I parlamentari di Lewica, Federation for Women and Family Planning, Women Strike, Abortion Dream Team e altre organizzazioni hanno creato il Comitato per la Civic Legislative Initiative “Legal Abortion – No Compromise“. Chiediamo le stesse cose previste dalla organizzazione mondiale della sanità. La pandemia ci impedisce di raccogliere le firme perciò non sappiamo quando potremo procedere con questa proposta di legge”.

’agenda della Women’s Strike e delle migliaia di persone che ne fanno parte non comprende solo l’aborto, spiega Marta Lempart, ma anche “diritti riproduttivi in generale, violenza domestica, situazione economica e lavoro domestico non retribuito, Stato laico, libertà dei media ed elezioni libere, libertà del sistema giudiziario, diritti per le persone LGBT, diritti delle persone con disabilità e diritto ad avere un reddito dignitoso, anche l’ambiente e il cambiamento climatico. Ma qui, nella vecchia cattolica Polonia, la lotta per aborto è diventata il simbolo della libertà“.

Hanno collaborato Aneta e Kamila Derszynska


giovedì 28 gennaio 2021

Il settore F. La storia dimenticata delle agenti segrete che non tornarono (e della donna che non smise mai di cercarle) by Jolanda Fiorini


Il settore F era una sezione speciale incaricata delle operazioni segrete da svolgere in Francia. I suoi agenti avevano il compito di collaborare con la Resistenza e i gruppi partigiani, nell’organizzare e addestrare volontari decisi a disturbare ovunque gli invasori nazisti, nel distruggere strade, ferrovie e linee di telecomunicazione; nel distribuire armi, munizioni ed esplosivi che aerei britannici e americani paracadutavano su campi segretamente approntati dai militanti della Resistenza. Siamo  nel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, e la Gran Bretagna conduce la sua battaglia segreta dietro le linee nemiche. “Ed ora incendiate l’Europa” – dirà Winston Churchill – il 19 luglio 1940, nel dare il via alla creazione “Special Operations Executive” o SOE (Esecutivo Operazioni Speciali). Il settore F era la sezione della SOE formata solo da donne. Al centro di questa battaglia vi è Vera Atkins: abile, meticolosa e motivata.

Atkins è la spia perfetta: recluta e addestra agenti britannici nella Francia occupata, e ha anche la responsabilità di 37 donne agenti  che compongono la sua sezione speciale F. Queste spie, partendo da Londra, dal Cairo, da Algeri, e in un secondo tempo anche da Brindisi e Bari, presero terra in diversi paesi dell’Europa lanciandosi con il paracadute, scendendo da piccoli aerei o sbarcando da sommergibili e motoscafi.

Pensate che prima di diventare un’agente dell’intelligence inglese Vera faceva parte del team britannico che evacuò i decodificatori Enigma dalla Polonia attraverso il confine nella sua nativa Romania, portandoli in Francia e Gran Bretagna e che insegnò agli alleati occidentali la crittoanalisi dell’Enigma. Vera Atkins mandò in azione ben 400 agenti segreti, addestrandoli per mesi e insegnando loro per filo e per segno ogni dettaglio delle loro nuove identità.

Quando la guerra finì nel 1945, oltre 100 agenti non erano tornati. Vera non si dava pace. Decise di scoprire di persona cosa fosse loro successo, che fine avessero fatto. Entrò nella Commissione britannica per i crimini di guerra. Era conosciuta per le sue eccelse abilità nell’interrogatorio: annotò in un suo rapporto di aver fatto confessare i crimini commessi dal comandante di Auschwitz. La Atkins investigò molto e in modo approfondito per cercare le sue spie: nomi incisi sulle pareti di prigioni, schizzi d’un disegnatore di bozze di “Vogue” che sopravvisse a numerosi campi di concentramento, lettere intercettate… tutto questo fu registrato ed usato per le sue indagini.

Interrogò gli ex-carcerieri dei lager, i loro capi, e i capi dei capi, come Josef Kieffer, il comandante del controspionaggio delle SS a Parigi, e Rudolf Hoess il comandante di Auschwitz. Hitler aveva ordinato che gli agenti del SOE, una volta torturati e uccisi, dovevano essere eliminati in modo tale che di loro non restasse nessuna traccia. Vera Atkins riuscì lentamente e senza mai arrendersi a ricostruire la fine di molte agenti del SOE e a far sapere ai familiari dove e come erano state fatte sparire. Per fornire ai loro cari e alla Storia la testimonianza di tante donne che avevano dato la vita perché tutti potessimo vivere liberi. Per non dimenticare.

Delle trentasette donne che facevano parte del Settore F della SOE solo quindici sopravvissero. Dodici morirono nei campi di concentramento.

Gli sforzi di Atkins nel cercare le sue “ragazze” scomparse significava non solo dare a ognuna un luogo di morte, descriverne il proprio coraggio prima e dopo la cattura. Quattro di esse furono internate nel lager di Natzweiler, in Alsazia, e furono bruciate vive dopo essere state paralizzate con un’iniezione. Immobilizzate, ma coscienti, si videro spinte dentro il forno crematorio. Cecily Lefort fu giustiziata nella camera a gas. Violette Szabo,  che aveva solo 22 anni quando fu paracadutata in Francia, venne catturata dopo aver combattuto contro 40 soldati tedeschi con soli 90 proiettili. Denise Bloch e Liliane Rolfe, internate, torturate, violentate e infine impiccate nel lager di Ravensbrück.

Ravensbrück non è Auschwitz, né Dachau o Bergen-Belsen. Non ci sono immagini dell’Armata Rossa o video dell’esercito britannico a consegnare alla storia i fotogrammi dell’orrore. Si tratta di una vicenda non dimenticata, ma quantomeno poco conosciuta, non fosse per Sara Helm, autrice di una lunga ricerca, fatta di lavoro d’archivio e interviste con le sopravvissute. Vi entrarono più di 130.000 donne, da venti Paesi diversi. Le prime 867 arrivarono il 15 maggio del 1939. Solo una parte di loro – secondo alcuni dati, circa il venti per cento – era ebrea. Le altre erano colpevoli di comportamenti “devianti”: lesbiche, prostitute, socialiste, comuniste, abortiste, rom, testimoni di Geova. Donne considerate inutili per la sopravvivenza e la gloria del Reich. Alcune prigioniere portavano un cognome celebre: Geneviève de Gaulle, nipote del generale francese, Olga Benario Prestes, ebrea, comunista, icona antifascista morta nelle camere a gas. Ma la maggioranza erano donne apparentemente anonime, come Elsa Krug, una prostituta di Düsseldorf, che, in quanto kapò, aveva accesso ai magazzini alimentari, dai quali sottraeva cibo per le prigioniere. Disobbedì agli ordini, Elsa, rifiutandosi di picchiare le altre donne, e il suo destino prese la forma di una camera a gas. La Helm racconta le storie delle coraggiose polacche, “i conigli”, che furono mutilate dalle sperimentazioni mediche del Reich. Donne nelle cui gambe venivano iniettate dei batteri, per testare l’efficacia di determinati farmaci.

Tra le agenti della Sezione F che ce la fecero c’era Krystyna Skarbek, che nel 1941 attraversò la Polonia occupata e arrivò fino a Budapest, nascondendo un microfilm con i piani tedeschi per l’invasione della Russia, e giunse in Bulgaria nascosta nel bagagliaio dell’ambasciatore britannico. Poi si diresse verso sud, su un’auto sportiva, attraversò il Medio Oriente raccogliendo preziose informazioni sulla Siria (occupata dalla Francia collaborazionista) e sulla Palestina, giungendo infine al Cairo, dove fece rapporto all’ufficio del SOE. Nel 1944 si fece paracadutare in Francia, dietro le linee tedesche, e collaborò con le formazioni partigiane che per 40 giorni, sull’altopiano del Vercors, bloccarono le truppe tedesche che avrebbero dovuto raggiungere la Normandia

Ravensbrück è l’unico campo di concentramento e poi di sterminio che l’universo tragico dell’Olocausto destinò alle donne, secondo la volontà di Himmler che ne volle fare un “Campo modello”. In sei anni vennero rinchiuse casalinghe, dottoresse, artiste, politiche, prostitute, disabili, resistenti, zingare ed ebree, colpevoli solo di essere considerate “inferiori” nella gerarchia folle del razzismo nazista. A Ravensbrück ogni minuto si consumò un dramma, fatto di sevizie, malattie, lavori forzati, esperimenti medici ed esecuzioni sommarie, finché, verso la fine della guerra, il Lager diventò anche campo di sterminio per cancellare, in fretta, le prove di quanto vi era accaduto. E così, oltre 90.000 donne, spesso con i loro bambini al collo, vennero fatte “sparire” nel fumo del camino, nel volgere di pochi mesi.

Un altro bellissimo libro, edito da Luciana Tufani, è Lupini violetti dietro il filo spinato – Artiste e poete a Ravensbrück, di Katia Ricci.Un racconto diverso da quello che comunemente accompagna la narrazione della deportazione e dello sterminio che, se pur accomuna nella sofferenza donne e uomini, cancella la differenza femminile che l’autrice, invece, indaga e narra attraverso le testimonianze delle sopravvissute, delle poesie e dei disegni che hanno prodotto. Tra il 1939 e il 1945 scrissero ben 1200 poesie di cui alcune riportate nel libro. Scrivevano inventandosi vari stratagemmi e aiutandosi l’una con l’altra. Scrivevano per piacere, per lasciare un ricordo di sé, per testimoniare un avvenimento; scrivevano “perché scrivere era salvarsi”, come il raccontarsi. Si raccontavano e si scambiavano le ricette di cucina e quasi le recitavano ad alta voce a turno, traendone un grande conforto. La sera, distese nei loro giacigli, o durante il lavoro nelle cucine a pelare patate, si raccontavano reciprocamente storie, trame di libri o opere teatrali, come appare nei disegni realizzati dalle artiste del campo. Frammenti di vita quotidiana, veri documenti e testimonianze di quanto succedeva nel campo, sono quei disegni realizzati con carte e mozziconi di matite sottratte dalle deportate che lavoravano negli uffici.

Una guerra combattuta dentro e fuori dai campi. Una guerra tutta femminile, ma la guerra di tutti.

Vogliamo ricordarle oggi, averne Memoria, delle paracadutiste catturate e internate e delle agenti segrete che ce la fecero continuando a combattere. Delle donne che sopravvissero come di quelle migliaia e migliaia che morirono. Di chi scrisse poesie, come di chi non scrisse nulla. Di chi compì gesti altruistici sì, ma della più parte ancora che non lo fece. Di tutte quelle donne, e uomini anche, che non fecero nulla di straordinario, ma di cui furono sradicate le straordinarie esistenze. E ricordare chi è sopravvissuto, non sapendo neppure come,  chiedendosi sempre perché, portando con sé quell’ingombrante memoria per la quale “era una colpa la deportazione ma era una colpa anche il ritorno”. Noi non potremo mai e poi mai, neppure sforzandoci comprendere e compatire. Solo rispettare. Averne Memoria. Per non essere mai più indifferenti come è accaduto quando abbiamo lasciato che questo orrore prendesse forma. La nostra forma.

“Indifferenza. Tutto comincia da quella parola. Gli orrori di ieri, di oggi e di domani fioriscono all’ombra di quella parola.” Liliana Segre

In-dif-fe-ren-za. “La chiave per comprendere le ragioni del male è racchiusa in quelle cinque sillabe, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. È come assistere a un naufragio da una distanza di sicurezza. Non importa quanto grande sia la nave o quante persone abbia a bordo: il mare la inghiotte e, un attimo dopo, tutto torna uguale a prima. Non un’onda in superficie, non un’increspatura. Solo un’immobile distesa d’acqua salata.” Mai parole furono più vere.

Fonti

If this is a Woman – Sarah Helm

Noreen Riols – The Secret Ministry of Ag. & Fish: My Life in Churchill’s School for Spies

https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/storie-di-spie/noreen-riols-una-donna-nella-scuola-per-spie-di-churchill.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Special_Operations_Executive

http://www.sentieristerrati.org/2021/01/26/il-settore-f-la-storia-dimenticata-delle-agenti-segrete-che-non-tornarono-e-della-donna-che-non-smise-mai-di-cercarle/?fbclid=IwAR1TYwL-VxxuOpXKzkiSWTYG1uI7go34-W9dgiJxPjRWbkZY7Z6MCu_BYrg

mercoledì 27 gennaio 2021

L’Olocausto delle donne di Stefania Delendati *

“NON CONFORMI” o “INUTILI”  (il 90 % non ebree)

Già autrice qualche tempo fa, per il portale «Superando.it», dell’esauriente approfondimento intitolato “Quel primo Olocausto” e dedicato allo sterminio delle persone con disabilità durante il regime nazista, Stefania Delendati torna sul tema a pochi giorni dal 27 gennaio, data in cui, com’è noto, si celebra ogni anno il Giorno della Memoria dedicato a tutte le vittime dell’Olocausto. E lo fa, questa volta, trattando un argomento ancora poco dibattuto, che rischia di passare quasi inosservato anche nel Giorno della Memoria, vale a dire l’Olocausto vissuto dalla donne, tante delle quali donne con disabilità fisiche e mentali, internate nel lager di Ravensbrück, poco a nord di Berlino.

Donne internate nel lager di Ravensbrück, in quella che oggi è considerata la “capitale” delle atrocità commesse dal nazismo nei confronti delle donne, tante delle quali con disabilità.

C’è un fiore, una rosa, che ricorre in disegni, bigliettini, poesie e ricami. Li hanno abbozzati segretamente le donne internate a Ravensbrück, quei fiori, un modo per continuare a riconoscersi come persone, unite per resistere all’orrore nazista.

A Ravensbrück, letteralmente “ponte dei corvi”, villaggio prussiano a ottanta chilometri a nord di Berlino, le SS concepirono un luogo destinato alla “detenzione preventiva femminile”, in realtà l’unico campo di concentramento progettato dal Reich per eliminare le donne “non conformi” che avrebbero potuto contaminare la “razza ariana”, oppure semplicemente giudicate “inutili”.

Dal maggio del 1939, quando arrivarono le prime prigioniere, all’ingresso dell’Armata Rossa che liberò il campo, il 30 aprile 1945, da Ravensbrück passarono 132.000 donne provenienti da venti nazioni, soprattutto tedesche, italiane, polacche, francesi, austriache 

Dai documenti sopravvissuti alla distruzione risulta che ve ne morirono circa 92.000, vittime di sevizie e “sperimentazioni” pseudo-scientifiche, oppure debilitate dagli stenti, malate, pertanto uccise nelle camere a gas con lo Zyklon B, lo stesso agente tossico a base di acido cianidrico utilizzato negli altri campi di sterminio, e infine bruciate nei forni crematori.

Le vicende accadute a Ravensbrück sono tra quelle che ricorrono meno nel Giorno della Memoria. Sino alla fine della guerra fredda, quindi all’inizio degli Anni Novanta, pochi sapevano della sua esistenza. Le sopravvissute si vergognavano di raccontare, come se fosse stata colpa loro, e se lo facevano venivano additate come “bugiarde”, o peggio “complici”, accusate di essersi concesse volontariamente al nemico per salvarsi.

Tra le prime a sentire il dovere di tramandarne la testimonianza, ad avere il coraggio di farlo in un clima ostile e in anticipo sui tempi, fu un’italiana, Lidia Beccaria Rolfi, che arrivò a Ravensbrück il 30 giugno 1944, a bordo di un carro bestiame. Era partita quattro giorni prima dalle Carceri Nuove di Torino nelle quali aveva trascorso due mesi di angoscia, fra torture e minacce di morte, insieme ad altre donne in una cella sovraffollata.

Lidia era una maestra di Mondovì, staffetta partigiana dall’età di diciotto anni con il nome di “maestrina Rossana”; quando non insegnava fabbricava bombe a mano in casa e le nascondeva sotto il letto. Quando giunse in Germania, le parve perfino una liberazione, niente sarebbe stato peggio di quello che aveva passato, pensava, mentre incolonnata a piedi con le compagne marciava per i quattro chilometri che separavano la stazione ferroviaria dal campo.

Ravensbrück si presentò con un alto muro sormontato da torrette di guardia e filo spinato elettrificato. Quelle donne che varcarono il portone furono le prime italiane non ebree ad essere internate.

L’impatto è ben descritto da un’altra superstite, Mirella Stanzione: «Il lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano. Sulla piazza del lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche, e molte sono rapate. Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli, tutte però hanno ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica».

Mirella Stanzione è una delle pochissime donne italiane internate a Ravensbrück ancora viventi.

Per le deportate politiche come Lidia e Mirella il triangolo era rosso. La sorte peggiore toccava alle lesbiche, loro non “meritavano” neppure il triangolo rosa riservato agli uomini omosessuali negli altri campi. Erano insignificanti in quanto donne con l’aggravante di un comportamento “deviato”, pertanto passibili di ogni brutalità.

Lo scopo principale era annientare la dignità e l’identità delle prigioniere, tutto concorreva a raggiungere l’obiettivo. A partire dalla fame, il bisogno primario di cibo e l’istinto di sopravvivenza creavano conflitti fra le detenute. Il resto lo facevano il freddo, la sporcizia, il lavoro massacrante, le botte e le umiliazioni.

Non tutte venivano rapate all’ingresso, un altro modo per spaventarle era lasciarle nell’incertezza di quello che sarebbe accaduto durante la prima visita medica. Nessuna aveva le mestruazioni, Mirella è convinta che mettessero qualche farmaco nei magri pasti, perché il ciclo le tornò quando venne liberata.

Con i primi capelli bianchi e il corpo coperto da piaghe provocate dall’avitaminosi anche Lidia dimostrava molto più dei suoi 19 anni. Poi c’era la paura, la paura del dopo, soprattutto, il terrore di fronte all’ignoto che le aspettava. Le accomunava tutte, Lidia e Mirella, come l’amica di quest’ultima Bianca Paganini Mori, Livia Borsi e le sorelle Lina e Nella Baroncini, Maria Massariello Arata e Teresa Noce, solo per citarne alcune.L’Olocausto delle donne 

Erano giovani ragazze, all’epoca dei fatti, che divenute donne hanno dedicato la vita alla testimonianza. Alcune non sono più tra noi: Lidia è scomparsa nel 1996, Bianca nel 2013 e Nella nel 2015, Teresa nel 1980, Maria, cui è dedicato un parco a Forte dei Marmi, all’inizio degli Anni Settanta. I loro ricordi, tramandati oralmente e per iscritto, sono un’opera corale che nella sua drammaticità esorta alla speranza.

Ravensbrück era sorto su una proprietà personale di Heinrich Himmler, il capo delle SS, una duna sabbiosa e desolata, circondata da conifere e betulle. Vennero costruite trentadue baracche per le deportate, uffici amministrativi, le case per le guardie e un complesso industriale dove le donne cucivano e tessevano. Nel 1941 venne aggiunto un campo di concentramento minore, per gli uomini, oppositori politici tedeschi che dovevano essere “rieducati”, e nel ’42 fu la volta di un campo di “custodia preventiva minorile”. Poco fuori dal perimetro si trovavano le venti officine della Siemens di Berlino, dove le prigioniere venivano sfruttate come manodopera a bassissimo costo per equilibrare dei manometri. I turni erano di dodici ore, di giorno e di notte, il lavoro non era di per sé particolarmente gravoso e c’era il vantaggio di poter stare sedute al coperto, ma in quelle condizioni fisiche poteva diventare insopportabile. Era un compito delicato, se si sbagliava bisognava trovare il modo di buttare il manometro senza farsi vedere, altrimenti le aspettavano il frustino, il bastone e la cella di punizione. Una volta tornate nella baracca non potevano riposare, c’era l’appello, due-tre ore all’aperto nel freddo del Nord Europa, vestite leggere, e si dovevano svolgere incombenze pesanti, tipo trasportare bidoni e caricare il carbone.

Il primo contingente femminile arrivato a Ravensbrück era costituito da 867 donne austriache e tedesche, in gran parte comuniste, socialdemocratiche, testimoni di Geova e “ariane” accusate di avere avuto rapporti con uomini di “razza” inferiore. Poco dopo vennero internate 400 donne di etnia Rom e Sinti con i loro bambini.

Le storie dei bambini sono un capitolo ancor più doloroso. Nei sei anni in cui il campo fu in funzione, al suo interno ne nacquero 870, ma pochissimi resistettero al clima rigido e alla denutrizione. Molte donne subirono sterilizzazioni forzate, la maggior parte di quelle che entrarono incinte venne fatta abortire, ad alcune venne concesso di portare a termine la gravidanza e furono costrette a vedere il proprio bambino calpestato sotto i piedi delle SS.

Tra gli aguzzini si ricorda in particolare Hermine Brausteiner, una donna. Il personale di sorveglianza era formato da speciali reparti femminili, Ravensbrück, infatti, era anche un centro di preparazione per le ausiliarie SS. Tra il 1942 e il 1945 vennero addestrate circa 3.500 guardie, attirate dagli appelli sui giornali patriottici che promettevano uno stipendio buono. Il campo, dunque, era una perfetta macchina della morte, organizzata in ogni settore.

Le prigioniere confezionavano le divise della Wehrmacht, l’esercito tedesco, venivano usate come cavie per “esperimenti”, principalmente giovani polacche che venivano chiamate in maniera dispregiativa lapines (“coniglie”). Anche tra i medici impegnati in questa “attività” c’era una donna, Herta Oberheuser. Alcune venivano mandate come prostitute nei bordelli interni di altri campi di concentramento, alla mercé degli ufficiali e offerte come “premio” ai collaborazionisti. Uno dei più tristemente famosi era attivo ad Auschwitz.

In alcune baracche, ribattezzate Sonderbauten (edifici speciali), giovanissime sotto i 25 anni, per lo più tedesche, polacche e ucraine internate come “asociali” (escluse per principio le ragazze ebree), dovevano offrire prestazioni sessuali a una particolare categoria di prigionieri, quelli più produttivi, che svolgevano compiti di sorveglianza all’interno del lager. Erano stabiliti con rigore turni, tariffe e orari; ogni rapporto veniva sorvegliato attraverso degli spioncini. Pochissime le gravidanze, “risolte” con l’aborto, dal momento che le donne spesso venivano sterilizzate, oppure erano incapaci di avere figli per le condizioni fisiche. Una volta sfinite, se avevano ancora una scintilla di vita, diventavano oggetto di esperimenti. Tra quelle scampate, molte non ebbero nemmeno in questo caso il coraggio di raccontare.

Dal 1941 Friedrich Mennecke, il medico di Ravensbrück, impartì l’ordine dei “trasporti neri”. Era la cosiddetta Aktion 14F13, operazione segreta ordinata dal Reich per selezionare e assassinare i deportati divenuti inabili, inviandoli in centri attrezzati per l’eliminazione.

Il campo continuò ad essere ampliato fino al 1945. Aumentarono le baracche e divennero una quarantina i campi satellitari nei quali i prigionieri, donne e uomini, furono costretti a lavorare come schiavi. Rimase un luogo relativamente piccolo rispetto ad altri campi, ma non vi mancava nulla. Himmler lo visitò alla fine del 1944 e stabilì che si dovessero uccidere ogni giorno cinquanta-sessanta donne. Arrivarono da Auschwitz i componenti per costruire una camera a gas provvisoria, vicino al forno crematorio; in quella camera trovarono la morte per asfissia 6.000 donne, l’ultimo sterminio di massa del regime nazista, ignorato dalla storia per un lungo periodo.

Intanto proseguiva la lotta delle deportate per non soccombere. Le italiane erano viste con sospetto dalle altre prigioniere, considerate fasciste e alleate con la Germania, senza pensare che tutte, indipendentemente dalla nazionalità, erano lì dentro per gli stessi motivi.

Nei confronti di Lidia l’atteggiamento cambiò il giorno in cui si unì al canto di una ragazza francese che intonava Bandiera rossa. Quel gesto istintivo attirò le simpatie delle compagne d’oltralpe, che riuscirono a farla entrare nella fabbrica della Siemens dove si stava leggermente meglio.

Mirella ricorda una russa che la chiamava con disprezzo “Mussolini”, mentre con le pale spianavano una collinetta. Anche nei suoi confronti il comportamento mutò dopo mesi di permanenza: fu una prostituta francese ad evitare la separazione di Mirella dalla madre con un sotterfugio. Cominciò così una solidarietà trasversale che non badava alla provenienza, alla religione, all’ideologia politica, un movimento di resistenza per aiutare le donne più esposte e i pochi bambini del campo. Le deportate prese di mira dalle SS potevano contare su una rete clandestina che cercava di sottrarle alla violenza e sabotava i lavori forzati. La rosa di cui parlavamo all’inizio si può considerare il simbolo di questo movimento, un fiore nel quale le prigioniere si riconoscevano ed esprimevano amicizia e resistenza.

Lidia comprese che per non naufragare con la mente aveva bisogno di esercitare i ricordi; mettere nero su bianco quanto stava vivendo le avrebbe permesso di elaborarlo e raccontarlo in futuro. Nella fabbrica rubò della carta e alcune compagne recuperarono per lei un album da disegno e un mozzicone di matita. Se l’avessero scoperta avrebbe rischiato severe punizioni, ma iniziò ugualmente ad annotare ogni cosa che vedeva in una sorta di diario.

Nell’aria si sentiva sempre l’odore acre del forno crematorio e con l’avvicinarsi della fine della guerra le condizioni peggiorarono. Sparì il pezzo di pane che doveva durare tutto il giorno e nella zuppa di rape non si trovavano più pezzetti o bucce di patata. Il kaffee holen, una specie di caffè del mattino, diventò una brodaglia nera con filamenti che parevano erba. Mirella aveva ascessi sulla schiena, c’era chi li aveva sul viso, sulle gambe, sulle braccia; Lidia ormai pesava 32 chili ed era allo stremo delle forze.

Nel campo c’erano all’incirca 45.000 deportati, 1.200 gli italiani, di cui 391 uomini e 871 donne. Un accordo con la Croce Rossa svedese, voluto da Himmler il 23 aprile 1945, permise la liberazione di circa 7.000 deportate; tre giorni dopo venne ordinata l’evacuazione dei prigionieri restanti in grado di reggersi in piedi. Al freddo, sotto la pioggia battente e con pochissimo cibo, 20.000 internati, suddivisi in diverse colonne, si misero in marcia verso nord-ovest. I russi erano alle porte, bisognava fare presto; le SS non permettevano soste, si fermavano soltanto quando arrivava un aereo per mitragliare, allora ci si doveva sdraiare per terra. Chi cadeva veniva ucciso.

Quando la Seconda Armata Sovietica del fronte bielorusso entrò a Ravensbrück vi trovò 3.000 donne rimaste nelle baracche perché troppo deboli per seguire le compagne nella fuga forzata. Le superstiti in marcia vennero salvate poche ore dopo sempre dalle unità sovietiche in avanzata che le affidarono agli americani.

Le italiane si scontrarono da subito con l’insensibilità degli alleati, sospettate di aver concesso favori sessuali ai nazisti. Non venne riconosciuto loro neppure il diritto di ricevere i pacchi della Croce Rossa. Tornate in patria, sperimentarono un’accoglienza fredda e gli stessi pregiudizi.

Mirella – che nel novembre scorso è stata proposta per la cittadinanza onoraria dal Comune di Castelraimondo, in provincia di Macerata, insieme alla senatrice Liliana Segre – racconta: «Io sono stata zitta per cinquant’anni, nessuno, neanche i miei compagni di scuola, nessuno mi ha domandato “Ma che cosa ti è successo?”. Nessuno. Non solo – e questo mi aveva colpito, non perché io volessi raccontare, non ne avevo nessuna voglia – pensavo che ci fosse un certo interesse a capire, a sapere qualche cosa. Era così fresca la cosa… Tant’è vero che ancora qualcuno non lo sa che io sono stata in un campo di concentramento, perché siamo arrivati al punto di provare quasi un senso di vergogna a dire “sono stata in un lager tedesco”. Tutto questo naturalmente era accentuato dal fatto che ero donna e quindi mi sentivo dire: “Perché non sei rimasta a casa? Chi te l’ha fatto fare? Chissà cosa avrai fatto! Eh! Sia con i tedeschi che con i russi o gli americani…”. Allora di fronte a questo uno dice “Ma no, non vale neanche la pena che io sprechi le mie parole per queste persone…”. Mi dispiace mettere nel mucchio tutti gli italiani, ma devo dire che è stato così».

Lidia rientrò a casa nel giugno del 1945. Tentò ripetutamente di parlare della sua sofferenza, ma i partigiani amici di un tempo la trattarono con indifferenza, giudicandola poco più di una prostituta, e anche i familiari che l’accolsero con gioia erano diffidenti di fronte ai suoi ricordi. I mutamenti avvenuti all’interno della società e della politica non aiutavano. Si faceva strada la guerra fredda, il nemico era il comunismo e un silenzio ottuso calò sui crimini nazifascisti.

In Italia molti ruoli di potere erano rimasti in mano a persone con un passato fascista, anche nel personale scolastico di cui Lidia faceva parte. Le venne impedito di ricominciare ad insegnare, un provvedimento in linea con le direttive non scritte per cui bisognava emarginare i “testimoni scomodi”. Quando ricominciò a lavorare in sperduti paesini, era tenuta sotto controllo dalle autorità.

Nessuno ancora sapeva di Ravensbrück, ormai “nascosto” dietro la cortina di ferro. Se ne fece cenno soltanto in un libro pubblicato per la prima volta in Italia nel 1955, Il flagello della svastica. Breve storia dei delitti di guerra nazisti di Edward Russell (Pgreco, 2017).

Vivevano situazioni analoghe le donne degli altri Paesi. Alla giornalista britannica Sarah Helm, autrice del libro If This Is A Woman. Inside Ravensbruck: Hitler’s Concentration Camp for Women (Little Brown Book Group, 2015), le vittime francesi hanno detto che l’unica domanda che veniva loro rivolta era se fossero state stuprate (il volume è uscito in Italia nel 2017 per Newton Compton con il titolo Il cielo sopra l’inferno).

In Unione Sovietica tacevano per paura, Stalin, infatti, poteva accusare di tradimento i connazionali che erano stati catturati e spedirli in Siberia dopo un’indagine sommaria. Meglio chiudersi nel mutismo e parlare soltanto con quelli che avevano vissuto la medesima esperienza.

Nel dicembre 1958 Lidia entrò a far parte del Consiglio Nazionale dell’Associazione Ex-Deportati, unica donna ammessa, e nel corso di quel secondo congresso, a Torino, in una sala piccola con poche persone, i giovani presenti si mostrarono sinceramente desiderosi di conoscere le storie dei sopravvissuti. Era l’incoraggiamento di cui sentiva il bisogno. Rielaborò gli appunti scritti durante la prigionia e partendo da quelli diventò l’instancabile testimone di un’epoca sconvolgente, rimanendo tale fino alla morte, senza pause, malgrado fosse, come molte compagne, debilitata nel fisico e nella mente. Fu la rappresentante italiana del Comitato Internazionale di Ravensbrück, fece parte di un’Associazione per il sostegno alle persone affette da malattie mentali e scrisse tre libri, Le donne di Ravensbrück (Einaudi, 2003), in collaborazione con Anna Maria Bruzzone, pubblicato nel 1978, L’esile filo della memoria  (Einaudi, 1996) sul ritorno a casa e il difficile reinserimento e Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini (Giuntina, 1997), scritto a quattro mani con Bruno Maida e uscito postumo nel 1997. Lo stesso Maida le ha dedicato un affettuoso ritratto in Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi (UTET, 2008).

“Tragende” (“La portatrice”) di Will Lammert, scultura simbolo del Ravensbrück National Memorial.

Gli ex prigionieri di Ravensbrück e i membri di un’Associazione di perseguitati dal regime nazista, fin dal 1948 cercarono di preservare il campo dalla rovina, dopo che l’esercito sovietico lo occupò come caserma. Da allora, per un po’ di anni, si tennero cerimonie commemorative con la deposizione di fiori su un monumento provvisorio.

Il Ravensbrück National Memorial, uno dei tre memoriali nazionali della Repubblica Democratica Tedesca, venne inaugurato ufficialmente il 12 settembre 1959. Il progetto includeva il forno crematorio, la prigione e una sezione della cinta muraria alta quattro metri. È sotto il tratto ovest del muro perimetrale che sono stati traslati i resti delle detenute e le copiose ceneri rinvenute intorno al crematorio si trovano in un’unica grande fossa comune evidenziata da un roseto.

Simbolo del memoriale è la scultura in bronzo Tragende (“La portatrice”), opera di Will Lammert. Nel bunker, ovvero la vecchia prigione, ha sede un museo contenente centinaia di oggetti, disegni e documenti donati dalle ex deportate di tutta Europa. È lì che si trovano i fogli che Lidia rubò e scrisse di nascosto, sono stati portati dal figlio a Ravensbrück, scansionati e resi così facilmente visibili a quanti si recano nel luogo. Risalgono invece agli Anni Ottanta la Rassegna delle Nazioni, un centro con diciassette sale commemorative, a disposizione delle organizzazioni dei singoli Paesi per l’allestimento di mostre, e il Museo della Resistenza Antifascista, la principale esposizione permanente del memoriale.

Come Auschwitz e altri campi di sterminio sono il simbolo dei crimini contro gli ebrei, Ravensbrück è la “capitale” delle atrocità commesse nei confronti delle donne che, non dimentichiamolo, rappresentano più della metà delle vittime dell’Olocausto. Tra loro, molte erano affette da disabilità.

Non abbiamo dichiarazioni di donne con disabilità superstiti, talché è facile immaginare che nessuna sia sopravvissuta a Ravensbrück, considerando le condizioni svantaggiate di partenza sommate a quanto vissuto. “Diverse” per il resto dei loro giorni sono state anche le donne che hanno avuto salva la vita, reduci con la salute in molti casi compromessa, il peso di un’esperienza terribile da sopportare e la consapevolezza di non essere capite.

Ravensbrück è un luogo ancora poco conosciuto, purtroppo, ma lo stesso di grande importanza storica e umana. Per non dimenticare, adesso che le testimoni dirette sono rimaste poche, dobbiamo sentirci in dovere di raccogliere la loro eredità e tramandarla alle generazioni future.

Chiudiamo con le parole di Primo Levi, amico di Lidia Beccaria Rolfi: «Le deportate erano, nel migliore dei casi, estenuati animali da lavoro e, nel peggiore, effimeri “pezzi d’immondizia”. Ce lo confermano le pochissime a cui la forza, l’intelligenza e la fortuna hanno concesso di portare testimonianza».

https://www.facebook.com/giuseppe.nuccio.7773/posts/178366270700412




martedì 26 gennaio 2021

Nota stampa-dichiarazione della Presidente di Differenza Donna Ong, Elisa Ercoli

"Lanciamo un grido di allarme a tutte e tutti: Presidenza della Repubblica, Governo, Parlamento, giornalisti, Forze dell'Ordine, Magistratura, politica locale. Un’altra giovanissima donna è stata brutalmente uccisa. E anche questa volta non c’è nessuna  reazione, né da parte delle Istituzioni né da parte della società. La normalizzazione della violenza maschile ha già preso il sopravvento.

Le #donne le giovani donne, le bambine e i bambini continuano a vivere situazioni di maltrattamento e ad essere sottoposti ad un pericolo di vita altissimo. La pandemia sanitaria, la crisi economica, l’incertezza generale li sta esponendo sempre più a gravi violazioni dei loro #dirittiumani. La reazione collettiva e soprattutto istituzionale si è riassopita nella gestione della crisi politica nonché sanitaria. Abbiamo bisogno di interventi urgenti, immediati, certi!

Abbiamo bisogno subito di più posti per le donne e le bambine in uscita dalla violenza. Abbiamo bisogno di garantire loro percorsi alternativi alla violenza certi. percorribili sostenibili. Abbiamo bisogno di politiche sistemiche che aggrediscano a tutti i livelli questa emergenza nell’emergenza. Intorno a noi sentiamo di nuovo un silenzio assordante. Rompiamo questo silenzio con un grido che vuole muovere la vostra disattenzione colpevole.  Se la cultura patriarcale ha questo effetto su tutti voi, venite nei Centri Antiviolenza e nelle Case Rifugio che gestiamo, venite ad ascoltare la gravità di ciò che hanno subito. Noi non ci abitueremo mai. Serve una reazione adesso. Servono risposte concrete. Serve un Ministero con portafoglio guidato da una donna con saperi autorevoli su tutto ciò e capace di gestire con autorevolezza questo importante incarico pubblico. E' intollerabile continuare a non vedere." Elisa Ercoli Presidente Differenza Donna Ong

#femminicidio #Caccamo #violenzasulledonne #crisidigoverno #politica

https://www.blogger.com/blog/post/edit/7481927899308882462/8834635066741271901

giovedì 21 gennaio 2021

Violenza, servono dati e politiche adeguate Flavia Bustreo

Troppo spesso dimenticata dai governi o non affrontata adeguatamente, la violenza sulle donne rappresenta una delle più grandi violazioni di diritti umani nel mondo. Ma in Italia mancano ancora dati e politiche adeguate

Presente in tutti i paesi, indipendentemente dal livello di sviluppo socio-economico, la violenza di genere resta una delle più comuni e pervasive forme di violazione dei diritti umani.

Secondo le statistiche, nel mondo una donna su tre è stata vittima di una qualche forma di violenza nella sua vita. Tuttavia, nonostante questa diffusione persistente in tutti i paesi e in tutti i contesti - da quello lavorativo a quello domestico - i governi e le istituzioni non sembrano aver compreso appieno la portata del fenomeno. Relegato spesso ad argomento marginale, delegato ai ministeri per le pari opportunità o a commissioni ad hoc, la violenza non risulta essere mai un argomento centrale nella pianificazione politica. Ma a cosa si devono queste mancanze? 

Storia di una definizione

Il contrasto alla violenza di genere è un tema recente nelle agende internazionali, anche per questo la comunità globale non ha ancora raggiunto un livello di sensibilità tale da accelerare misure specifiche efficaci.

Nella Convezione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Cedaw) del 1979, il primo e più importante documento sulla tutela dei diritti delle donne, non vi è alcun riferimento specifico alla violenza di genere. Per la prima definizione di violenza come atto discriminatorio basato sul genere si dovrà attendere il 1992, grazie alla raccomandazione del comitato atto a sorvegliare l’implementazione della convezione.

L’anno successivo l’assemblea generale delle Nazioni Unite adotterà la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne che definisce la violenza come “atto fondato sul genere”. La dichiarazione contiene anche altre importanti innovazioni, quali l’inclusione nel novero delle forme di violenza della violenza psicologica e il riconoscimento della violenza non più come un fatto privato, ma come fatto pubblico, specificando che le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà devono essere contrastate sia che avvengano nella vita pubblica che nella vita privata.

La violenza sulle donne come violazione di diritti umani

Si dovrà attendere il 2011 perché gli stati europei decidano di dotarsi di un proprio impianto normativo “autonomo” rispetto a quelli formulati in sede internazionale. Così, dopo un lungo processo di negoziazione, viene redatta la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e alla violenza domestica, meglio conosciuta come Convenzione di Istanbul.

Questo documento sottolinea la natura della violenza di genere come violazione dei diritti umani e rintraccia nelle radici della disuguaglianza tra uomini e donne la sua causa.

Dunque, secondo quanto emerge dal quadro normativo internazionale, la violenza contro le donne ha le seguenti caratteristiche: è un atto fondato sul genere, di natura psicologica o fisica, rappresenta una violazione dei diritti umani e come tale deve essere perseguita da un ente terzo.

Secondo questo assetto normativo, lo stato è il primo responsabile della lotta alla violenza. Allora perché i singoli paesi non si assumono questa responsabilità? E qual è la situazione in Italia? 

I tempi lunghi dell'Italia

L’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul il 10 settembre 2013 e la convenzione è entrata in vigore il 1 agosto 2014. Da allora, non sembra essere cambiato molto. Il primo rapporto del Grevio (Group of experts on action against violence against women and domestic violence) sull’Italia, pubblicato a gennaio 2020, dà un giudizio generale molto tiepido sul nostro paese, sottolineando che le azioni contro la violenza di genere incontrano ancora molte resistenze.

In primo luogo, si denuncia la mancanza di un approccio multisettoriale e multilivello, che includa i settori della salute, dell’educazione e della giustizia e che consenta un’azione coordinata che coinvolga gli operatori dei vari settori, dalle istituzioni alle Ong ai centri di accoglienza.

La situazione sarebbe da ricollegarsi direttamente alla mancanza di finanziamenti adeguati atti a porre in essere queste politiche, la cui natura precaria rende impossibile l’attuazione di progetti a lungo termine.

In secondo luogo, il rapporto ricorda l’importanza di adottare misure complementari ispirate a un approccio fondato sui diritti umani, centrato sulla dignità delle donne e che possa colmare le lacune nei servizi di supporto specializzati per le vittime di violenza sessuale, ad esempio istituendo centri di accoglienza per le vittime di stupro o di violenza sessuale.

Il rapporto sembra ricondurre il ritardo italiano nell’implementazione della Convenzione di Istanbul a un fattore socio-culturale. D'altronde il "rapporto ombra" della società civile per il Grevio denunciava la presenza in Italia di “un substrato culturale caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza, cui ancora si tende a non credere”.

Stereotipo confermato di recente da un servizio della Rai che alla vigilia della giornata internazionale sull’eliminazione della violenza di genere ha mandato in onda un tutorial in cui si “insegna” alle donne come fare la spesa in minigonna e tacco dodici in tempo di pandemia.

Inoltre, nel documento si evidenzia la tendenza a reinterpretare e riorientare la nozione di parità di genere in termini di politiche per la famiglia e la maternità. Infatti, durante il periodo coperto dal rapporto, 2014-2019, i governi hanno sempre agito attraverso l’azione del Ministero delle Pari opportunità con iniziative di corto respiro da attuare in funzione ancillare rispetto ai programmi sulle politiche della famiglia.

Quindi, benchè l’introduzione di leggi innovative quali, ad esempio, l’adozione di congedi speciali retribuiti per le lavoratrici vittime di violenza di genere e a sostegno agli orfani delle vittime o nuove norme in materia di stalking sia un segnale positivo, permane una sostanziale distanza tra l’applicazione de iure e de facto della convezione. 

Pandemia nella pandemia

La pandemia da Covid19 ha reso più visibili tutti i limiti delle politiche di contrasto alla violenza sulle donne, accentuandone le conseguenze negative a tal punto che questa è stata rinominata “la pandemia nella pandemia” o la “pandemia ombra”.

Secondo i dati di UNWomen, le misure di lockdown hanno fatto emergere questo fenomeno sotterraneo e ovunque le richieste di aiuto sono aumentate di almeno il 30%. I paesi sono stati colti impreparati e le misure messe in atto sono risultate spesso tardive e insufficienti.

In particolare, per quanto riguarda la possibilità di offrire alloggio alle vittime di violenza e ai loro figli, altrimenti costretti in casa con partner e genitori violenti. Salvo alcune eccezioni virtuose, come ad esempio la Francia che ha messo a disposizione per le vittime stanze di albergo, o la Gran Bretagna che ha sviluppato un’app chiamata Bright Sky per aiutare le donne in difficoltà, le azioni degli stati, palesando una mancanza di coordinazione ed efficacia, hanno indirettamente denunciato la mancanza di un “piano pandemico” specifico per la violenza, che doveva essere integrato nella risposta sanitaria.

L’Italia, al pari di altri paesi, si è fatta cogliere impreparata per quanto riguarda l’aspetto relativo alle violenze di genere nei contesti emergenziali. 

Poposte per stare al passo

Tuttavia, vi sono dei segnali incoraggianti. Infatti, il cosiddetto “piano Colao” (che il comitato di esperti coordinato da Vittorio Colao per il governo ha presentato a giugno 2020 per un rilancio dell'Italia, ndr), racchiude una serie di raccomandazioni che mirano a definire una strategia volta a promuovere la “parità di genere e l'inclusione” per il futuro del nostro paese. Prendendo atto dell’alto livello di disuguaglianze di genere presenti sul territorio, il piano promuove lo sviluppo di un welfare inclusivo, con strumenti mirati per la protezione dei minori, con misure specifiche relative alla lotta alla violenza di genere.

Per quanto riguarda infanzia e adolescenza, il comitato ha formulato interventi puntuali per proteggere i minori vittime di violenza, con misure generali volte al supporto psicologico e specifiche quali l’istituzione della “dote educativa”.  

Per le donne vittime di violenza invece si punta al rafforzamento dell’indipendenza economica, attraverso l’istituzione del reddito di libertà, l’accompagnamento all’inserimento nel mondo del lavoro e il rafforzamento del numero dei centri anti-violenza. Tuttavia, il piano, sicuramente innovativo, non è altrettanto esaustivo e non sembra essere stato recepito dalle istituzioni.

Per l’Italia sarebbe fondamentale uscire dall’impatto settario che vede la violenza di genere declinata a sotto-argomento trattato dai ministeri per le pari opportunità o da commissioni create ad hoc. Ad oggi il lavoro della commissione al Senato contro il femminicidio affronta solo gli aspetti “estremi” della questione, il femminicidio appunto, oppure la criminalizzazione delle condotte, senza impegnarsi concretamente sulle azioni necessarie per creare un contesto efficace di contrasto alla violenza quotidiano.

Aspetti che, sia chiaro, risultano essere di vitale importanza, ma devono essere inseriti in un progetto più ampio, poiché rappresentano solo, come si dice, la punta dell’iceberg. Infatti, bisognerebbe innanzitutto partire dal contrasto al concetto di mascolinità tossica e trovare nuove strade per affrontare questo fenomeno.  

Serve un approccio olistico infra e intra settoriale che coinvolga l’operato di più ministeri, adottando una vera e propria prospettiva di genere. Questo risulta fondamentale soprattutto alla luce della presentazione dei piani nazionali per il recovery fund, occasione unica nella storia per ripensare un modello di società più inclusivo, con specifico riferimento all’indipendenza economica delle donne e l’empowerment femminile, fattore cardine nella lotta alla violenza di genere.

Finché donne esperte in materia non saranno coinvolte nella cabina di regia (come denunciato da 20 associazioni di donne che si occupano di diViolenza,non sarà possibile ottenere risultati concreti.

Dati e politiche basati sull'evidenza

Tutto questo non sarà possibile senza un ricorso massiccio e razionale all’uso dei dati. In Italia infatti si denuncia la disomogeneità nella raccolta di informazioni relative alla violenza, da cui consegue la sostanziale impossibilità di disegnare politiche basate su dati affidabili.

Questo perché manca uno studio approfondito dei dati e delle evidenze scientifiche. Il lavoro che ho intrapreso con la commissione della rivista Lancet contro la violenza di genere e il maltrattamento dei giovani va in questa direzione. Questo gruppo indipendente di ricerca mira a raccogliere evidenze sull’impatto che violenza di genere ha sugli stati e sulle società. In particolare, la commissione indaga gli effetti socio-economici del fenomeno partendo da un dato, il costo così chiamato della “mancata azione sulla violenza” (cost of inaction).

Ancora una volta, quindi: la violenza di genere va inserita in una prospettiva più ampia.

La violenza non è fenomeno transitorio e circoscritto. Pervade le nostre società e a oggi rappresenta una delle violazioni dei diritti umani più dimenticate e uno dei maggiori ostacoli al raggiungimento dell’uguaglianza tra uomini e donne.

Come affermato nella Convenzione di Istanbul e nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, l’uguaglianza tra uomini e donne è la precondizione per il rispetto di tutti i diritti umani. La pandemia ha reso evidente questo aspetto e la necessità di una società più giusta e inclusiva.

http://www.ingenere.it/articoli/violenza-servono-dati-politiche-adeguate?fbclid=IwAR114dNwVSqvbIzHheuoAGCqo1bTDSyXYNtsebhtgaqekngz_xAXBo13qWQ





mercoledì 20 gennaio 2021

Covid: con la pandemia più depressione e ansia, specie tra le donne. E in smart working si sta peggio Elena Tebano

L’epidemia di Covid-19 e le chiusure ad essa connessa hanno fatto aumentare ansia e depressione, colpendo, in particolare, donne, giovani e chi ha lavorato in smart working. È quanto emerge da una ricerca su un campione significativo di italiani pubblicata su Scientific reports di Nature e illustrata dai suoi autori sul sito Lavoce.info. La ricerca è stata fatta a giugno dopo il primo (e più severo) lockdown italiano, su un campione rappresentativo della popolazione. Gli autori, Marco Dalmastro e Giorgia Zamariola, hanno rilevato che il malessere psichico è aumentato soprattutto (e comprensibilmente) tra chi ha avuto malati di Covid in famiglia — con una probabilità più che doppia di avere sintomi depressivi e stati d’ansia —, ma che dal punto di vista sociodemografico a risentire maggiormente dell’epidemia a livello psicologico sono state le donne, i giovani, i precari, i lavoratori a basso reddito e quelli in smart working.

«Punteggi più alti di sintomi depressivi (e di ansia) sono stati rilevati nelle donne, nei giovani, nelle persone che incontrano incertezze professionali (perché in cassa integrazione o in disoccupazione) e negli individui con status economico meno agiato — scrivono gli autori dello studio —. Sintomi di depressione si segnalano anche per gli individui che vivono da soli e per coloro che non potevano uscire di casa per recarsi al lavoro. In altre parole, nonostante lo stress della condizione lavorativa emergenziale, chi ha continuato ad andare a lavorare ha avuto meno probabilità di sviluppare sintomi depressivi e di ansia». Questo perché la mancanza di relazioni sociali e incontro quotidiani con altre persone aumenta il malessere psichico più della paura di esporsi al contagio.

Tutto questo avveniva nei mesi in cui l’accesso ai servizi di salute mentale era fortemente limitato proprio a causa dell’epidemia: secondo uno studio della Società Italiana di Psichiatria (Sip), pubblicato su Bmc Psychiatry e riportato da Quotidiano Sanità, durante la prima ondata della pandemia il 20% dei Centri ambulatoriali dei Servizi di Salute mentale italiani ha chiuso, mentre il 25% ha ridotto gli orari di accesso. In particolare i consulti psichiatrici ospedalieri sono diminuiti del 30 per cento, le psicoterapie individuali del 60 per cento, le psicoterapie di gruppo e gli interventi psicosociali sono stati quasi del tutto sospesi (con una diminuzione del 90-95%). Significa che nel momento di maggior bisogno le persone in quel periodo più fragili, che già necessitavano di cura psicologica da parte del servizio sanitario, sono rimaste senza assistenza.

Tra le donne, riporta ancora lo studio di Nature, si registra un venti per cento in più di probabilità di mostrare sintomi di depressione, ansia e angoscia rispetto agli uomini. È un dato registrato anche in altre ricerche. Per esempio quella condotta nella provincia di Alberta, in Canada, dalla psicologa italiana Veronica Guadagnini: «Rispetto agli uomini, le donne hanno riferito una minore qualità del sonno e maggiori sintomi di insonnia, ansia, depressione e traumi» spiega la ricercatrice intervistata da PsychHub360.

Le due ricerche non hanno cercato di spiegare le ragioni questa differenza, ma la spiegazione di Guadagnini su come è nata la sua ricerca può aiutare a capire almeno una parte di questa differenza. «Quando il 16 marzo la provincia in cui vivo (Alberta, Canada) ha dichiarato lo stato di emergenza e il blocco totale delle attività, mi sono trovata a lavorare da casa con un lavoro a tempo pieno e a seguire da sola l’istruzione a casa di mia figlia (il mio partner lavora fuori provincia). Mi sono sentita molto sopraffatta e ho iniziato a pensare a come in molte famiglie il carico di assistenza sia spesso maggiore per le donne. Ho iniziato a pensare che in questo caso la situazione che stavo vivendo era condivisa da molte donne in tutto il mondo e che era necessaria una ricerca che analizzasse l’impatto dei ruoli di genere sulle reazioni alla pandemia». Il suo studio ha poi confermato il maggior aggravio di malessere psichico per le donne.

Abbiamo già spiegato in questa rassegna stampa come le conseguenze economiche dell’epidemia abbiano colpito maggiormente le donne, sia nell’immediato (sono quelle che hanno perso o ridotto di più il lavoro stipendiato) sia per il futuro, perché sono rimaste indietro nella carriera mentre gli uomini andavano avanti (ne avevo scritto qui). Lo studio di Nature sull’Italia dimostra che questo vale anche per il malessere psichico. Per questo è necessario introdurre un approccio di genere nelle politiche pubbliche di risposta alla pandemia e potenziare tutti i servizi di assistenza che possono sgravare le donne (e in generale famiglie e genitori) dal lavoro di cura. Se non vengono affrontate le diseguaglianze di genere si alimentano a vicenda, peggiorando sempre più.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente nella newsletter «Il Punto - Rassegna stampa» del Corriere. Per riceverla potete iscrivervi qui https://www.corriere.it/newsletter/

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domenica 17 gennaio 2021

RIFLESSIONI SULLA “CURA” Nicoletta Pirotta

Ci sono fatti, situazioni, eventi, tragedie che determinano un “prima” e un “dopo” perché mettono in luce zone d’ombra e svelando ciò che non funziona possono addirittura consentire ribaltamenti sociali. Come ricorda Daniel Finn nel suo articolo “La Peste nera e la nascita del mondo moderno” — in Jacobin, n. 7 / estate 2020 — ancora oggi «gli storici dibattono sul ruolo della peste nera», diffusasi in Europa a partire dalla seconda metà del 1300, «nella grande transizione dell’Europa occidentale dal feudalesimo al capitalismo. Sia che abbia accelerato tendenze già in essere o che abbia indirizzato lo sviluppo verso strade del tutto nuove, la pandemia sicuramente contribuì alla matrice sociale dalla quale emerse il capitalismo moderno, specialmente nella campagna inglese».

La drammatica pandemia da Covid-19 nella quale ci troviamo è uno di questi eventi. Il virus è apparso e si è diffuso dentro un contesto economico e sociale reso fragile da anni di politiche neoliberiste, nei quali molti milioni di persone hanno avuto meno diritti, li hanno perduti, o peggio, non li hanno mai sperimentati, mentre la ricchezza di pochi è aumentata esponenzialmente. Precarizzazione del lavoro e della vita, indebolimento dei sistemi pubblici di welfare sotto il peso di scelte politiche fondate sulla trappola del debito pubblico, del pareggio di bilancio, dell’aziendalizzazione, violenta predazione dell’ambiente naturale e del vivente hanno impoverito e devastato il pianeta in nome di un profitto senza fine che distrugge tutto ciò che gli si oppone, mentre le gerarchie di potere si sono acuite dando origine a ingiustizie, fondamentalismi di varia natura e violenze.

Un contesto che ha promosso un modello di società nel quale, citando, se non ricordo male, Marx, “individui reciprocamente indifferenti” si incontrano e si riconoscono, quasi esclusivamente, nella dimensione del mercato. Il contagio che si diffonde, generando sofferenza e dolore, svela in maniera esemplare che nessuna guarigione può esserci se si ritorna al mondo di “prima” perché questo mondo è la malattia.

Da qualche tempo una parola risuona con insistenza in molti e differenti luoghi: cura. È un fiorire di iniziative pubbliche, di discorsi, di dibattiti nei quali la “cura” diventa il leit motiv di fondo. Penso in particolare al proficuo “percorso di convergenza per una società della cura”, di cui mi sento parte, dentro il quale convergono centinaia di associazioni e singole persone. Per questo sarebbe utile domandarsi quale significato si vuole dare a questa parola. Perché le parole possono sostenere percorsi trasformativi e liberatori ma anche di mantenimento dello status quo o, peggio, di involuzione. Come scrisse il socialista William Morris a fine Ottocento: «I padroni hanno molti modi di lottare per sopravvivere in questo mondo!»

Provo pertanto a condividere alcune mie riflessioni sul significato del termine “cura”. Lo faccio senza troppe pretese e nella consapevolezza di ciò che sono: non un’intellettuale ma un’attivista politica femminista di una certa età che preferisce dedicare le energie di cui ancora dispone a sostenere percorsi e progetti capaci di modificare il nostro modo d’essere e di generare pensieri e azioni utili a un cambiamento di fondo del sistema in cui ci troviamo a vivere.

Qualche precisazione

Non intendo la “cura” come un gesto riparatorio di un guasto o di somministrazione di un farmaco per far scomparire il sintomo. Non riesco nemmeno lontanamente a pensare come si possa riparare, riaggiustare o addirittura guarire il mondo in cui viviamo. Mi convince di più considerare “la cura” come un nuovo paradigma di senso che presuppone un riorientamento radicale di pensiero insieme all’esigenza di un modo diverso di stare al mondo. In questo senso curare non può che voler dire confliggere con l’ordine economico, sociale e politico che governa il mondo. Modificando al contempo anche noi stesse/i. Preferisco, cioè, considerare la “cura” come una prassi, e quindi un’azione coerente sostenuta da un pensiero, e un modo d’essere, individuale e collettivo insieme.

L’elaborazione femminista: una miniera d’oro

Riconoscere all’elaborazione femminista il merito di aver ragionato per prima, ormai da decenni, sul concetto di cura non significa, per me, considerare la “cura” come una parola di proprietà del femminismo. Ben vengano diffusione e contaminazione. Specifico che l’elaborazione femminista a cui mi riferisco non ha a che vedere con il pensiero che postula che la “cura” sia essenzialmente un’attitudine femminile. Perché quella cura lì è esattamente il modo attraverso il quale si è inferiorizzato il genere femminile relegandolo nella sfera domestica o in lavori considerati “minori” per considerare le donne il “secondo sesso”, come ebbe efficacemente a spiegare Simone De Beauvoir, e introdurre una gerarchia di potere che ancora oggi persiste.

Scrive l’antropologa ecofemminista Yayo Herrera (in foto) in un’intervista esclusiva a Sara Pollice: «Non credo che le donne abbiano un principio femminile che le renda differenti, più portate a occuparsi della vita. Ciò che è vero è che la cura è stato un lavoro storicamente femminilizzato, ed è un lavoro importante, un lavoro trascendentale, e da un punto di vista femminista e non femminile: c’è bisogno di suddividerlo, di fare in modo che l’insieme della società, l’insieme sociale integrato da uomini, donne, persone e istituzioni, si occupi corresponsabilmente della cura del corpo. Non è un lavoro strettamente di donne, non è un lavoro femminile, è un lavoro che fanno le donne perché viviamo in una società patriarcale che obbliga, in forma non libera, le donne a svolgerlo».

A mio avviso l’elaborazione femminista più “rivoluzionaria”, sul piano del prendersi cura, è proprio quella che ha affermato quanto “il personale sia politico”, smascherando la falsità del binomio privato/pubblico.

Come scrive bene Giorgia Serughetti nel suo articolo “Il perturbante lavoro domestico” — in Jacobin n. 7 / estate 2020 — «La distinzione privato/pubblico, con l’assegnazione delle donne al primo ambito, gli uomini al secondo, è stata (ed è ancora in gran parte) un caposaldo della costruzione patriarcale della cittadinanza. È stata inoltre (ed è ancora) funzionale a economie capitalistiche che risultano — come scrive Nancy Fraser — “dipendenti dagli stessi e identici processi di riproduzione sociale di cui disconoscono il valore”. Nella fase attuale del capitalismo, globale e neoliberale, il posto delle donne non si limita alla casa, si parla anzi di femminilizzazione del lavoro extra-domestico. Ma questa evoluzione non fa che rafforzare le norme di genere, nonché di classe o “razza”, con l’attribuzione dei compiti di cura ad altre donne, spesso migranti da paesi più poveri, e l’attivazione di catene globali della cura. Ricordando la matrice “ideologica” di questo binomio, ma anche il suo carattere materiale, il pensiero femminista dell’ultimo mezzo secolo ha mostrato la profonda interconnessione che esiste tra sfere che si presumono distinte. Ha evidenziato come ciò che definiamo “privato” e “domestico”, lungi dall’essere estraneo alla vita pubblica, è in realtà continuamente plasmato dalla politica. E come un lavoro riproduttivo continuo e continuamente rimosso — cucinare, lavare, fare il bucato, curare i figli minori, eccetera — sia essenziale ad assicurare la partecipazione degli individui adulti alle attività produttive».

Specie nei periodi di confinamento, lo spazio della casa è divenuto centrale rendendo evidente quanto sia ideologica e non “naturale” la distinzione fra la sfera pubblica e quella privata e quanto sia fittizia l’idea, tutta maschile, di una “cittadinanza” fondata ingannevolmente sul mito dell’individuo lavoratore, adulto, razionale, autonomo sganciato dalla sfera domestica. La pandemia dimostra che dimensione della cura e lavoro di riproduzione sociale e domestica sono elementi fondanti la vita stessa di una società. Ripensare il modello economico e sociale e metterne in discussione l’attuale non può che voler dire mettere al centro le relazioni di cura, prendersi cura di sé delle e degli altri e del mondo e riconoscere le intersezioni di genere, classe, razza che attraversano le soggettività materiali.

Nel ripensare il modello economico e sociale l’elaborazione femminista si interseca con quella ecologista per porre due problemi centrali: quali siano i bisogni umani da sostenere, quali siano le produzioni di cui abbiamo bisogno e quali siano i lavori socialmente necessari e inoltre, considerata l’interdipendenza e la vulnerabilità dei nostri corpi, come prendersene cura in particolare in alcuni momenti specifici dell’esistenza.

Le esperienze di neo-mutualismo e solidarietà: “un nuovo modello di organizzazione e di risposta ai bisogni?”

I bisogni sollevati dalla crisi sanitaria ed economica sono tali e tanti da richiedere interventi ampliativi rispetto a quanto poteva essere garantito dai sistemi pubblici di assistenza sanitaria e sociale impoveriti da anni di riforme in senso privatistico. Anche per questo, durante il periodo di confinamento, si sono moltiplicate le esperienze di solidarietà e di neo-mutualismo, già presenti in molte città. Le reti di mutualismo, i centri sociali, le associazioni e i collettivi impegnati nel lavoro di quartiere hanno dato vita ad attività solidali per consentire alle persone rese fragili dalla pandemia per motivi differenti di poter contare su un aiuto concreto: spesa solidale, consegna dei medicinali, baby-sitting, sportelli legali, utilizzo di pc e tablet…

A mio avviso, sono almeno tre gli aspetti che dimostrano quanto queste esperienze pratiche di cura possano avere carattere trasformativo dell’esistente.

In primo luogo tali pratiche hanno consentito l’attivazione di centinaia di donne e uomini, in prevalenza giovani, che hanno agito attività di riproduzione sociale non orientate al profitto sperimentando quanto la solidarietà possa avere una dimensione politica se non viene vissuta solo come azione caritatevole ma come modalità di risposta, attiva e consapevole, a bisogni specifici legati al territorio.

Queste esperienze di neo-mutualismo e solidarietà, come ha sostenuto Nicoletta Gini, della casa del popolo di Lucca, durante il seminario, organizzato in remoto da IFE Italia lo scorso 5 dicembre su “Bisogni e cure. Le politiche di welfare al tempo del Covid”, non sono state pensate per  mettere una pezza alle assenze del sistema pubblico o peggio per offrigli una stampella, ma al contrario per leggere i bisogni specifici del territorio e costruire legami collettivi e solidali potenzialmente capaci di indicare un nuovo modello di organizzazione e di risposta ai bisogni con possibili ricadute trasformative sul sistema pubblico di welfare. Sulla stessa lunghezza d’onda, nel medesimo seminario, anche  Silvana Cesani, già assessora comunale alle Politiche sociali nel Comune di Lodi, pur auspicando azioni di difesa di quanto resta del sistema pubblico dei servizi, non nasconde le difficoltà di quest’ultimo a comprendere e quindi a rispondere adeguatamente ai bisogni posti dalla realtà odierna, vista la situazione in cui versa il sistema pubblico stressato da riforme in senso privatistico e dalla scarsità di risorse economiche a disposizione.

Il terzo aspetto degno di nota mi pare il fatto che tali esperienze hanno dato vita a legami imprevisti che hanno consentito una contaminazione reciproca capace di valorizzare la prossimità e abbattere il muro di indifferenza che caratterizza il modello sociale nel quale siamo immerse/i, come hanno spiegato Marie Moise e Lorenzo Zamponi nella giornata di studio su “Cura, resilienza e resistenza durante e oltre la pandemia”, tenutasi domenica 18 ottobre 2020 a Milano, presso lo Spazio di mutuo soccorso Ri-make (in foto). «Ricostruire nel riconoscimento reciproco e nella cooperazione l’unità solidale tra le persone, che la logica della competizione e dello sfruttamento distrugge, significa sperimentare, come direbbe Erik Olin Wright, delle utopie reali di uscita dal capitalismo. Un percorso fatto di solidarietà, ma anche di conflitto e di sfida per il potere politico».

Le esperienze di neo-mutualismo dunque mettono al centro le persone, praticano esperienze di solidarietà orientate alla cura e indicano come quest’ultima possa divenire, forse, un elemento importante per una ricomposizione sociale fondata su forme alternative di relazione fra le persone, sull’autodeterminazione e sul protagonismo individuale e collettivo. E quindi agire sul piano sociale e, sperabilmente, su quello politico.

Si può immaginare una trasformazione economica, sociale, politica, senza un cambiamento, individuale e collettivo, dell’essere umano?

Il sistema capitalista, a braccetto spesso con quello patriarcale, nel suo agire concreto non modella “solo” i modi della produzione, le relazioni sociali, le forme della politica. Esso agisce anche sui corpi, sui bisogni, sui sentimenti, sulle emozioni, sui desideri. La mercificazione del tempo e dello spazio condiziona il pensare, produce immaginari, discorsi, abitudini, struttura una mentalità e un senso comune che vede nel possedere, nell’apparire, nella potenza i tratti salienti del vivere. La pandemia, in un certo senso, potrebbe consentire, anche a questo livello, una feconda rielaborazione del nostro essere ed esistere.

Il distanziamento sociale e la solitudine che stiamo forzatamente sperimentando fa vacillare la dimensione umana più importante che è quella dell’essere e del sentirsi in relazione. Come ebbe a scrivere Antonio Gramsci «Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi si sente in relazione con tutti gli altri esseri».

Eppure al contempo il distanziamento dei corpi rende evidente quanto si è vulnerabili se si è sole/i, quanto la solitudine generi incertezza e inquietudine, quanto nessuno/a possa “salvarsi” da solo/a. E quanto le ingiustizie, le violenze (penso in particolare quelle maschili contro le donne che durante il confinamento sono esponenzialmente aumentate), le gerarchie sociali siano piombo nelle ali, perché non servono per nulla a farci uscire dal buco nero in cui ci costringe la diffusione del virus.

Non so dire se “andrà tutto bene” o se “ne usciremo migliori”. I sistemi di dominio sono potenti e pervasivi e non basta uno sforzo volontaristico per abbatterli. Né i rapporti di forza attuali consentono facili ottimismi. Anzi. Credo però che vi sono momenti in cui si aprono spazi per provare a trasformare e a trasformarci. Mi verrebbe da aggiungere per migliorare noi stesse/i insieme al mondo in cui ci troviamo a vivere. Migliorarci non “per essere le/i migliori” ma per tentare, in un’epoca di offuscamento delle coscienze, di cambiare, cercando di essere migliori e non “le/i migliori”, tentando quindi di perfezionare la nostra interiorità e non di superare gli altri/e in una tensione “agonistica e aggressiva”, come scrive Vito Mancuso.

Forse in questo tempo di passaggio potrebbero essere poste domande corpose sul senso dell’essere e dell’esistere. E potremmo far divenire queste domande occasioni di confronto e di approfondimento, di riflessione collettiva.

«Dove sta la particolarità dell’umano, se non in un senso di responsabilità, di intelligenza, di creatività, di cura, appunto? (…)  Tanto più, allora, “cura” significa non soltanto far fronte all’emergenza, ma elaborare pensieri, fare profezie, scegliere le priorità, orientare le abitudini, studiare, soccorrere, aiutare. Senza timore, possibilmente, di guardare in faccia anche ciò che forse non si vorrebbe guardare», come scrive Gabriella Caramore ne “Il tempo ultimo” (in DoppioZero, rivista online, 18 ottobre 2020).

Ecco, tutto ciò detto, per me “cura” non può che tradursi nell’azione del “prendersi cura” orientata al cambiamento di prospettiva e all’alternativa di società e capace di muoversi su dimensioni diverse, benché intrecciate, in grado di dare conto della complessità del reale. E dunque potremmo affermare che “prendersi cura è la rivoluzione”, come disse qualche anno fa Naomi Klein in un’intervista, pubblicata su Internazionale del 16 luglio 2017, a Laurie Penny? Non saprei rispondere con certezza, ma certo potremmo provarci. Anche perché, come scrive sul Il Riformista Lea Melandri, «non sarà facile distogliere gli occhi dai disastri di un modello di civiltà e di sviluppo, capitalista e patriarcale, di cui non siamo stati, come nella maggior parte dei casi soltanto “testimoni”, ma partecipi nella quotidianità delle nostre vite, delle nostre insicurezze e dei nostri desideri».

Riferimenti bibliografici

Siegmund Ginzberg, Racconti contagiosi, Feltrinelli editore, prima edizione in Varia, novembre 2020

L’impronta ecologica delle donne, Sara Pollice intervista Yayo Herrero, intervista esclusiva, in forma di video, per la IX edizione della Scuola politica di Befree Cooperativa, Stiffe/L’Aquila/27 agosto/1 settembre 2019, in Jacobin, 5 ottobre 2019

Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, 1929-1935

Vito Mancuso, La forza di essere migliori, edizioni Garzanti 2019

https://vitaminevaganti.com/2021/01/16/19516/?fbclid=IwAR0yUEalm2s6vUKDP4I6G2-BdXRVStV8x51YS33Fr0zcX7A8YUOCbBpFOb0




giovedì 14 gennaio 2021

"Per ogni donna che inizia a lavorare, si creano 3 posti di lavoro" Il Giusto Mezzo per cambiare l'Italia Di Arianna Galati

Perché l'iniziativa sull'uguaglianza di genere non è una questione femminile, ma è sociale ed economica (e riguarda tutti).

Se tutte le donne attualmente disoccupate in Italia lavorassero, il PIL crescerebbe del 7%. No, non è un'invenzione, è un calcolo della Banca d'Italia. Il tema uguaglianza di genere ed economia nel mercato del lavoro e dell'istruzione, con l'accesso garantito a tutte le fasce di età, ha la risposta nell'ipotesi che evidenzia come la parità di genere, lavorativa e salariale, migliori la stabilità economica di una nazione. Il negativo è la realtà dei fatti del Paese Italia. I dati ISTAT del terzo trimestre 2020 sono preoccupanti: il tasso di disoccupazione femminile si attesta al 12,6% (con il 19,9% nel Sud Italia: è un quinto della popolazione, una cifra enorme), il calo del tasso di occupazione segna 1,5 punti, la disoccupazione cresce dell'1,3 e dello 0,9 l'inattività (sono le persone che non cercano lavoro, o sono talmente scoraggiate da non osare nemmeno farlo). Ma politici, governanti e legislatori sono ancora ignifughi all'evidenza di fuoco dei dati. L'impegno civile de Il Giusto Mezzo riguarda proprio l'attenzione verso le politiche di genere da inglobare nella visione economica del futuro. È la versione italiana dell'iniziativa Half Of It promossa dall'europarlamentare tedesca Alexandra Geese, che è partita dall'intuizione che l'assegnazione di determinati fondi europei vada a peggiorare, invece di colmare, le situazioni di disuguaglianza. La campagna nazionale si fa portavoce dell'esigenza di non accantonare la questione di genere nel disporre i finanziamenti del Recovery Fund e di Next Generation EU per superare l'emergenza economica da Coronavirus in Italia.

"Questa è una crisi pandemica. Ha un’origine diversa, non è né economica né finanziaria. In maniera surreale, i settori più colpiti da questo tipo di crisi sono anche i settori a più elevata concentrazione di occupazione femminile" spiega Azzurra Rinaldi, economista dell’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza e autrice dello studio #nextGenerationEU” Leaves Women Behind - Gender Impact Assessment of the European Commission, Proposals for the EU Recovery Plan assieme ad Elisabeth Klatzer, una valutazione di impatto di genere unica al mondo voluta proprio da Geese. La relazione è stata presentata in Commissione Europea nel giugno 2020, ma l’accordo tra i paesi era già stato preso e non c'era spazio per le nuove osservazioni. Il Parlamento Europeo, però, ha sottolineato la necessità di recepire quanto evidenziato dalle studiose passandolo a livello nazionale, con particolare attenzione richiesta a quei paesi "come l’Italia" che hanno da sempre una grave situazione di squilibrio di genere. Il Giusto Mezzo si propone come controllore effettivo, così da verificare la riduzione del gap della disuguaglianza e gli interventi strutturali. "Gli aspetti fondamentali sono 2. Primo, non è una rivendicazione da barricate, ci mettiamo a disposizione con un atteggiamento di dialogo: all'interno ci sono anche donne del governo. Il secondo punto riguarda la liberazione della forza lavoro delle donne, che sono oltre il 51% della popolazione italiana: non significa fare la carità ad una categoria di bisognosi su base welfare, ma produrre reddito e gettito fiscale. In economia si chiama effetto anticiclico, che va contro la crisi" continua Rinaldi.

Come si liberano le donne in età lavorativa? Il manifesto de Il Giusto Mezzo è articolato in tre punti: allargamento dell'offerta della cura della prima infanzia, rilancio dell'occupazione femminile, gender pay gap. Con interventi strutturali e radicati che garantiscano l'educazione dell'infanzia (un diritto della persona), il riequilibrio dell'attività di cura e soprattutto la rappresentanza di genere negli organismi decisionali. Il primo caso su cui insiste Il Giusto Mezzo è il welfare, con la copertura statale di asili nido e dei servizi di caregiving, per tradizione culturale appaltati alle donne e senza retribuzione nella maggior parte dei casi. Un sostegno portante in quest'area famigliare può garantire a un'ingente cifra di forza lavoro femminile la possibilità di fare carriera, producendo al tempo stesso introiti per lo stato (tasse) e spesa privata (consumi). L'esempio della necessità lo danno i dati drammatici del Sud Italia: "Non ci sono asili, le donne stanno a casa e non lavorano perché non hanno a chi lasciare i bambini. Ma i servizi degli asili nido sono comunali, si basano sulle tasse che vengono prodotte sul territorio: e se le donne non vanno a lavorare, non producono reddito e non pagano le tasse, quindi i servizi non vengono erogati. In qualche modo bisogna spezzarlo, e questo compito spetta allo Stato: tutti i servizi che liberano la forza lavoro sono quelli su cui spingiamo maggiormente" spiega Rinaldi. Dare fiato all'economia italiana significa impiegare le donne costrette ad accantonare la carriera per occuparsi di bambini e anziani, la cosiddetta fascia sandwich tra i 35 e i 50 anni. Il rilancio dell'occupazione femminile, appunto. "Alcuni studi dimostrano che per ogni donna che inizia a lavorare ed esce di casa, si creano tre posti di lavoro: il suo, e quelli di altre due persone, che vengono retribuite per svolgere i lavori di cura per cui lei non era retribuita. È massiccio, ci fa capire quante cose noi facciamo gratis" cita Rinaldi. Impossibile non pensare quanto il lavoro genitoriale rientri in questa casistica: il discorso culturale impone ai i padri il ruolo di portatori di stipendio, l’aspetto di cura viene appaltato totalmente alle madri. Che contemporaneamente lavorano, faticano, spendono un reddito che, pur se segnato dalle disparità salariali e dal gender pay gap, è fortemente necessario per il sostegno della famiglia. Costringere le donne a restare a casa e curare i figli non è solo condannare una famiglia a una vita di privazioni, ma significa distruggere un intero sistema economico che soffrirà la mancanza di reddito.

In concreto, le linee di erogazione dei fondi europei Next Generation EU riguardano principalmente due transizioni, digitale e green. E i temi si complicano ulteriormente: "Dobbiamo prevedere che ci siano aziende femminili che ricevano questi finanziamenti, sapere che sono settori in cui le donne sono pochissime e prevedere un accesso agevolato a tali fondi. L’altro aspetto è la formazione, per qualificarsi o riqualificarsi" prosegue Rinaldi. Gli ostacoli sono tantissimi e molti, chiaramente, di natura culturale. L’imprenditoria femminile in certi settori fa sempre fatica a ottenere credito, soprattutto se il valutatore è uomo; istituzionalmente potrebbe pesare anche la composizione delle commissioni che dovranno valutare le richieste di accesso ai finanziamenti. "Il primo passaggio è renderle commissioni eque per genere: i modelli di successo devono essere maschili e femminili. Poi, visto che le imprese femminili nei due campi sono poche, si potrebbe prevedere una quota minima accettata, non sul totale ma sulle richieste presentate dalle imprese femminili" prosegue l'economista. Di nuovo l'argomento di odio bipartisan più concentrato: le quote. "Le odiamo tutti, ma non ci sono alternative. Continuiamo a scontrarci con un bagaglio culturale enorme". Quello che bisogna imporre al Governo è un ragionamento da filiera virtuosa. L’economia impatta sulla cultura e la cultura sull’economia, entrambe sono sostenute e alimentate da un’ottica di genere, prospettiva fondamentale per sostenere la vera ripresa economica del paese. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato di tempo di costruttori, che sono tutta la popolazione lavorativa. Ne è certa Rinaldi: "Se le donne non vengono coinvolte non ci rimettono le donne, ma tutto il sistema economico: è il passaggio fondamentale e il problema principale. La crisi del 2009 è stata da -5,6 punti di PIL. Adesso ci aspetta una crisi di -11, il doppio.

In questa situazione possiamo permetterci, come sistema economico, di far sì che chiunque possa e voglia produrre reddito, non lo faccia?

https://www.marieclaire.com/it/attualita/news-appuntamenti/a35174916/occupazione-femminile-il-giusto-mezzo-iniziativa/?fbclid=IwAR0fAGuBo67ewnnHyQIaaGXFgc52Oso50WVwiylY0lcAymHrCfk9YiCChkk

mercoledì 13 gennaio 2021

Una "normalità" a cui non possiamo più tornare è la DIVISIONE SESSUALE DEL LAVORO, la cura come 'naturale' destino femminile, anziché responsabilità collettiva . Lea Melandri


2 gennaio alle ore 08:55  · 

Una "normalità" a cui non possiamo più tornare è la DIVISIONE SESSUALE DEL LAVORO, la cura come 'naturale' destino femminile, anziché responsabilità collettiva .

 La cura è una necessità degli esseri umani, sia come risposta a bisogni essenziali quando non si è in condizione di autosufficienza –il bambino, l’anziano, il malato-, sia come attenzione, affetto, riconoscimento da parte dei propri simili, di cui ogni individuo ha bisogno per vivere. “Non si vive di solo pane”. Si può morire di dolore, di solitudine, di indifferenza. Che cosa ha impedito allora di essere riconosciuta come tale e affrontata con l’impegno collettivo che merita?

 Ora, la prima e la più duratura delle pregiudiziali che hanno impedito finora di vedere la cura come necessità, responsabilità collettiva e scelta, è il fatto che nella storia che conosciamo e che è arrivata fino a noi la cura  è diventata il destino ‘naturale’ della donna, considerata come genere e non come individuo. E’ dalla capacità biologica di fare figli, dalla maternità, che vengono fatte discendere, deterministicamente, le doti tradizionali femminili: riproduzione della vita, dedizione all’altro, capacità di ascolto e di mediazione dei conflitti, responsabilità della casa e della famiglia.

 Nel Disagio della civiltà, Freud indica come fondamenti della vita in comune la “coercizione al lavoro” e la “potenza dell’amore”, riconoscendo in questo binomio anche la differenziazione tra i ruoli del maschio e della femmina, e il rapporto di

potere di un sesso sull’altro. In realtà, una separazione netta tra  amore e lavoro non c’è mai stata. Oggi si può dire che, saltati i confini tra privato e pubblico, tra il corpo e la polis, le due sfere si vanno confondendo: da un lato, la cura e il lavoro domestico diventano in parte lavoro salariato, dall’altro le trasformazioni del lavoro produttivo, sempre più immateriale, cominciano a considerare le “doti femminili” una “risorsa”. Il lavoro di cura entra oggi visibilmente nell’economia, ma i legami ci sono sempre stati.

 La cura dei figli, della famiglia, della casa sono da sempre, come dice Antonella Picchio, “un grande aggregato dell’economia generale”.

La ragione principale dell’occultamento che impedisce tuttora di affrontare alla radice la divisione sessuale del lavoro, e di vedere le conseguenze che ha sulla relazione tra uomini e donne, va ricercata nel fatto che la conservazione della specie si è venuta a confondere con la maternità e con l’amore - amore per un figlio, per un uomo, per una persona particolarmente cara-, e con l’intreccio tra amore  e dominio. Le cure che le donne elargiscono all’interno della famiglia come madri,  mogli, sorelle, nuore, a bambini, malati, anziani, ma anche uomini in perfetta salute, sono al centro di un paradosso, di una contraddizione che oggi arriva, sia pure lentamente, alla coscienza, ma di cui troviamo tracce inequivocabili nel passato.

Per J.J. Rousseau, la maternità, insieme alla seduzione erotica, è una delle “attrattive” che rendono la donna potente agli occhi dell’uomo, il quale dipende da lei per la nascita, le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali, l’educazione. Ma è anche, proprio per questo, la ragione della sua esclusione dal “contratto sociale”.

Nel capovolgimento, che vede il più debole diventare il più forte, alla donna viene chiesto di vivere “in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce”.

 Di quanto le donne abbiano a loro volta confuso la forza con la debolezza, l’amore per l’altro con la cancellazione di sé, la cura materna di un figlio con la dedizione amorosa a un marito, un amante,  sono testimonianza alcuni frammenti di “lucida intuizione” di Sibilla Aleramo. “Impulsi intimi di dedizione, compiacimento nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria. 1908”. “Ero schiava della mia forza, della mia creatrice immaginazione ormai…il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché, senza soggetto quasi”.

Questo “sacrificio di sé” nella cura dell’altro è quello che la cultura maschile ha ritenuto essere la “naturale” estensione della maternità e del rapporto madre-figlio a ogni rapporto adulto: madre comunque e sempre, anche se vergine (Mantegazza, Michelet). Il rimprovero che Emilio Cecchi fa all’Aleramo è, in questo senso, illuminante: “Nessuna virtù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé”.

Vale la pena di soffermarsi su questo aspetto della cura, perché, al di là dell’ “atto sacrilego” che è la rinuncia alla propria individualità, la dipendenza materiale a cui tiene vincolato l’uomo-figlio pesa drammaticamente anche sul desiderio di ogni individuo di rendersi autonomo rispetto al corpo che l’ha generato e da cui ha ricevuto le cure necessarie nell’infanzia. Nel momento in cui non è riconosciuta alla donna un’individualità propria, il bisogno legittimo di curarsi di sé, di potersi esprimere attraverso una molteplicità di manifestazioni di vita, la figura che il figlio si lascia alle spalle crescendo resta quella della madre che lo richiama all’antico legame fusionale, che sembra volerlo perennemente bambino, bambina lei stessa che non ha mai smesso di giocare con le bambole. L’arresto nel processo di individuazione della donna fa scendere inevitabilmente un’ombra minacciosa anche sull’individuazione e sull’autonomia dell’uomo-figlio.

La fissità nel ruolo di madre innalza la donna immaginariamente come minaccia di dipendenza perenne agli occhi del figlio diventato uomo. Per liberarsi di quell’ombra che dall’infanzia si prolunga sulla sua vita adulta, sembra che l’unica soluzione sia l’assorbimento in sé della madre: negarla come esistenza fuori di lui, perché possa vivere solo attraverso la sua vita, la sua riuscita nel mondo.

“La mamma è l’unica persona  - scrive Michelstaedter nell’ultima lettera alla madre- che può voler bene così, senza mai aver bisogno di affermare la sua individualità e senza che questo le sia un sacrificio”.

 Per celebrare la sua autonomia nella sfera pubblica, la comunità storica degli uomini ha avuto bisogno di cancellare i suoi vincoli biologici  -la nascita dal corpo femminile ma anche tutto ciò che è inscritto nell’essere corpo (fragilità, dipendenza, mortalità). Per esaltare le potenzialità del pensiero si è accanita sulla natura fino ad alterarne, forse irrimediabilmente, gli equilibri.

 La svalutazione del corpo, dei bisogni e delle vicende che lo attraversano  -la sessualità, l’invecchiamento, la malattia, ecc.- ricade, di conseguenza, sulle cure necessarie per tenerlo in vita, e sul sesso femminile che ne è stato considerato depositario per natura.

 Confinata nel privato e lasciata alla responsabilità della donna, la cura ha finito per fare tutt’uno col lavoro domestico, la mole di attività richieste dalla quotidianità di una casa, di una famiglia, ed è andata a confondersi con i legami affettivi, sessuali, amorosi, più intimi. Di qui la gratuità e l’ invisibilità , che hanno impedito finora di vederla come risposta necessaria ai bisogni essenziali dell’umano, una responsabilità che non riguarda la morale femminile ma l’”etica pubblica” (Joan Tronto).

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