martedì 30 giugno 2015

Il Milano Pride 2015 chiede

Il Milano Pride 2015 chiede che i l Parlamento:

Riconosca con una legge il diritto al matrimonio e all’adozione alle persone LGBTQIA e la tutela della genitorialità omosessuale.
Riconosca con una legge le convivenze tra coppie dello stesso sesso e di sesso diverso.
Riconosca con una legge la protezione da qualsiasi atto discriminatorio, fisico o verbale contro persone omosessuali, transgender e le loro famiglie e ai loro famigliari.
Riconosca il diritto al riconoscimento della propria identità di genere senza dover passare attraverso la sterilizzazione chirurgica imposta.
Approvi il disegno di legge 405 “Norme in materia di modificazione dell’attribuzione di sesso”.
Riconosca con una legge il diritto al lavoro, alla salute per le persone transgender e transessuali.
Riprenda, senza tentennamenti e imposizioni clericali ed omofobe, il lavoro fatto nelle scuole con la Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere.
Sostegno al diritto di asilo per persone LGBT provenienti da paesi dove l’omosessualità e la transessualità sono condannate e discriminate

Milano Pride 2015 chiede che il Governo e le Amministrazioni Locali:

Condannino ogni forma di omotransfobia e razzismo travestita da libertà di pensiero.
Condannino in quanto antiscientifico e pericoloso ogni tentativo di terapia di conversione degli omosessuali.
Adottino politiche innovative di prevenzione alla malattie a trasmissione sessuale e di sostegno alle persone sieropositive.
Orientino la loro azione nel totale rispetto della laicità dello Stato.
Promuovano la costruzione di una società multietnica e inclusiva per tutte le minoranze e cioè totalmente inclusiva per tutte le minoranze dando pieno compimento all’articolo 3 della Costituzione che garantisce parità e uguaglianza senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali
Orientino la scuola e l’università alla lotta a ogni forma di bullismo e la programmazione scolastica alla promozione della cultura delle differenze
Rifiutino ogni forma di razzismo, violenza, maschilismo e neo fascismo e agiscano per cancellare l’oppressione o lo svilimento della dignità di ciascuna persona.

L’Italia di Expo2015 accoglie il mondo ignorando la conquista di una democrazia matura e compiuta nei diritti e nell’uguaglianza di decine di paesi ospiti: l’Italia merita l’orgoglio di una svolta nei diritti e nelle libertà. I diritti nutrono i pianeta.

UNA DONNA A CAPO DELL’AGRICOLTURA MONDIALE, EVELYN NGULEKA PRESIDENTE OMA-WFO METTE IN RISALTO RUOLO DELLE DONNE IN AGRICOLTURA

 Le sue prime parole: “Siamo noi agricoltori a garantire il nutrimento del mondo”
E’ Evelyn Nguleka il nuovo presidente del World Farmers Organisation (Organizzazione Mondiale degli Agricoltori). L’elezione è avvenuta oggi, 25 giugno, nel corso dell’Assemblea Generale dell’Oma che si sta svolgendo in questi giorni a Milano.
L’elezione di una donna a capo dell’agricoltura mondiale è una grande novità per il settore e mette in risalto l’importanza del ruolo delle donne, troppe volte occulto, nell’agricoltura mondiale e nella sfida per combattere la fame nel mondo.
“Le donne – afferma la neopresidente del WFO – contribuiscono a più dell’60% della produzione mondiale di cibo. Le statistiche mostrano quindi come le donne siano una figura cardine e centrale nel settore agricolo, soprattutto se guardiamo all’Africa e all’Asia. Come donna e come piccolo agricoltore, non mi sento solo un produttore di cibo, ma un vero attore economico, di un settore quello della agricoltura al pari di altri settori economici. Per troppo tempo il ruolo dell’agricoltore è stato dato per scontato, quasi come se fossimo dei distributori automatici di cibo, chiamati a rispondere a quel ruolo, che compiano con gioia, ovvero di alimentare il pianeta in maniera obbligatoria, annichilente e soprattutto senza margini di ricavo.
La Nguleka è nata in Zambia, nel 1970, è uno dei milioni di piccoli agricoltori che con il loro quotidiano lavoro sono le vere fondamenta dell’agricoltura mondiale. È laureata in vetrinaria, presso l’Università di Lusaka. la sua professione di agricoltrice e la sua specializzazione in vetrinaria le ha permesso di essere un punto di riferimento per gli allevatori locali che, in un paese come lo Zambia, avevano notevoli difficoltà a curare le malattie che colpivano i propri capi di bestiame.
Anche per queste ragioni la nuova presidentessa dell’Oma ha ottenuto un diploma internazionale in Allevamento del Pollame presso la IPC Barneveld in Olanda, cosa che le ha permesso di essere sempre in prima linea nell’assistenza, la diagnosi e la cura delle maggiori malattie che affliggono gli allevamenti avicoli.
Prima di approdare alla Presidenza dell’OMA, è stata la prima donna Presidente dell’Organizzazione Agricola dello Zambia, la Zambia National Farmers’ Union (ZNFU).

lunedì 29 giugno 2015

Cronaca di una giornata decisamente femminista

La sveglia suona alle 6.
Io e G. ci alziamo, ci prepariamo e saliamo in macchina: direzione Bologna, contromanifestazione che si terrà in piazza Maggiore in occasione della giornata di preghiera non stop che gli antiabortisti hanno organizzato davanti alla chiesa di San Domenico. Parcheggiamo la macchina e percorriamo via Zamboni, la via universitaria, solitamente affollata e rumorosa e ora assolutamente silenziosa e soleggiata, in questo sabato mattina militante. Arriviamo in piazza e ci uniamo al gruppo già formato, leggiamo i cartelli, ci danno un foglietto con le canzoni che verranno cantate nel corso della manifestazione. Dopo una mezz’ora, mentre aspettiamo che il corteo abbia inizio, lasciamo la piazza e andiamo a vedere dove sono questi oranti e appena costeggiamo lateralmente la chiesa di San Petronio ciò che vediamo ci colpisce: decine di poliziotti, diverse camionette e appoggiati a una colonna in bella mostra tanti scudi protettivi antisommossa. Ma davvero? mi chiedo. Vorrei dire “Ragazzi, guardate che è tutto sbagliato: state difendendo delle persone che pensano che ciò che io posso contenere dentro di me sia più importante della me che vi cammina qui davanti. Che sia più importante una vita ideale e potenziale di una vita reale ed effettiva, la mia. Che vorrebbero leggi che come unica conseguenza costringeranno le donne ad abortire nel pericolo, rischiando la vita. Perché una donna che non vuole portare avanti una gravidanza non può essere obbligata a farlo, è mostruoso chiederglielo. Perché quella donna, ve lo assicuro, troverà il modo di abortire. Guardate che non dovreste essere qui, ma dove la legge è violata: negli ospedali in cui rifiutano alle donne di abortire, o negli ambulatori in cui non prescrivono la pillola del giorno dopo, o nelle farmacie in cui non la consegnano“. Ci raggiunge poi V. cara amica dalle domande spiazzanti che guardando il numero di persone ci chiede “Ma dov’è la società civile?!?”. E lo so che per una che è in piazza ce ne sono tante a casa che condividono il nostro pensiero, ma credo che il tempo di stare a casa sia finito (se mai ce ne sia stato un in cui non partecipare è stato giustificato). Mai come ora penso che sia importante esserci ed essere tante, fare fronte comune e occupare gli spazi, tutti: fisici e virtuali. Proprio il giorno prima tentavo di spiegare ad un amico su Facebook che in una discussione liquidare chi si mostra in disaccordo con te definendola “femminista un tantino suscettibile” è maschilismo. E potrei dispiacermi del fatto che a non capirlo sia una persona che si definisce di sinistra. Potrei, ma non mi dispiaccio, perché come dice Simone de Beauvoir in questa intervista, gli uomini progressisti (e anche le donne, aggiungo io)  sono comunque imbevuti di cultura maschilista. Essere “di sinistra” non è automaticamente un antidoto al sessismo.
Dobbiamo aspettare un paio d’ore prima che il corteo parta e in quel paio d’ore l’arrivo anticipato di 10 giorni delle mestruazioni mi costringe a ricerche di bagni vari ed eventuali, mi provoca dolore fitto al bassoventre e una sensazione di disagio che rende difficoltosa la partecipazione all’evento. E mi pare che anche questo imprevisto si collochi perfettamente nella mia giornata decisamente femminista: ripenso alla vicenda di quel ragazzino che con una foto su Instagram invitava suoi amici maschi ad aiutare le ragazze premurandosi di avere un paio di assorbenti in tasca per venire incontro alle loro esigenze improvvise. Lasciamo il corteo verso le 10, decidendo di tornare a casa per recuperare energie (sono a pezzi), in modo da poter poi tornare a Bologna la sera, per vedere il documentario “India’s Daughter”. E così facciamo.
Il documentario ci scuote molto. Racconta dello stupro avvenuto a Delhi nel 2012 ai danni di una ragazza talmente brutalizzata da morire 72 ore dopo. Racconta di come la società civile abbia reagito manifestando per oltre un mese, non rassegnandosi alle violente cariche della polizia, alle manganellate, agli idranti, tanto da costringere il Primo Ministro ad intervenire promettendo nuove misure in difesa dei diritti delle donne. La folla inferocita grida “impiccate i mostri”, ma troppo facile considerare “mostri” gli autori di questo reato. Perché farlo significa prenderne le distanze, definirli come “scarti della società” e non riconoscere invece che queste persone sono i prodotti voluti dalla società, una società che va a consolare – quasi come fossero condoglianze – la famiglia a cui è nata una figlia femmina. Una società che nutre prima i maschi, in cui bambini vedono una continua disparità di trattamento nei confronti delle loro sorelle, a cui viene dato meno latte a colazione, che aspettano di mangiare per ultime. Troppo facile considerarli bifolchi, umanità traviate dalla povertà degli slum in cui sono cresLa sveglia suona alle 6.
Io e G. ci alziamo, ci prepariamo e saliamo in macchina: direzione Bologna, contromanifestazione che si terrà in piazza Maggiore in occasione della giornata di preghiera non stop che gli antiabortisti hanno organizzato davanti alla chiesa di San Domenico. Parcheggiamo la macchina e percorriamo via Zamboni, la via universitaria, solitamente affollata e rumorosa e ora assolutamente silenziosa e soleggiata, in questo sabato mattina militante. Arriviamo in piazza e ci uniamo al gruppo già formato, leggiamo i cartelli, ci danno un foglietto con le canzoni che verranno cantate nel corso della manifestazione. Dopo una mezz’ora, mentre aspettiamo che il corteo abbia inizio, lasciamo la piazza e andiamo a vedere dove sono questi oranti e appena costeggiamo lateralmente la chiesa di San Petronio ciò che vediamo ci colpisce: decine di poliziotti, diverse camionette e appoggiati a una colonna in bella mostra tanti scudi protettivi antisommossa. Ma davvero? mi chiedo. Vorrei dire “Ragazzi, guardate che è tutto sbagliato: state difendendo delle persone che pensano che ciò che io posso contenere dentro di me sia più importante della me che vi cammina qui davanti. Che sia più importante una vita ideale e potenziale di una vita reale ed effettiva, la mia. Che vorrebbero leggi che come unica conseguenza costringeranno le donne ad abortire nel pericolo, rischiando la vita. Perché una donna che non vuole portare avanti una gravidanza non può essere obbligata a farlo, è mostruoso chiederglielo. Perché quella donna, ve lo assicuro, troverà il modo di abortire. Guardate che non dovreste essere qui, ma dove la legge è violata: negli ospedali in cui rifiutano alle donne di abortire, o negli ambulatori in cui non prescrivono la pillola del giorno dopo, o nelle farmacie in cui non la consegnano“. Ci raggiunge poi V. cara amica dalle domande spiazzanti che guardando il numero di persone ci chiede “Ma dov’è la società civile?!?”. E lo so che per una che è in piazza ce ne sono tante a casa che condividono il nostro pensiero, ma credo che il tempo di stare a casa sia finito (se mai ce ne sia stato un in cui non partecipare è stato giustificato). Mai come ora penso che sia importante esserci ed essere tante, fare fronte comune e occupare gli spazi, tutti: fisici e virtuali. Proprio il giorno prima tentavo di spiegare ad un amico su Facebook che in una discussione liquidare chi si mostra in disaccordo con te definendola “femminista un tantino suscettibile” è maschilismo. E potrei dispiacermi del fatto che a non capirlo sia una persona che si definisce di sinistra. Potrei, ma non mi dispiaccio, perché come dice Simone de Beauvoir in questa intervista, gli uomini progressisti (e anche le donne, aggiungo io)  sono comunque imbevuti di cultura maschilista. Essere “di sinistra” non è automaticamente un antidoto al sessismo.
Dobbiamo aspettare un paio d’ore prima che il corteo parta e in quel paio d’ore l’arrivo anticipato di 10 giorni delle mestruazioni mi costringe a ricerche di bagni vari ed eventuali, mi provoca dolore fitto al bassoventre e una sensazione di disagio che rende difficoltosa la partecipazione all’evento. E mi pare che anche questo imprevisto si collochi perfettamente nella mia giornata decisamente femminista: ripenso alla vicenda di quel ragazzino che con una foto su Instagram invitava suoi amici maschi ad aiutare le ragazze premurandosi di avere un paio di assorbenti in tasca per venire incontro alle loro esigenze improvvise. Lasciamo il corteo verso le 10, decidendo di tornare a casa per recuperare energie (sono a pezzi), in modo da poter poi tornare a Bologna la sera, per vedere il documentario “India’s Daughter”. E così facciamo.
Il documentario ci scuote molto. Racconta dello stupro avvenuto a Delhi nel 2012 ai danni di una ragazza talmente brutalizzata da morire 72 ore dopo. Racconta di come la società civile abbia reagito manifestando per oltre un mese, non rassegnandosi alle violente cariche della polizia, alle manganellate, agli idranti, tanto da costringere il Primo Ministro ad intervenire promettendo nuove misure in difesa dei diritti delle donne. La folla inferocita grida “impiccate i mostri”, ma troppo facile considerare “mostri” gli autori di questo reato. Perché farlo significa prenderne le distanze, definirli come “scarti della società” e non riconoscere invece che queste persone sono i prodotti voluti dalla società, una società che va a consolare – quasi come fossero condoglianze – la famiglia a cui è nata una figlia femmina. Una società che nutre prima i maschi, in cui bambini vedono una continua disparità di trattamento nei confronti delle loro sorelle, a cui viene dato meno latte a colazione, che aspettano di mangiare per ultime. Troppo facile considerarli bifolchi, umanità traviate dalla povertà degli slum in cui sono cresciuti, perché le dichiarazioni di uno dei loro avvocati in seguito alla lettura della loro condanna a morte ci dicono che questi non sono pensieri legati alla povertà, all’ignoranza, alla miseria, ma profondamente connessi alla loro cultura. L’avvocato visibilmente adirato definisce ingiusta la sentenza, perché la colpa è della donna e davanti alle telecamere dichiara che lui stesso se sua figlia osasse andare al cinema con un uomo che non è suo marito e tornare a casa alle nove di sera, sarebbe il primo a prendere la figlia, portarla nella sua fattoria, versarle addosso una tanica di benzina e darle fuoco. Gli stessi stupratori dicono di essere stati così violenti con lei perché alle loro domande su cosa ci facesse una donna non sposata fuori la sera con un uomo, lei rispondeva invece di stare zitta, e questo li ha mandati in bestia. E le hanno dato una lezione. E mentre le davano una lezione, lei ha resistito, mentre si sarebbe dovuta far violentare senza opporre resistenza, così non l’avrebbero massacrata di botte e sarebbe ancora viva. Insomma: se è stata violentata è colpa sua. Se è morta è colpa sua. Donne che non rispettano il loro confine e per questo vengono rimesse al loro posto.
Esco dal cinema e penso a due cose. La prima: questo documentario non parla dell’India, parla di tutto il mondo. Nell’interessante dibattito seguito alla proiezione, la regista  Leslee Udwin ha raccontato di aver ricevuto moltissime lettere di uomini indiani, la cui sostanza essenzialmente era sempre la stessa: scrivevano di rispettare le donne, giuravano di non aver mai alzato una mano contro la moglie o la figlia, ma nel guardare il documentario si erano resi conto di riconoscersi nelle parole pronunciate dagli stupratori e dagli avvocati. E questo li metteva profondamente a disagio. Il pensiero di quegli stupratori e di quegli avvocati non è un pensiero limitato alla cultura indiana. Restiamo di sasso a sentire certe dichiarazioni fatte alla luce del sole, davanti alle telecamere, solo perché qui siamo abituate ormai ad un politically correct che fa sì che certe cose non si dicano o si dicano in modo diverso. Ma quante volte ogni giorno nella nostra avanzatissima Italia una donna viene rimessa al suo posto?  Non ce lo raccontano solo le vicende processuali dei casi di stupro in cui succede sempre che la difesa agisca screditando la donna e cercando di farla diventare da vittima a colpevole: ce lo dicono anche vicende e gesti quotidiani, come l’esempio di L., amica che ha visto con noi il documentario, che fuori dal cinema parla di quanto spesso la succeda di trovarsi a camminare sola per strada ed essere apostrofata malamente da qualcuno (e no, “Ciao bella!”, “Vieni qui”, “Eddai sorridi” non sono complimenti graditi): nel momento in cui li manda a quel paese viene sempre ricoperta di insulti: cos’è questo se non un modo di “rimetterla al suo posto”? Tu cammini per strada, sei una donna e il semplice fatto che tu lo sia autorizza un gruppo di uomini sconosciuti a rivolgerti attenzioni non gradite (ma davvero pensate che dicendo “ciaobbella” per strada a una questa vi lascerà il suo numero di telefono? Diciamo piuttosto che quella modalità di approccio non è altro che esercizio di “virilità da branco”, che nulla ha a che fare con corteggiamento o reali intenzioni di conoscere quella persona). Tu reagisci, invece di stare zitta, chinare il capo e sorridere lieta di queste attenzioni non volute, e cosa succede? Hai sovvertito l’ordine, hai messo in discussione i ruoli, hai risposto con un “vaffanculo” a chi non sapendo nulla di te ti dice pure di sorridergli, ché sei troppo seria. E questi ti insultano tirando fuori un’aggressività inquietante. E magari qualcuno penserà “E’ colpa tua, sei stata scortese”. Eh, già. Di nuovo quel mantra: la donna è un fiore, la donna è gentile, gli uomini sono cacciatori, sei tu che oltre a subire devi anche reagire educatamente. Se no… se no?
Secondo pensiero: dopo quello stupro terribile in India l’intera società civile si è mobilitata, sfidando le cariche della polizia per più di un mese. E qui? Cos’è successo dopo lo stupro dell’Aquila, in cui una ragazza è stata violentata e lasciata a dissanguarsi fuori da un locale finché un addetto alla sicurezza non l’ha trovata e soccorsa? Molte donne con cui ho parlato del documentario erano conoscenza della vicenda indiana, ma non sapevano nulla di quella nostrana: gridiamo “al mostro!” quando l’efferatezza è lontana, ma fatichiamo persino a leggerne le notizie sui giornali quando succede da noi. Forse perché crediamo che quello sia un gesto estremo, altro da noi, dalla nostra cultura, invece no: “India’s daughter” ci racconta che la figlia dell’India è la figlia di tutte le nazioni del mondo, compresa la nostra, perché i pensieri che sottendono quei gesti sono insiti anche nella nostra cultura.  Siamo tutt* allevati da una cultura profondamente maschilista e questo fa sì che maschilisti siano i pensieri di fondo delle persone, anche di quelle che si sentono e credono più libere da questi preconcetti. E non posso escludere che lo siano anche i miei. Per questo è necessario ragionare su questi temi, porre attenzione sul nostro agire e prima ancora sul nostro pensare. Perché temo che quel giustificativo “se l’è cercata” ci riguardi molto più da vicino di quanto pensiamo.
ciuti, perché le dichiarazioni di uno dei loro avvocati in seguito alla lettura della loro condanna a morte ci dicono che questi non sono pensieri legati alla povertà, all’ignoranza, alla miseria, ma profondamente connessi alla loro cultura. L’avvocato visibilmente adirato definisce ingiusta la sentenza, perché la colpa è della donna e davanti alle telecamere dichiara che lui stesso se sua figlia osasse andare al cinema con un uomo che non è suo marito e tornare a casa alle nove di sera, sarebbe il primo a prendere la figlia, portarla nella sua fattoria, versarle addosso una tanica di benzina e darle fuoco. Gli stessi stupratori dicono di essere stati così violenti con lei perché alle loro domande su cosa ci facesse una donna non sposata fuori la sera con un uomo, lei rispondeva invece di stare zitta, e questo li ha mandati in bestia. E le hanno dato una lezione. E mentre le davano una lezione, lei ha resistito, mentre si sarebbe dovuta far violentare senza opporre resistenza, così non l’avrebbero massacrata di botte e sarebbe ancora viva. Insomma: se è stata violentata è colpa sua. Se è morta è colpa sua. Donne che non rispettano il loro confine e per questo vengono rimesse al loro posto.



domenica 28 giugno 2015

«Mi turbava immaginare due uomini che si baciano Vi racconto perché non è più così» di Cristina Obber *

Anche io ho sofferto di omofobia lieve. Sono nata agli inizi degli anni Sessanta, in un paesino ai piedi della montagna, in Valsugana, lungo le rive del Brenta.
Quando ero bambina la mia percezione dell’omosessualità si riferiva ad un episodio di cui avevo sentito parlare a proposito di un pedofilo che bazzicava nella stazione di Padova. L’associazione tra omosessualità e pedofilia e quindi perversione era dunque netta.
Quando ero in prima o seconda media e chiesi chi era Pasolini mi fu detto che era uno sporcaccione. Quando avevo 13 anni ricordo che, pensando all’omosessualità, immaginavo mio fratello mentre baciava un suo amico di cui ero innamorata, e la cosa mi turbava molto.
Mi turbava perché quell’idea di perversione che avevo respirato condizionava il mio immaginario, mi era rimasta nella pancia e anche se cominciavo a sentire e vedere che esistevano omosessuali nel mondo e non sembravano degli sporcaccioni, quell’imprinting era come un filtro tra me e loro. 
Come ho fatto a liberarmi da questo immaginario?
Ho avuto la fortuna di essere una persona curiosa. Ho cominciato presto a girare l’Italia per lavoro, ho conosciuto moltissima gente, ho avuto la fortuna soprattutto di incontrare omosessuali dichiarati (inizialmente solo maschi, le lesbiche «non esistevano») dentro le loro case, di entrare nella loro intimità. Ma se io non avessi avuto l’occasione dell’esperienza della conoscenza, quel filtro non si sarebbe dissolto e forse sarei ancora lì a provare turbamento immaginando due uomini in un letto (e le donne non le immaginerei).
Spesso persone che stimo per la loro cultura e che sono realmente convinte della necessità di lottare per i diritti civili di gay, lesbiche e trans, ammettono che PERO’ se ne vedono due per strada che si tengono per mano si irrigidiscono, provano turbamento. Perché non si tratta di essere colti o meno, qui si tratta di cosa ci si porta addosso, nell’ombelico.
Fobia significa paura oggettivamente ingiustificata. Qualcosa che mi turba senza un reale motivo. L’omofobia non è solo quella violenta degli insulti, delle sprangate in un vicolo. Che sia ingiustificabile l’omofobia violenta siamo sempre (quasi) tutti d’accordo. C’è una forma di omofobia che tutti e tutte ci portiamo addosso, chi più che meno, e che ha a che fare con la cultura che ci ha nutriti di stereotipi e paure, in un paese omofobo e sessuofobico. Io la chiamo omofobia lieve. L’omofobia lieve è quel disagio che sentiamo addosso anche se a parole diciamo di rispettare tutti, quando percepiamo nel nostro intimo quel «però».
Che cos’è quel «però»? A volte diciamo che è pudore ma non è vero. È timore. È il non voler socchiudere una porta che preferiamo lasciare chiusa, quando basterebbe poco per scoprire che dietro non c’è niente di speciale. Tutto il castello di impercettibili paure che abbiamo costruito intorno all’omosessualità si sgretola di fronte alla sua banalità. Perché è tutto come nelle coppie eterosessuali. A volte splendido, a volte no, a volte l’amore dura una notte, a volte un mese, a volte una vita intera.
L’unica via per sconfiggere il TIMORE che sentiamo dentro è CONOSCERE, AVVICINARSI. In ufficio, in fabbrica, in negozio, passiamo ore, sono la nostra seconda casa. Con i colleghi parliamo di noi, ascoltiamo i loro racconti. Ma se un collega è gay o una collega è lesbica allora no, siamo discreti, prudenti. Se poi è trans le difficoltà si amplificano, ma capita raramente di avere colleghe e colleghi trans perché hanno enormi difficoltà ad essere assunte/i in un panificio come in un ufficio (è ancora forte lo stigma trans-prostituta, perché è soltanto di trans che si prostituiscono che ci parla la televisione, gli altri, le altre, «non esistono»).
Quanti di noi se abbiamo un collega o una collega omosessuale chiediamo, facciamo domande sulla sua vita sentimentale come se fosse etero? In fabbrica come in ufficio, in un negozio come in uno studio di progettazione, proviamo ad essere curiosi, a ficcare il naso nelle vite degli altri. A chiedere loro come si sono conosciuti/e, come si sono dichiarati/e, accasati/e, perché si sono lasciati/e. ad organizzare cene a coppie miste, ad entrare in quella quotidianità identica alla nostra.
Entrare nelle vite degli altri per scoprire che sono le nostre stesse vite.  Per scoprire che dove si sono costruite delle famiglie i bambini crescono sereni come tutti gli altri.
Trent’anni fa sarei stata titubante di fronte a una famiglia con due mamme ad esempio, oggi ne conosce e vedo che tutto fila liscio.
Oggi continuiamo a pensare che il modello fondante di amore tra due persone sia quello eterosessuale perché quello che dà naturalmente la vita.
Lo spermatozoo feconda l’ovulo, questo non si discute.
Ma è come se i sentimenti, gli affetti e il desiderio dovessero dare la precedenza alla procreazione naturale, sempre e comunque. Oggi la scienza ha fatto passi avanti su questo, e la scienza ci piace quando ci salva la vita, ci cura le malattie.
Chi si ostina a ritenere innaturale la famiglia omogenitoriale invoca la Natura in quanto madre illustrissima e intoccabile a cui bisogna lasciar fare. Ma guarda caso sono proprio gli stessi che invece non ne vogliono sapere di lasciar fare alla Natura quando si accaniscono a tenere in vita per 18 anni una ragazza grazie a un respiratore che di naturale non ha niente.
La Natura diventa buona o cattiva, a piacimento. e noi abbocchiamo, perché le certezze ci piacciono e ci rassicurano. Abbiamo poco tempo per approfondire, siamo indaffarati e stanchi, spesso non abbiamo il tempo di interrogarci, di riflettere con calma, ci fermiamo agli slogan, e abbocchiamo.
Anche sbandierare al mondo di avere amici gay tradisce una forma di omofobia lieve; se sono davvero sereno non ho bisogno di specificare alcuna etichetta.
Oggi ci sono dei cattolici integralisti – che non rappresentano tutto il mondo cattolico ma che finiscono però sui media e quindi diventano «il mondo cattolico» – che mettono in guardia contro quella che chiamano la teoria del gender, teoria che non esiste ma che secondo loro verrebbe propagandata nelle scuole cercando di uniformare maschile e femminile in un qualcosa di ibrido con risvolti perversi.
Quello che invece si fa nelle scuole si chiama Educazione alle differenze o Educazione di genere.
Me ne occupo anche io. Non vuol dire educare al neutro, dire che tra maschi e femmine non ci sono differenze o istigare ad una sessualità spregiudicata.
Significa educare al rispetto delle differenze, che è altra cosa; significa aiutare bambini e bambine, ragazzi e ragazze, a capire che l’aggressività non è cosa da maschi e la pazienza cosa da femmine, significa insegnare loro che non ci sono soltanto il bianco e il nero, che c’è fluidità nelle nostre identità, significa aiutare chi si scopre una identità sessuale differente dal modello eterosessuale dominante a non sentirsi penalizzato, sbagliato, difettato, condannato all’infelicità, soprattutto in quel momento della crescita, l’adolescenza, che vede le sofferenze amplificarsi tanto da essere insopportabili, a volte così insopportabili da togliersi la vita.
Ma chi ha sponsor danarosi può pagarsi anche una pagina di propaganda fanatica su un quotidiano nazionale e allora in tanti leggiamo che la parola genere è pericolosa, e allora sentiamo che se qualcuno ne parla a scuola via a dire di NO senza nemmeno sapere di che cosa si sta parlando. C’è perfino il rischio che anche persone che ricoprono ruoli istituzionali importanti in tema di educazione si lascino condizionare dalle varie forme di violenza psicologica che allarmano i genitori e calcano la mano sul naturale senso di protezione verso l’infanzia.
Questi integralismi che istigano all’odio contro gli omosessuali e sbandierando slogan contro la parola “gender” non rappresentano che se stessi, una minoranza gretta (a volte si rivelano anche banalmente dei mediocri in cerca di fama) ma pericolosa.
Tutto quel mondo cattolico aperto ed accogliente, portatore dei principi cristiani, non finisce alla tivù, non scende in piazza in manifestazioni omofobe che ci riportano al medioevo ma oggi quello che io non vedo non esiste.
Eppure esiste.
Questi integralisti si sono organizzati proprio per frenare qualcosa che loro non riescono ad accettare, proprio come negli anni 50, nel Mississippi o nell’Alabama, il kkk frenava contro l’apertura mentale della popolazione bianca che non voleva più schiavi ma uomini e donne liberi con cui convivere pacificamente.
Ho visto il film Selma. Quello che ha sconfitto razzismo e schiavitù, in Alabama, oltre alla lotta dei neri che hanno perseverato nella loro ribellione pagando spesso con la vita il loro coraggio, è stata la partecipazione di tanti bianchi che sono scesi in strada con i neri, uomini e donne dalla pelle bianca hanno detto No alla violenza di altri uomini e donne bianche. Che hanno detto «non in mio nome», «io non sono così».
Non aspettiamo dunque di avere un amico o un familiare omosessuale per dissociarci dall’omofobia, da chi agisce e istiga all’odio non in nostro nome.
Anche l’indifferenza rende complici. Anche il silenzio.
Quando assistiamo a discorsi omofobi, ad azioni omofobe, dobbiamo dissociarci, prendere posizione. Al bar, al parco, sul nostro posto di lavoro.
Si sente dire che gli omosessuali si auto-discriminano. Anche io mi isolerei se non potessi tenere per mano mio marito quando passeggio, scambiarmi con lui una tenerezza, allungare semplicemente una mano per stringere la sua mentre siamo al ristorante.
Provate a immaginare di dover presentare una moglie o un marito come il migliore amico, la migliore amica, per mesi, per anni, per una vita intera. Non lo trovereste insopportabile?
Perché di questo si tratta.
Conosco coppie insieme da trent’anni anni che ancora non si sono dichiarate ai propri genitori, che li hanno già persi senza aver potuto dire «Ehi, papà, guarda che non è vero che non ho ancora trovato la persona giusta».
Tornando all’adolescenza, provate a immaginarvi cosa vuol dire a 14, 15 anni, subire atti di bullismo a scuola, su facebook, dover fare finta di avere una fidanzatina o un fidanzatino e vergognarsi davanti allo specchio perché sai che ai tuoi genitori faresti schifo se sapessero come sei.
Provate a pensare cosa significa doversi giustificare per come si è, dover essere contenti se quelli intorno a voi vi accettano, non vi fanno del male.
Le persone non si devono accettare o tollerare.
Io non mi faccio accettare, gli altri prendono atto che io esisto, punto.
Nessuno indaga sulla mia vita sentimentale o sulla mia sessualità, nessuno mi chiede di giustificare i miei desideri.
Nessuno mi soffoca, mi chiude in un recinto.
A volte quando parliamo di diritti e leggi, sacrosanti, rischiamo di dimenticarci che stiamo parlando della vita quotidiana delle persone, della loro felicità e della loro infelicità. Di un rubinetto che perde un po’ di dolore ogni giorno, per tutta la vita.
Nei momenti socialmente difficili come quello che stiamo attraversando c’è il rischio che gli stereotipi si rafforzino, perché lo stereotipo è qualcosa di certo e dunque di rassicurante. Più il nostro futuro ci appare incerto e più ci aggrappiamo alle poche cose certe che ci riportano indietro, a quando avevamo meno paura del presente e del futuro. C’è dunque il rischio di una deriva violenta, di cui abbiamo già degli esempi drammatici. Proprio per questo è indispensabile che ognuno di noi guardi alla propria coscienza e si interroghi su quello che vuole fare, su quello che vuole essere. Vuole seguire il mondo, che va avanti e cambia ed è già in movimento, o vuole remare indietro, dimenticando che le discriminazioni ci hanno fatto conoscere il peggio di noi?
Nell’Alabama e nel Mississipi negli anni 50 avevano paura a stare vicino a un nero sull’autobus. Il razzismo non è sconfitto, ma hanno un presidente nero. Per eleggere un presidente nero significa non solo non averne paura, ma averne fiducia, perché andare a votare e mettere la croce su quel nome significa affidargli il proprio destino.
Le cose sono cambiate in America, ma i neri sono sempre gli stessi di 70 anni fa. Gli omosessuali di oggi sono quelli che 70 anni fa si nascondevano in matrimoni eterosessuali infelici, sono gli stessi che tra 70 anni cammineranno per strada per mano senza che nessuno si volti a guardarli.
Tra settanta anni il mondo guarderà a noi con la stessa rabbia e la stessa compassione con cui ricordiamo l’ignoranza di quelli che pur non facendo parte del kkk avevano paura a sedersi a scuola, in chiesa, al cinema, vicino a un nero. Li vediamo nei film e ci indigniamo, li troviamo violenti e patetici.
Perché aspettare di guardarci indietro con commiserazione e rimpianto?
Oggi possiamo decidere da che parte stare, possiamo e dobbiamo dire la nostra perché ogni discriminazione riguarda anche noi.
In Europa siamo tra gli ultimi paesi in fatto di rispetto dei diritti civili. È una vergogna se pensiamo a quando è stata scritta la nostra Costituzione, che parla di diritti e rispetto, di libertà, di dignità di tutte le persone, che è stata scritta per difenderci, per non farci mai più imbruttire, per non farci tornare mai più a quei tempi oscuri.
Non sprechiamo energie per capire perché siamo tornati indietro nuovamente, investiamo le nostre energie per dirci che indietro non vogliamo più tornare. Per dirci che presi uno ad uno siamo più avanti di quel che pensiamo, ma se non lo diciamo, se stiamo zitti, non ci rendiamo nemmeno conto di essere più evoluti di coloro che ci vogliono tenere a bada, e che forse oggi alzano la voce proprio perché sentono che gli stiamo sfuggendo di mano, che siamo davvero pronti a sentirci cittadini europei e rendere questo paese più aperto e più giusto.
Di omofobia lieve soffriamo tutti, l’abbiamo bevuta nel biberon, ma possiamo curarci. Cominciando a riconoscercela addosso per poi dichiararla ed elaborarla con serenità.
Di omofobia lieve si può guarire, ma non da soli. Bisogna aiutarsi l’un l’altro, e contemporaneamente, come per tante patologie, fare prevenzione. E bisogna investire con fiducia nei ragazzi e nelle ragazze – anche loro mal rappresentati dai media – nella loro forza e nella loro capacità di essere più onesti e liberi, più capaci di convivere anziché dividere di quanto lo siamo stati noi.
Il fallimento sociale ci dice che è finito il tempo dell’individualismo, dell’avidità, della spregiudicatezza che ci ha inaridito e impoverito, economicamente e umanamente. Che dobbiamo e possiamo riprenderci quella capacità di creare cultura e civiltà, capacità che a volte sembra soffocare nella grettezza ma che abbiamo ancora, che è il nostro patrimonio, è un patrimonio che non abbiamo difeso ma che portiamo con noi.
Quello che ci salverà è rimettere al centro le relazioni umane, è ritrovare un’alleanza tra esseri umani. E questo può accadere soltanto se ricominciamo da noi, restituendo ai nostri figli ma anche a noi stessi quelle parole come rispetto, libertà, civiltà, che ci fanno vivere meglio tutti, e che ci meritiamo.



sabato 27 giugno 2015

Family Day: un gender al giorno toglie il medico di torno di Eretica



Scrivo per ragionare di gender, personaggio parecchio nominato in quest’ultimo periodo. Definito dai partecipanti al Family Day “lo sterco del diavolo” è diventato uno spunto per realizzare meme di ogni tipo. Perché possiamo anche prestare attenzione a quel che fanno certi cattolici, o neocatecumenali che dir si vogliono, ma in una cosa non si contraddicono mai.
Qualunque sia l’argomento del quale si parla possiamo contare su una certezza. Quel certo contesto non sa produrre idee nuove, originali, e dunque per secoli non fa altro che propinarci lo stesso pretesto per causare fobie. Il diavolo, è sempre quello, che si nasconde dietro mille parole. Un tempo erano le ostetriche, e parliamo dell’inquisizione, poi erano le curatrici che adoperavano le erbe, poi erano le donne sessualmente attive al di fuori dal matrimonio, le adultere, quelle che non si sottomettevano al volere della chiesa, ché tutto vuol dirigere e comandare in ogni angolo della terra.
Alcuni dei partecipanti alla manifestazione, mi riferisco a gruppi di estrema destra, immagino che usino ancora, a volte, il migrante, lo straniero, il negro, per causare paura. Oggi, però, il ruolo del baubau per eccellenza spetta al gender. Allora bisogna collocare la parola nei contesti giusti, perché quel che è successo in piazza cos’altro può essere se non un esorcismo collettivo? Anzi no. C’è il gender che provoca terremoti e tsunami, poi c’è la donna, che lascia l’uomo per un’altra donna, che manda all’inferno l’uomo che resta senza amore, e per ciò stesso egli può uccidere. Un grazie a Kiko Arguello per averci illuminato circa le ulteriori colpe da assegnare alle donne che vengono ammazzate.
Un grazie va anche a chi ha definito i gay contronatura, a chi vomita pensando a bambini adottati da una coppia gay, a tutti coloro che rendono questo mondo ancora fermo ai tempi dell’inquisizione o, volendo trovare un altro elemento di riferimento, ai tempi del fascismo. C’è sempre un nemico esterno da inventare per tenere unito il branco, perché altrimenti si scioglie e cosa si può inventare per tenere fermi e attenti quei volti rapiti da una mistica che sa di suggestione?
Ho letto anche di analisi filosofiche sulla futura frammentazione delle famiglie. Come si fa a tenere unite le famiglie quando non vogliono affatto essere tali? Non si può semplicemente avere rispetto delle scelte altrui? Invece no. Sarebbe troppo semplice, perché se non c’è qualcuno da obbligare con regole e norme imposte, non ci si diverte. Bisogna trovare un punto da cui far partire la protesta affinché le forche siano pronte per impiccare qualcuno.
Volete sapere cos’è il gender? Volete proprio? Ecco: è il fatto di considerare una donna come accessorio affettivo in favore dell’uomo solo perché di sesso femminile. E’ il fatto di considerare l’uomo un po’ stronzo, a prescindere, al punto tale da definirlo incapace di sopportare la fine di una relazione. Perché non tutti gli uomini uccidono.
Cos’altro è il gender? Il fatto di considerare un genitore incapace solo perché gay. E’ il fatto di proiettare su altre persone i propri bisogni, che saranno quelli della Miriano, di Adinolfi, dei neocatecumenali, quando in realtà basterebbe semplicemente lasciare che al mondo ciascuno viva seguendo le proprie regole.
Il gender è il fatto di considerare una donna sottomessa perché donna. E’ il fatto di considerare un gay contronatura perché la giustezza si riflette solo nel volto di un etero. E’ il fatto di educare bambini e bambine non al rispetto delle differenze ma all’offesa, al bullismo, alla perfidia nei confronti di chiunque sia diverso. E’ quando a una bambina insegni che da grande dovrà soltanto fare la madre, moglie, quella che in casa ha gli obblighi di cura, e quando a un bambino insegni che dovrà soltanto starsene in disparte, senza poter manifestare la propria capacità affettiva, mostrando machismo e forza anche quando vorrebbe condividere la propria fragilità.
Il gender è dire che una donna non può guidare un camion e un uomo non può fare il ballerino di danza classica. E’ quando dici a tuo figlio “sei una femminuccia” perché piange o quando dici a tua figlia “sei un maschiaccio” perché gioca per strada in cerca di avventure. Il gender che temete è la somma di un pensiero critico – gli studi di genere – contenuto in migliaia di libri e vi insegna a essere un po’ meno trogloditi di così.

Dunque, vediamo un po’, la parola gender di per sé non significa nulla, o meglio, significa genere, molto più semplicemente. E non è quella che trasmette diabolici influssi del male. L’educazione di genere insegna il rispetto per gli altri generi ed è una materia necessaria da introdurre nelle scuole pubbliche. Lo è. E giusto perché abbiamo l’opportunità di parlarne: perché non togliete i crocifissi e non smettete l’ora di religione nella scuola pubblica? Perché è pubblica, ed è anche mia, e io che sono molto tollerante posso confrontarmi con tante diversità, ma se tu sputi sulla mia allora io esigo che la tua resti lontana da me. E ricorda: sei tu che hai tirato su questo muro. Quando avrai voglia di tirarlo giù e di parlarne io sono sempre disponibile. Intanto indosso un gender e vado a genderizzare con le amiche e gli amici, perché genderizzando si impara. O no?