martedì 24 dicembre 2019

auguri tanti tantissimi auguri da ventunesimodonna


grazie alle donne e agli uomini che hanno partecipato alle nostre iniziative e arrivederci al prossimo anno sempre con le donne e per le donne

giovedì 19 dicembre 2019

I libri di GiULiA: manuali di linguaggio

GiULiA ha prodotto diversi manuali sul linguaggio, in collaborazione con le migliori esperte di linguistica e di media gender degli atenei italiani. Ora li trovate qui
 
Riceviamo sempre molte richieste per i nostri manuali sul linguaggio nei media, per i quali ci siamo avvalse di volta in volta del contributo delle migliori esperte di linguistica e di media gender degli atenei italiani. Ora li mettiamo a disposizione delle nostre lettrici e dei nostri lettori (a fronte di un contributo per l'associazione).

Abbiamo prodotto negli anni:
"Donne, grammatica e media - suggerimenti per l'uso dell'italiano", a cura di Maria Teresa Manuelli, con il contributo di Cecilia Robustelli e la prefazione della presidente onoraria dell'Accademia della Crusca Nicoletta Maraschio (volume esaurito);

"Stop violenza: le parole per dirlo", a cura di Silvia Garambois, con il contributo di Graziella Priulla e di Elisa Giomi e Luisa Betti Dakli;

"Stereotipi - donne nei media", a cura di Marina Cosi, con i contributi di Monia Azzalini, Guido Besana, Stefania Cavagnoli, Mara Cinqueplami, Marina Cosi, Francesca Dragotto, Camilla Gaiaschi, Luigi Gariglio, Giovanna Pezzuoli, Paola Rizzi, Maria Silvia Sacchi, Luisella Seveso;

"Donne sport e media", a cura di Mara Cinquepalmi, con il contributo di Laura Moschini e di Manuela Claysset e Mimma Caligaris (fresco di stampa)



Chi fosse interessata (o interessato) può scrivere a "Ilibridigiulia@gmail.com", indicando il manuale desiderato, fornendo i dati di spedizione (nome e indirizzo) e accludendo ricevuta di versamento come donazione a GiULiA giornaliste, a partire da un minimo di 10euro a copia, comprensivi di spese di spedizione postale. (il versamento va intestato a "Giulia giornaliste", iban IT59B0200805075000104986745, causale "contributo per progetto libri").
https://giulia.globalist.it/documenti/2019/12/05/i-libri-di-giulia-manuali-di-linguaggio-2049986.html?fbclid=IwAR0PiLJ7E8nt-jmQighxNABxqdacVdNfkM8vh87-mkxagkCalimLKWN3Pz8

lunedì 16 dicembre 2019

LE MADRI CHE DALL’ITALIA SFIDANO LE POLITICHE DELLA GALASSIA SOVRANISTA di FEDERICA D'ALESSIO

In Italia le madri sono figura fra le più idealizzate; argomento di canzoni, pubblicitario più che letterario, non hanno mai costituito un vero e proprio soggetto politico. Anche per questo motivo, la lotta che alcune madri italiane hanno avviato nei confronti di quella che definiscono “violenza istituzionale” dei Tribunali rappresenta una novità tutta da cogliere. Sono donne come Laura Massaro a Ostia, Ginevra Amerighi a Roma, Imma Cusmai a Milano e altre, che nel corso di separazioni giudiziali si sono viste privare della potestà genitoriale perché accusate di “alienazione parentale”, cioè di comportamenti manipolatori verso i figli finalizzati a mettere in cattiva luce la figura paterna. Le perizie che spesso le accusano adducono, come unica prova, la difficoltà di relazione fra i bambini e i loro padri. Padri, in diversi casi, già denunciati per atti di violenza domestica, contro le partner o contro i bambini stessi.

Secondo le statistiche, fra le ragioni principali delle separazioni coniugali ci sono i maltrattamenti maschili violenti, che aumentano nei mesi appena successivi a una separazione, i più pericolosi per le donne. L’associazione Save the Children ha stimato nel 2018 che in Italia almeno 427mila bambini, nel solo periodo fra il 2009 e il 2014, hanno assistito dentro casa ad atti di violenza, nella quasi totalità dei casi compiuta dal padre nei confronti della madre. La violenza assistita, secondo gli studiosi, ingenera gli stessi traumi di quella direttamente subìta.

Per  la legge italiana ciò non è importante: si applica in ogni caso il principio di “bigenitorialità”. Una filosofia psico-giuridica in base alla quale l’interesse del minore, quando due genitori si separano, non è quello di crescere in un ambiente domestico sereno e ricevere le cure cui ha diritto per una crescita e uno sviluppo sani, bensì mantenere una relazione con entrambi i genitori, a tutti i costi in misura equivalente, a prescindere dal genere di legame che intercorreva prima della separazione. A prescindere persino da eventuali casi di violenza domestica, che nelle sentenze viene descritta quasi sempre come “conflittualità”.

La bigenitorialità e l’affido condiviso sono legge dal 2006, e sono centinaia, in tutta Italia, le sentenze che ogni anno vedono i tribunali deliberare sulla “conflittualità genitoriale”. Nelle separazioni consensuali, questioni anche minime che riguardano la vita dei figli devono essere comunque stabilite dai giudici e diventano il terreno per continui dispetti e microaggressioni; nei casi più gravi, la ratio dell’affido condiviso consente a padri violenti e abusanti di utilizzare il diritto paterno di relazione con il figlio come una forma di ricatto e vendetta nei confronti delle donne, che non possono allontanarli dalla loro vita. Come ha spiegato la neonatologa pediatra Serenella Pignotti nel libro “I nostri bambini meritano di più“, la bigenitorialità, più che un diritto dei bambini, si traduce nel diritto dei genitori a rivendicare il controllo – di fatto la proprietà – dei figli come ulteriore strumento di abuso e violenza di coppia. E sebbene la Cassazione sia intervenuta di recente per precisare l’applicazione legittima della bigenitorialità rimettendo al centro l’interesse dei minori, le storture nell’applicazione sono proseguite. Violando la Convenzione di Istanbul, i bambini vengono frequentemente obbligati contro la loro volontà a incontri con padri già riconosciuti come violenti, al fine di soddisfare il diritto di questi ultimi ad avere un rapporto con i figli.

Dieci anni fa fece scalpore, ma forse non abbastanza, la vicenda del piccolo Federico Barakat, ucciso dal padre che gli sparò e poi lo uccise a coltellate durante un incontro protetto, cui il piccolo fu obbligato nonostante le denunce della madre e nonostante si fosse più volte opposto a vederlo. Anche in quel caso la madre, Antonella Penati, era stata accusata di alienazione genitoriale da periti e assistenti che ne seguivano il caso. In seguito alla morte di Federico, Penati ha fondato l’associazione Federico nel cuore Onlus che offre sostegno e solidarietà alle madri e ai figli vittime di violenza domestica.

Da quando nella psicologia giuridica si è affermato il costrutto dell’alienazione parentale, le difficoltà di relazione dei bambini con i padri non vengono imputate a comportamenti negativi dei padri stessi, ma alle strategie – definite alienanti, manipolatorie o in altri modi fantasiosi – che la madre metterebbe in campo per allontanare il figlio dal padre. Una madre orca, o strega se vogliamo. Considerata responsabile delle violenze commesse dagli uomini: com’è da sempre nel senso comune, quando di una vittima di stupro si dice che “se l’è cercata”. O come ai tempi del delitto d’onore. O come secondo le teorie di Richard A. Gardner, il teorico della pedofilia che s’inventò l’alienazione parentale negli Stati Uniti decenni fa. Gardner, pur sconfessato da tutte le autorità accademiche e scientifiche, ebbe successo nel promuoverla come escamotage giudiziario per gli uomini accusati di aver abusato dei propri figli: se i bambini raccontano di aver subìto violenza, non è perché hanno subìto davvero violenza, ma perché le madri li hanno imbeccati e fanno loro credere di averla subìta. Secondo alcuni comitati di vittime di pedofilìa in Italia, come il comitato “Voci vere“, anche la strumentalizzazione della recente vicenda di Bibbiano va in questa direzione: far credere che la prassi abituale sia la manipolazione dei bambini è il modo migliore per privarli di credibilità nel momento in cui denunciano violenze realmente subite; e per farla passare liscia agli abusanti.

Con il suo disegno legislativo, Simone Pillon nel 2018 ha cercato di inasprire ulteriormente tutti i principi alla base della legge sull’affido condiviso, compresa la necessità di allontanare da casa i bambini figli di genitori separati, ritenuti dai giudici vittime di alienazione parentale, e di collocarli in strutture in cui possano essere “riprogrammati“, e preparati a una nuova relazione con il padre.

La sua azione è stata sostenuta da decine di associazioni dei Padri separati, gli stessi che negli anni 2000 chiesero la legge per la bigenitorialità e la ottennero nel 2006. Con poche eccezioni, come per esempio l’associazione italiana “Padri in movimento“, i Padri separati afferiscono in buona parte ai cosiddetti “Men’s Rights Movement”, i movimenti per i diritti maschili sorti negli anni ’70 come diretta reazione al femminismo. Per loro, il fine del femminismo sarebbe umiliare e soggiogare i maschi. Il web ha fornito a queste realtà, a lungo minoritarie, l’occasione per incontrarsi e moltiplicarsi, mettersi in rete e stringere alleanze. Si è trattato fin dal principio di un movimento transnazionale, con istanze politiche molto simili da un Paese all’altro.  L’estrema destra sovranista e internazionale che fa capo a Steve Bannon, cara a Vladimir Putin e a Donald Trump, ricava ampie sacche di consenso dai Movimenti per i diritti maschili. Vox, il partito di estrema destra spagnolo nato da appena quattro anni, che domenica scorsa è diventato il terzo partito nazionale, si fonda su un esplicito antifemminismo militante tanto quanto sul razzismo e sul nazionalismo, come ha scritto Flavia Perina su Linkiesta.

I movimenti maschili vanno quindi ben oltre l’hate speech online: hanno un’agenda politica e una rappresentanza politica. I Padri separati che fanno capo ai Men’s Rights Movement sono da sempre buoni alleati delle realtà cattoliche più reazionarie, quelle che si riconoscono nel Family Day e nel World Congress of Families. Organizzano convegni, giornate di studio, congressi, Festival della Bigenitorialità e della Paternità. Muovendosi con astuzia e approfittando dell’inconsapevolezza diffusa, hanno spacciato una legge dal tratto smaccatamente patriarcale come quella sull’affido condiviso (che fu promossa anche dai settori cattolici allora facenti capo alla Margherita/Ulivo, e a sinistra vide solo astensioni, ma non contrarietà) come una misura innovativa presso l’opinione pubblica, sfruttando l’ambiguità di un termine, come “bigenitorialità”, che nessuno all’epoca, né nel mondo dei media né tantomeno intellettuale ritenne di dover approfondire e venne superficialmente scambiato come sinonimo di paritarietà, pur significando tutt’altro.

Le realtà femministe che hanno protestato contro il DDL Pillon non hanno mai esteso l’oggetto del contendere anche alla legge 54/2006.  Nel testo di convocazione per la manifestazione contro il DDL Pillon inizialmente prevista per il 28 settembre scorso – genericamente indetta da “Movimenti Femministi, Associazioni di donne, Centri antiviolenza, Collettivi, Organizzazioni” – poi sospesa in seguito al cambio di governo, la legge 54/2006 che ha dato il via all’affermazione del principio della bigenitorialità e all’utilizzo del costrutto dell’alienazione parentale non viene neanche nominata. Se, cioè, la contrarietà al DDL Pillon ha visto le femministe genericamente tutte d’accordo sulla richiesta del ritiro del disegno di legge, manca una strategia unitaria per quanto riguarda la legge 54/2006. Tale mancanza è in parte dovuta anche agli approcci differenti, a volte distanti o contrapposti, che le varie realtà femministe adottano e hanno storicamente adottato nell’affrontare le istanze delle donne; strategie più istituzionali, o viceversa più sensibili alla lotta, che spesso faticano a incontrarsi fra loro per dare vita a un percorso unitario per quanto attraversato da diverse sensibilità.

Laura Massaro ha iniziato da oltre un anno, da sola, convinta fosse la cosa giusta da fare per proteggere suo figlio, un’opera di denuncia pubblica incessante delle perizie inesatte delle cosiddette Consulenti tecniche d’ufficio (CTU); pur riconoscendole il Tribunale di essere una brava madre, è stata privata della potestà genitoriale, dopo che aveva denunciato le violenze e gli abusi a opera del partner e per questa ragione è stato ritenuto facesse da ostacolo alla relazione fra il padre e il figlio. Ogni settimana, sostenuta dalla sua famiglia e da poche altre donne, Laura protesta davanti al Tribunale dei minori, a volte sotto Montecitorio. Le realtà del femminismo organizzato finora non si sono unite alla sua protesta mediatica, con poche eccezioni fra cui la rete “Giù le mani dai bambini e dalle donne“, l’associazione Maison Antigone; ma centinaia di donne nel corso degli ultimi mesi hanno cominciato ad appassionarsi al suo coraggio, a sostenerla e far circolare la sua storia sui social network. Lo scorso settembre Laura e altre madri hanno dato vita al Comitato “Madri unite contro la violenza istituzionale” e finalmente, anche la politica ha iniziato ad accorgersi di loro.

A ottobre il Tribunale dei minori ha decretato che il figlio di Laura venisse collocato presso il padre, nonostante il difficile rapporto di questo con il bambino, anzi proprio in virtù di questo difficile rapporto, perché possa essere riequilibrato. La scorsa settimana, le assistenti sociali recatesi a casa di Laura Massaro per una visita ispettiva – secondo Massaro finalizzata a prelevare finalmente il bambino, ad oggi ancora collocato presso di lei nonostante il decreto del Tribunale – hanno trovato ad accoglierle una rete di donne solidali, alcune arrivate anche da 500 km di distanza. Le assistenti hanno fatto dietro front senza neanche entrare dentro casa, e stigmatizzato la vicenda in un comunicato, dichiarando che tali presenze non avrebbero consentito lo svolgimento del loro incarico con la dovuta serenità.

Alcune deputate e senatrici nelle scorse settimane hanno espresso la loro solidarietà a Laura, organizzando rapidamente una Conferenza stampa alla Camera nel corso della quale Laura Boldrini, Veronica Giannone, Lucia Annibali, Valeria Valente Presidente della Commissione d’Inchiesta sul femminicidio e altre si sono impegnate a vario titolo a combattere l’applicazione del principio di alienazione parentale. Ma oltre la singola iniziativa di alcune personalità, contano le azioni politiche: nel contratto di governo fra M5s e Lega l’inasprimento della bigenitorialità era contemplato fra i punti da realizzare, e fu affidato a Pillon. Di contro, nell’intesa di governo fra M5s e PD non si parla della necessità di correggere gli abusi sulle donne e i bambini consentiti dalla legge sull’affido condiviso. Laura e le madri unite sono i primi soggetti politici ad aver trovato il coraggio di scontrarsi direttamente con l’agenda riconducibile al Men’s Rights Movement e all’estrema destra internazionale.
https://www.glistatigenerali.com/famiglia_questioni-di-genere/le-madri-che-dallitalia-sfidano-le-politiche-della-galassia-sovranista/?fbclid=IwAR28hxbk9uEzl9gDPN0S_X8Gy1ZPAzUDkSYQrR2PrhUzR98kv8g261nDXKA

mercoledì 11 dicembre 2019

Gli uomini possono diventare nostri alleati femministi?di PAOLA GIURA

Noi donne, grazie all'attivismo, stiamo cercando di trovare la nostra dimensione. Ma cosa dovrebbero fare i maschi mentre assistono, a volte inermi, a questi cambiamenti? Una piccola guida che ha stilato per noi il presidente di Ahige.
 
«Sii un vero uomo!» e «Non fare la femminuccia!» sono espressioni con cui devono ancora fare i conti gli uomini che ci circondano. La maggior parte dei rappresentanti del sesso maschile, fin dall’infanzia, fa colazione con «pane e mascolinità egemonica», ossia con un’educazione farcita di tutta una serie di stereotipi da rispettare, proprio come la controparte femminile. Le donne, grazie ai movimenti femministi, stanno cercando di trovare la loro dimensione, se non direttamente di abbattere il patriarcato dalle fondamenta: cosa dovrebbero fare gli uomini mentre assistono, a volte inermi, a questi cambiamenti?

ALLEATO O FEMMINISTI?
Ultimamente, molti uomini mostrano con autocompiacimento un grande cartello luminoso sulla propria testa con su scritto «femminista». Fra chi usa questa etichetta solamente per farsi bello agli occhi delle donne o per seguire, in modo superficiale, le direttrici della propria parte politica, la domanda che sorge spontanea è: gli uomini possono essere realmente femministi? Fra le femministe c’è chi dice che possono essere solamente «alleati». Txema Olleta Ormaetxebarria, presidente di Ahige, associazione maschile spagnola per l’uguaglianza di genere, si sente femminista, proprio perché, afferma, il femminismo difende l’uguaglianza tra uomo e donna. Partendo da questa presa di posizione, Olleta ci aiuta, attraverso la sua esperienza, a farci un’idea di cosa significhi essere un uomo femminista.

COME RICONOSCERE E DIVENTARE UN (ALLEATO) FEMMINISTA?
«L’uomo femminista è quello che si mette continuamente in discussione. Si tratta di un percorso che dura tutta la vita. Dev’essere cosciente dei rischi del maschilismo e le relazioni con le donne devono essere basate sulla gentilezza, sul rispetto della sua libertà e dei suoi spazi, sull’affetto e sugli accordi», spiega Olleta. Il compito degli alleati femministi, dunque, è quello di fare un percorso parallelo, senza cercare di trasformarsi nei protagonisti. Il rischio di mansplaining, infatti, è sempre dietro l’angolo. Facciamo lo sforzo, ora, di pensare agli uomini che conosciamo, dai partner, agli amici, passando per i familiari: continuano ad alimentare gli stereotipi di genere? «Aiutano» (solamente) in casa? Esprimono le loro emozioni? Fanno battute sessiste? Oltre a Olleta, viene in nostro aiuto anche il giurista e scrittore spagnolo Octavio Salazar con il suo libro «El hombre que no deberíamos ser» (L’uomo che non dovremmo essere) e il suo decalogo per mettere in moto una «rivoluzione maschile» e per ricercare altri modi per «essere uomini».

PRIMO PASSO: RICONOSCERE (E ABBANDONARE) I PRIVILEGI MASCHILI
Olleta chiarisce fin da subito che un uomo femminista deve «rinunciare a una serie di privilegi che si hanno per il semplice fatto di essere uomini». «Quali privilegi?» si chiederanno in molti, sorpresi. Se non è sufficiente sapere che gli uomini guadagnano di più rispetto alle donne per lo stesso lavoro, allora si può pensare, facendo una breve e incompleta lista, a:

• gli spazi politici che gli competono semplicemente perché gli uomini li hanno sempre occupati;

• la facilità con cui molti uomini credono che le faccende domestiche siano un compito naturalmente femminile;

• l’essere uno scapolo d’oro e non una triste zitella;

• la presenza di un tetto di cristallo che fa balzare gli uomini ai posti di comando senza dover lottare contro la concorrenza femminile;

• il non dover pensare a come tornare sani e salvi a casa di notte o a come vestirsi per non «suggerire» ai passanti eventuali abusi o violenze sessuali.

Queste e altre sono le cose a cui gli uomini hanno diritto (diritti non estesi alle donne), o che acquisiscono come privilegi per il semplice fatto di avere un organo sessuale diverso dal nostro.

SECONDO PASSO: CONDIVIDERE GLI SPAZI PUBBLICI
Se in Italia non sembra vicino il momento in cui una donna possa diventare presidente del Consiglio, quelle che sono riuscite a rendersi visibili in spazi pubblici importanti, spesso, hanno dovuto assumere dei comportamenti maschili per essere accettate dalla società. Basti pensare alla «figura mitologica», metà uomo e metà donna, secondo i pregiudizi di genere del patriarcato, delle cosiddette «donne in carriera» o delle «donne con le palle». Al resto, non resta che accontentarsi di commenti sul loro aspetto fisico più che sul ruolo politico, sociale o professionale. Un uomo femminista dovrebbe iniziare ad abbandonare l’idea che la società sia il suo palcoscenico i cui meccanismi sono stati creati su misura per lui. Ciò vuol dire imparare a condividerla con l’altra metà della popolazione, senza opporre resistenza e, in molti casi, facendo un passo indietro. Secondo Salazar, infatti, «Non è sufficiente che ci sia una presenza paritaria di donne e uomini nelle istituzioni, ma è urgente anche rivedere i metodi, i criteri di organizzazione e le priorità che, per secoli, hanno sostenuto gli interessi maschili».

TERZO PASSO: RIPARTIRE DAI RUOLI 'FEMMINILI'
«La differenza è visibile attraverso i fatti e non solo attraverso le parole. Non serve manifestare contro il maschilismo se poi, ad esempio, continui ad accettare battute maschiliste quando sei con i tuoi amici», ricorda Olleta. Il vero cambiamento degli uomini deve avvenire soprattutto nel privato. La casa e tutto ciò che contiene è, secondo il patriarcato, il «regno femminile», e, di conseguenza, zona off limits per gli uomini che devono essere solamente attivi a livello professionale o, facendo uno sforzo, preparando il barbecue in una domenica soleggiata. A livello privato, secondo Olleta, l’uomo deve lasciare da parte i suoi privilegi, occupandosi non solo delle faccende domestiche ma anche prendendosi cura degli altri, compresi i propri figli o i genitori in età avanzata. Non si tratta di conciliazione, insiste, ma di «corresponsabilità»: «Spesso gli uomini dicono 'Aiuto in casa'. Ciò vuol dire continuare a mantenere lo stereotipo secondo cui il peso della casa ricade sulla donna mentre noi abbiamo il ruolo di aiutante, per cui spesso vogliamo essere anche premiati».

QUARTO PASSO: RICOMINCIARE DALLE EMOZIONI
«Boys don’t cry», i ragazzi non piangono, cantavano The Cure alla fine degli Anni 70. Negli anni 2000, come ricorda Salazar, invece, ci hanno voluto ingannare con il «metrosessuale», un nuovo tipo di uomo che, in realtà, si distingueva dal «maschio alfa» solo per una riduzione considerevole della peluria corporea. Gli anni sono passati ma, per molti, essere uomini vuol dire ancora non mostrare le proprie emozioni e l’utilizzo, diretto o indiretto, della violenza. Non devono sembrare, insomma, delle donne, o rischiano di essere chiamati «omosessuali», una parola che per molti è ancora un insulto alla propria virilità. «Ogni essere umano ha quattro emozioni basilari: paura, ira, allegria e tristezza. Gli uomini hanno il permesso di utilizzare solamente ira e allegria», spiega Olleta, «Esistono molti altri motivi, però, una delle ragioni per cui gli uomini usano la violenza contro le donne è perché non sanno esprimere paura e tristezza. Esercitano violenza perché temono la libertà delle donne. Tuttavia, visto che la paura non è un sentimento che siamo liberi di esprimere, si trasforma in ira». Superare questo blocco è uno degli obiettivi di Ahige che aiuta gli uomini a esprimere tutti i sentimenti possibili: «Dopo il lavoro di gruppo cambiano le relazioni, non solo con le donne ma anche con gli altri uomini».

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https://www.letteradonna.it/it/articoli/conversazioni/2019/12/09/uomini-femministi/29451/?fbclid=IwAR2q-i193WgXRBeNWBfJjOymiV_qsH2e8j1LZInmtmNZ5zXpCuj9zonXPBY

lunedì 9 dicembre 2019

Denunciò uno stupro di gruppo e il paese la esiliò

È successo a Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria). La vittima all'epoca aveva 13 anni ed è stata abusata dal branco per due anni. Lei e il padre hanno dovuto ricostruirsi una vita altrove. La storia.
 
All'epoca pesava 40 chili, era alta un metro e 55 e aveva 13 anni. Era ancora una bambina. Una bambina che per due anni è stata violentata ripetutamente dal branco. Quando ha denunciato e la storia è diventata pubblica, il suo paese, Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria), le ha voltato le spalle. Tanto che lei e il padre si sono dovuti trasferire lontano da casa. Lo racconta La Stampa che spiega come l'adolescente venisse prelevata ogni giorno all'uscita da scuola, caricata in auto, portata al cimitero o in una casa in montagna e abusata. «Io e la mia ex moglie ce ne siamo accorti leggendo la brutta copia di un tema che nostra figlia aveva lasciato a casa», ha detto il padre al quotidiano.

AGUZZINI CONDANNATI IN PRIMO GRADO
Gli aguzzini ricattavano e minacciavano la vittima: «Attenta che facciamo del male a mamma e papà». Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto, Giovanni Iamonte, «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della'ndrangheta», Michele Nucera, Lorenzo Tripodi e Antonio Virduci, figlio di un maresciallo dell'esercito, sono i cinque dei sette responsabili (oggi tutti liberi o ai domiciliari) che sono stati condannati in primo grado con pene da sei a nove anni di carcere. Nonostante la condanna per gli abitanti di Melito Porto Salvo era tutta colpa della bambina. «Sono andato dal padre di uno di loro, il più giovane, quello che all'epoca aveva 17 anni. Mi ha detto che mia figlia si stava facendo una brutta nomina in paese. Altri sono venuti a dirmi che non dovevo denunciare. Era come se si fosse meritata quella violenza», ha continuato il papà nell'intervista a La Stampa.

UNA NUOVA VITA GRAZIE ALL'ASSOCIAZIONE LIBERA DI DON CIOTTI
Per questo motivo l'uomo e la ragazzina sono stati costretti ad abbandonare il paese. Prima sono andati in una grande città del Nord, in una casa messa a disposizione dall'associazione Libera di don Ciotti, poi si sono trasferiti altrove. «Ci hanno aiutato, adesso ho un nuovo lavoro. Siamo indipendenti. Ma a Melito ho dovuto lasciare quello che avevo di più caro. Noi siamo qua, mentre quei ragazzi sono stati scarcerati in attesa del processo d'appello (previsto a febbraio 2020, ndr)». Intanto la ragazzina è cresciuta, si è diplomata con il massimo dei voti in una scuola professionale per diventare truccatrice a teatro e al cinema e ha trovato nuovi amici.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2019/12/06/melito-di-porto-salvo-stupro/29467/?fbclid=IwAR2V6DKrbMISLPKnK2-As06lbBx1kx4zaW5KXSiEofAs4vPy4b3f38waGzA

venerdì 6 dicembre 2019

La stanza dello scirocco. Centroantiviolenza distrettuale, Cadmi se ne va

Con una serata sul tema “La violenza di  genere a partire dal nostro territorio”, si è concluso il percorso organizzato per il 25 novembre di quest'anno.
Dopo un veloce racconto dei recenti episodi di violenza sulle donne avvenuti a Corsico, viene ricordato che dopo secoli di invisibilità la violenza sulle donne è diventata visibile grazie al “ruolo importante svolto dal movimento delle donne e delle organizzazioni non governative di tutto il momdo” (Dichiarazione ONU ). La violenza sulle donne è oggi riconosciuta come violazione dei diritti mumani, non più emergenza, ma problema strutturale sociale e culturale. Da eliminare con azioni di informazione, sensibilizzazione, contrasto.
E' stato riconosciuto il valore dei Centri Antiviolenza come luoghi speciali nei quali “donne stanno accanto ad altre donne in un rapporto di relazione” per uscire dalla violenza. Le operatrici Cadmi che hanno gestito il Centro antiviolenza distrettuale “La Stanza dello Scirocco” hanno fatto  un'analisi della violenza emersa sul territorio.
Nei quattro anni di attivazione al Centro si sono rivolte 248 donne, 56 da gennaio a novembre di quest'anno. Numeri importanti...
L'attenzione si sposta poi sulla conclusione della gestione da parte di Cadmi del Centro “La Stanza dello Scirocco” dovuta alla scelta di Regione Lombardia, unica regione, di chiedere alle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza il codice fiscale. La richiesta del codice fiscale mette a rischio l'anonimato, e di conseguenza l'incolumità, delle donne pietra miliare di alcuni storici centri antiviolenza fra cui Cadmi che, ricordiamo, è stato il primo luogo di accoglienza delle donne maltrattate in Italia ed ha una lunga storia  di esperienza e di saperi. I Centri antiviolenza che non accettano di richiedere i codici fiscali alle donne vengono esclusi dalla partecipazione ai bandi per l'attribuzione dei fondi per la gestione dei centri. Cadmi è fuori, come molti altri soggetti che non accettano il dictat della Regione.
Molte le riflessioni politiche, culturali e sociali sulle reali motivazioni e sugli effetti di questa irremovibile scelta di Regione Lombardia. Resta l'amarezza di veder conclusa un'esperienza di azioni e di relazioni positive che si erano attivate sul territorio.
La serata si conclude ringraziando Cristina Carelli, Malvina Monti, Margherita Toresani e Ausonia Minniti e con la promessa di restare in relazione.

lunedì 2 dicembre 2019

Anarkikka: “La violenza sulle donne non è follia, ma un sistema di potere nelle relazioni”

ROMA – Si scrive Anarkikka, si legge “rinata determinata“. È così, con due aggettivi, che ama definirsi Stefania Spanò, napoletana di 54 anni all’anagrafe, rinata a 42 in una casa di campagna della provincia di Latina “dopo una vita segnata da storie pesanti dalla quale sono uscita in maniera catartica cominciando a raccontare” grazie alla passione per il disegno digitale con il mouse, che l’ha fatta diventare nel giro di meno di dieci anni una delle vignettiste più amate dalle femministe italiane.

Poche linee tratteggiano il caschetto nero quasi perfetto del suo personaggio, Anarkikka, fenomeno social da oltre 30mila follower, nato nel 2012 col soprannome di sua figlia, poi diventato il suo alter ego con blog su l’Espresso. Quasi, se non fosse per quella ciocca a forma di virgola che accompagna le emozioni di questa settenne, tutte racchiuse nei suoi occhi a volte tristi a volte stupiti, spesso indignati. Si indigna, Anarkikka, e prende posizione contro un sacco di cose. Soprattutto, contro la violenza maschile sulle donne e quella assistita dai bambini come lei, alla cui infanzia negata dà voce nelle sue tavole, nate sul web e diventate nel tempo mostre itineranti (Violenza assistita, Unchildren, E’ nata donna, Non chiamatelo raptus).

LA VIOLENZA SULLE DONNE “NON E’ FOLLIA, MA UN SISTEMA DI POTERE NELLE RELAZIONI” – “Quello che tento di raccontare è che la violenza maschile sulle donne non è una follia- spiega Stefania, intervistata dalla Dire in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne- Quella fisica o il femminicidio, le più visibili, sono il prodotto della cultura nella quale viviamo e cresciamo come donne e uomini. Il problema è il sistema di potere che esiste da sempre nella relazione uomo-donna, che va scardinato”. Il suo metodo per scardinarlo, Anarkikka, lo ha trovato. È il commento, pungente e diretto, l’opinione non richiesta, condivisa spesso con le sue anarchiche compagne di vignetta. Fatti di cronaca, agenda politica, poco importa: Anarkikka ha un’idea su tutto. E sopporta pochissimo la narrazione che della violenza di genere fa la stampa italiana.

“‘Uccisa, fermato il marito visibilmente distrutto’, ‘Ha pur sempre perso la moglie'”, dice con un’amica mentre sfoglia il giornale. Arrabiatissima, urla: “‘Le ha uccise perché le amava troppo’, ma vi sentite?”. Sarcastica, commenta: “‘In Italia hai solo sei mesi per denunciare uno stupro’. ‘I tempi veloci della giustizia’”. Poi sentenzia lapidaria: “Ddl Pillon: più che un disegno uno scarabocchio”. E si domanda: “Avete mai visto un uomo colto da raptus aggredirne un altro grande e grosso?”. Diritti negati, migranti morti in mare, odiatori di professione. Anarkikka è un fiume in piena e non fa sconti a nessuno. Ma il suo pallino sono e restano le donne.

“SÌ, SONO FEMMINISTA, PERCHÈ CE N’È BISOGNO” – “Ho scelto di raccontare l’universo femminile perché era il tema in cui mi sentivo più coinvolta, in quanto donna e sopravvissuta- sottolinea Stefania- Non faccio parte della generazione del femminismo storico, ma di quella che pensava di aver conquistato dei diritti. Poi mi sono resa conto vivendo, che questi diritti si rischiava di perderli e mi sono data molto da fare da quando ho avvertito che c’era stato un salto anche culturale da questo punto di vista”. Una cesura che l’ha fatta nascere all’attivismo da adulta, anche se Stefania fa fatica ancora oggi a definirsi femminista. “Ho talmente tanto rispetto di quella storia che non me la sento di appropriarmene”, dice. Ma poi precisa: “C’è un nuovo femminismo oggi necessario. E quindi sì, sono femminista, perché ce n’è bisogno”. E c’è bisogno, soprattutto, “di non dividersi- osserva la vignettista- Alcune femministe adulte non si aprono alle più giovani. Io cerco di parlare a loro, a tutte. A chi è femminista e non sa di esserlo o ha una vita molto distante dalla mia. Bisogna parlare a tutte le donne e dalle giovani dobbiamo imparare”.

DAL FENOMENO SOCIAL ALLE MOSTRE IN TUTTA ITALIA – Sul come, pochi dubbi. “Anarkikka nasce su Facebook quando sono andata a vivere in campagna sperduta tra gli ulivi e l’unico modo che avevo per relazionarmi col mondo era la rete- racconta- I social sono uno strumento potentissimo. Io ero timidissima e mi hanno aiutato tanto ad entrare in contatto con persone con cui pensavo di non essere all’altezza”.

Nel frattempo, Anarkikka, appesa con ‘Violenza assistita’ sui muri del centro antiviolenza ‘Donna Lilith’ di Latina, dove è di casa, porta la sua giovane irriverenza in giro per la penisola. “In questo momento ci sono mostre a Rimini, a Quarto Oggiaro, a Ogliastra in Sardegna, a Padova, in provincia di Bolzano, a Castelfiorentino”, racconta ancora Stefania, che per il 25 novembre lancia un triplo appello: “Al mio pubblico dico che bisogna crederci, anche se siamo un po’ scoraggiati dalla situazione politica. Dobbiamo sostenerci e non dividerci, capire cosa va scardinato. Alla politica- continua- chiedo un punto fermo sull’alienazione genitoriale. Va rivista la legge 54 sulla bigenitorialità perfetta che perfetta non è, e nei casi di violenza non può esserlo. Stanno avvenendo aberrazioni: bambini tolti a mamme che hanno già subito violenza e che poi sono costrette a subire un ricatto istituzionale, attraverso un costrutto ascientifico. È un crimine di Stato”.

E alle donne che vogliono uscire dalla violenza dice: “Quello che vi succede non succede solo a voi, non è colpa vostra. Ho qualche problema a dirvi di denunciare, perché non basta. Non affrontate tutto da sole, soprattutto quando ci sono i figli. La chiave è raccontarsi ad altre donne e, prima di denunciare, cercare una rete di sostegno”.
https://www.dire.it/25-11-2019/394716-anarkikka-la-violenza-sulle-donne-e-un-sistema-di-potere-nelle-relazioni/?fbclid=IwAR1K4iR2j7oi1DoIgWdnFEIdprwO3dL4WVjaTp5EkN56dAQ2RtoHEqUqpyk

domenica 1 dicembre 2019

Maschilismo dei giorni nostri: due ragazzine su tre subiscono scenate di gelosia dai loro fidanzatini Indagine Skuola.net-Osservatorio Nazionale Adolescenza. 1 su 3, dopo essere stata picchiata, dice di aver perdonato il partner, fidandosi delle sue parole

Quasi due ragazze su 10 ritengono che il proprio fidanzato sia eccessivamente possessivo e al 66% è capitato di subire una scenata di gelosia, spesso per futili motivi. Pochissimi, per fortuna, i casi di violenza. Ma, quando succede, anche le giovani donne tendono a perdonare. Sono questi i principali risultati di un’approfondita indagine di Skuola.net e Osservatorio Nazionale Adolescenza - in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri - nell’ambito del progetto “Don’t slap me now”.
Sono state oltre 7.500 le ragazze tra i 14 e i 20 anni intervistate per delineare i contorni del fenomeno tra le giovani donne. Sono proprio loro, infatti, ad essere spesso ‘vittime’ del partner. Circa 2 su 3, ad esempio, hanno subìto scenate di gelosia (quasi sempre senza motivo). E 1 su 10 ha confessato di aver paura delle reazioni del fidanzato. Ma questi sono soltanto alcuni dei dati che verranno presentati il 25 novembre a Binario F, il Centro per le competenze digitali allestito da Facebook a Roma.


Il morbo della gelosia e della volontà di possesso è molto più articolato e diffuso di quanto ci si possa aspettare, anche tra chi si approccia solo ora al sentimento per eccellenza: l’amore. Quasi 2 ragazze su 10, tra quelle raggiunte dalla ricerca, ritengono che il proprio fidanzato sia eccessivamente geloso. Una condizione che, lasciata ‘lavorare’ sottotraccia, in poco tempo potrebbe sfociare in una vera e propria ossessione. E così puntualmente avviene: al 66% delle ragazze è capitato almeno una volta di aver subito una scenata di gelosia (ciò vuol dire che molte non valutano esagerate queste manifestazioni); al 14% di essere stata addirittura offesa pesantemente; in molti casi (38%) anche di fronte agli altri. Con un’aggravante: il 50% dichiara che lo sfogo è avvenuto per motivi giudicati banali o futili. Già questo sarebbe sufficiente per alzare il livello di guardia. Ma il dato più preoccupante è che, dalle parole ai fatti, il passo è breve.
Per fortuna i casi di violenza fisica (almeno quelli riportati) messi in atto dai giovani partner sono molto limitati: si tratta comunque di 4 ragazze su cento, numeri che in questa fascia di età sono estremamente gravi. Ma sono molte di più le ragazze che vivono nella paura che possa capitare anche a loro: più di 1 ragazza su 10 dice di temere che il fidanzato, quando si arrabbia, prima o poi vada oltre. Paura che va ad intaccare il benessere psico-fisico diventando, di fatto, già una forma di violenza. E qui la copertura del campione è quasi totale: il 79% ha dichiarato di essersi, almeno una volta, limitata proprio per timore delle reazioni che avrebbe potuto avere il partner.
Nonostante ciò, così come avviene tra gli adulti, pure le adolescenti tendono a soprassedere quando il partner diventa violento. La chiave per far breccia nel loro cuore è sempre la stessa: il pentimento.


Il 63%, infatti, racconta che il fidanzato, dopo averle picchiate, ha chiesto scusa, ammettendo di aver esagerato e promettendo di non farlo mai più. Di fronte a questo atteggiamento solitamente le vittime finiscono per credere al proprio fidanzato, concedendogli un’altra possibilità: 1 ragazza su 3, infatti, dopo aver subito violenza, dice di aver perdonato il partner, fidandosi delle sue parole. Inoltre, il 75% non ne ha parlato con nessuno. Forse perchè, a livello familiare e sociale, c’è un vuoto comunicativo. Molto potrebbero fare le scuole, peccato che 3 giovani su 4 non abbiano mai affrontato questi argomenti in classe. Ma, trattandosi di nativi digitali, non si può non affrontare l’argomento ‘nuove tecnologie’. Visto che, la brama di controllo di tanti fidanzati, spesso allunga i suoi tentacoli anche nella dimensione digitale di chi gli sta a fianco. Una ‘violenza digitale’ che si manifesta attraverso un’ossessione verso smartphone, social network e chat del partner.


Al 68% delle giovani intervistate, ad esempio, è capitato almeno una volta che il ragazzo pretendesse di leggere le sue conversazioni su WhatsApp; al 37% di dare l’accesso ai propri profili social; mentre il 13% è stata costretta a cancellare alcuni amici dai social network. Tutte forme di cyber-violenza che, sommate alla gelosia e alla possessività, hanno un impatto ulteriormente negativo su benessere, autostima ed emotività delle giovani vittime.
Fenomeni, questi ultimi, che sono relativamente recenti e soggetti ad una continua evoluzione, dettata dai repentini cambiamenti delle piattaforme tecnologiche. Esiste, perciò, un solo antidoto per prevenire le molteplici estreme conseguenze della violenza di genere: la formazione di ragazzi e ragazze, nei luoghi da loro frequentati e con linguaggi che possano comprendere. “Don’t slap me now” ha fatto esattamente questo, toccando diverse scuole d’Italia, con gli esperti dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che si sono confrontati su questi temi direttamente con i ragazzi e arrivando a milioni di giovani grazie ai contenuti digitali informativo-educativi pubblicati sul portale Skuola.net, arricchiti da un video virale realizzato in collaborazione con Valeria Angione, influencer icona per gli studenti.
https://www.globalist.it/news/2019/11/24/maschilismo-dei-giorni-nostri-due-ragazzine-su-tre-subiscono-scenate-di-gelosia-dai-loro-fidanzatini-2049467.html?fbclid=IwAR2MGy2M5BDZoJDQVqJoC9eH2nnMQx3bjrqb69fY1RIM8-vYgO1-Vz_04dQ

4.12.2019 ore 21 La violenza di genere a partire dal nostro territorio

Mercoledì 4.12.2019 alle 21 presso il Bem Viver Cafè vi aspettiamo