venerdì 26 febbraio 2021

Flash mob contro la violenza di genere, “Uomini che amano le donne”

Come uomini, cittadini, milanesi, sabato 27 febbraio, alle ore 11, in Piazza San Fedele, abbiamo promosso un Flash Mob contro la violenza di genere.

Dopo che Milena Gabanelli nei giorni scorsi ha lanciato un tweet nel quale si chiedeva dove fossero gli uomini sul tema della violenza di genere: «Ne ammazzano una al giorno - ha scritto la giornalista - ma io vedo solo donne manifestare, protestare, gridare aiuto. Non ho visto una sola iniziativa organizzata dagli uomini, contro gli uomini che uccidono le loro mogli o fidanzate. Dove siete? Non è cosa da maschi proteggere le donne?» Abbiamo deciso di rispondere, di farci sentire.

Il numero di vittime di violenza di genere in Italia è inaccettabile, un fenomeno che non solo è proseguito ma si è aggravato durante il lockdown. 

Come dice Alessandra Kusterman “la prevenzione reale passa da un diverso atteggiamento culturale, dalla disapprovazione totale della violenza”, noi uomini dobbiamo essere i protagonisti di questo cambiamento, dobbiamo farlo nel privato e dobbiamo farlo pubblicamente.  

Per questo sabato, nel rispetto delle norme per il contenimento della pandemia, ci troveremo per un flash mob in piazza San Fedele nel quale apporremo un fiocco rosso a delle sedie lasciate vuote, con i nomi delle donne vittime di femminicidio da inizio 2021. 

I Consiglieri del Partito Democratico hanno organizzato questa bellissima testimonianza maschile  per far sentire la voce anche degli uomini contro la violenza di genere. Abbiamo bisogno di uomini che prendano posizione ❤

https://www.facebook.com/angela.crisafulli82/posts/3950096558419426




mercoledì 24 febbraio 2021

E SIAMO A 16. IERI DEBORAH E ROSSELLA. IL FEMMINISMO DOVREBBE ESSERE MATERIA SCOLASTICA di Penny

 E SIAMO A 16. IERI DEBORAH E ROSSELLA. IL FEMMINISMO DOVREBBE ESSERE MATERIA SCOLASTICA.

22 febbraio. Trento. Deborah Saltori 42 anni è stata uccisa colpita ripetutamente alla carotide con un’accetta. Un’accetta. L’uomo era il suo ex marito, già agli arresti domiciliari per violenza domestica con la sua precedente compagna, ha poi tentato il suicidio e ora è in gravissime condizioni.

22 febbraio. Ferrara, Bondeno. Rossella Placani, 50 anni. Colpita con un oggetto contundente. Fermato nella notte il compagno, ci sono gravi indizi a suo carico.

Dal 1 gennaio sono state uccise: Maria. Sharon. Maria. Victoria. Roberta. Tiziana. Teodora. Sonia. Ilenia. Teodora. Piera. Luljeta. Antonia. Lidia. Clara.

Ieri, due in un giorno Deborah e Rossella.

Non hanno nulla in comune se non che sono donne e sono state uccise in modi feroci dai loro ex mariti, ex compagni o che stavano per diventarlo.

Lo sgomento non è più all’ordine del giorno, il femminicidio è ormai un fatto quotidiano, l’efferatezza con cui vengono uccise le donne, sotto il silenzio degli uomini che ci governano, pure.

È necessario, ancora di più, battersi affinché il femminismo sia materia d’insegnamento e lasciatemelo dire, non esiste nessun femminismo ideologico ( bella giustificazione), essere donna vuol dire nascere in una situazione di svantaggio e inferiorità.

Il femminismo nasce come movimento per contrastare questo grande svantaggio che porta alcuni uomini a pensare di poter decidere persino della nostra vita.

Perché le donne vengono uccise?

Solitamente, quando le donne mettono in discussione la relazione di potere maschile, vengono ammazzate. Siccome, hanno provato a prendere parola e a sovvertire l’ordine, vengono silenziate per sempre.

Quindi, questo c’entra con tutti quei discorsi cari ad alcuni uomini del nostro Paese che ci ricordano ( vedi Pillon) che siamo solo corpo, verso chi ci spaventa quando vogliamo separarci, e il conseguente ricatto economico ed emotivo sui figli, riguarda il lavoro femminile, riguarda la decisione libera di abortire oppure no, la nostra lotta continua e costante per l’emancipazione.

E, allora, io non mi fermo, a scuola spiego ai mie bambini e alle mie bambine cos’e il femminismo, e i maschi strabuzzano gli occhi e dicono: ah, pensavo fosse il contrario del maschilismo!

E sempre a scuola parliamo dell’amore, di quello che dura per sempre ma anche di quello che può finire, della capacità di esprimere dei sentimenti non solo ad appannaggio del femminile. Parlo ai miei maschi del dolore, della frustrazione e della capacità di superarlo.

Un bambino, durante una lezione di storia, sulle piramide sociale nelle civiltà, in assenza completa delle donne, mi ha chiesto:” Maestra, quando nasce il femminismo?”.

Lo ha capito lui che non c’è niente di ideologico, solo cultura di sottomissione da secoli. Forse, dovrebbe spiegarlo a Recalcati.

Insegniamo a scuola il femminismo, lo ripeto a gran voce, perché con gli uomini di oggi, soprattutto quelli che hanno diritto di parola, le donne continuano a morire, i femminicida a procedere indisturbati.

Mi sa che i bambini e le bambini, così come i ragazzi e le ragazze, sono la nostra ultima e unica speranza.

https://sosdonne.com/2021/02/23/e-siamo-a-16-ieri-deborah-e-rossella-il-femminismo-dovrebbe-essere-materia-scolastica/?fbclid=IwAR1OxqIsd0VySxt5XHvVXxjzBh96LPRMsMuIll0O5q0oIIp62BCX8MNtym4




martedì 23 febbraio 2021

Giorgia Meloni, la solidarietà è il segno distintivo del femminismo Monica Lanfranco

C’è chi ha detto che gli insulti tipici della mentalità misogina (diffusissima e radicata in ogni ambiente) rivolti dal docente toscano alla segretaria di Fratelli D’Italia Giorgia Meloni sono stati un grande regalo all’esponente della destra.

Penso che, al netto delle imprescindibili scuse e dell’allontanamento del docente da un ruolo incompatibile con il suo comportamento e il suo pensiero sulle donne, l’occasione sia importante per focalizzare alcuni temi fondanti della nostra fragile democrazia: le origini, condivise trasversalmente a destra come a sinistra, della miseria simbolica di una grande parte del mondo maschile; la necessità di non arretrare nel lavoro di educazione contro il sessismo sin dall’asilo e la continuazione del dibattito sulla differenza sessuale nello spazio pubblico; la centralità e attualità di quella che, nel 1971, Kate Millet chiamava la politica del sesso.

Come ha detto recentemente la magistrata Paola Di Nicola nel ritratto fatto dalla Rai di Tina Lagostena Bassi, abbiamo a che fare con una civiltà umana che, sin dagli albori, si basa sul patto tra maschi (anche avversari), che usano le donne come merce di scambio: per la coesione tra gruppi di potere, per sancire tregue e stringere alleanze, a cominciare dalla famiglia via via verso la politica.

Nel 2007, a Parigi, a usare la parola ‘salope’, (una variante di putain, puttana, ma lievemente più forbita) fu Patrick Devedjian, segretario del partito di Nicolas Sarkozy, che si stava compiacendo con il parlamentare Michel Havard per aver battuto Anne-Marie Comparini, ex deputata dell’Udf, il partito centrista di Francois Bayrou. Il video li ritrae tronfi, gran pacche sulle spalle, quel tipico atteggiamento fisico dei maschi che indicano con un linguaggio del corpo, prima ancora che con le parole, che sono consapevoli del dominio che posseggono e che esercitano legittimamente: a scelta, e tutti insieme, Dio, la Patria e l’essere possessori di un pene li rende ciò che sono.

Una scritta recente sul muro dell’Università di Genova riportava il sintetico ‘Monti boia Fornero troia’, dove si evince che solo il maschio è degno di critica politica, mentre la femmina no. Con buona pace di chi sente di non poter, o dover, mostrarsi solidale con Giorgia Meloni, il punto non è la solidarietà – che pure, ne sono convinta, è il segno distintivo rivoluzionario del femminismo, perché rompe gli steccati patriarcali e pone le basi della sua politica prima nel riconoscimento dell’altra, anche laddove l’altra si avversaria. Il punto è che, per una enorme parte di uomini, di qualunque ceto sociale, estrazione culturale e latitudine, siamo tutte, tutte, tutte e nessuna esclusa (neanche la mamma o la sorella) assimilabili alla categoria salope, a voi la scelta della sfumatura lessicale.

Lidia Menapace raccontava spesso le sue discussioni alle infuocate assemblee femministe del Governo Vecchio con quante volevano escludere ‘le borghesi’; lei rammentava alle più riottose che, come dice Marx, l’operaio è sfruttato dal padrone, ma la moglie dell’operaio è l’ultima nella catena dell’inferno dello sfruttamento. Sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e dell’uomo sulla donna.

Dal bar alla tv passando per la palestra, i giornali o la chat per rimettere al suo posto una donna (vuoi in cucina o nella stanza da letto), a qualunque status sociale appartenga, è sufficiente fare riferimento alla sua sessualità, che come ben sappiamo per le donne è connessa con la reputazione, con l’onore (della sua famiglia o clan) e con la modestia che mostra nello spazio pubblico e privato, come bene ha ricordato Paola Cortellesi in un famoso monologo.

Chi tocca una tocca tutte, slogan coniato agli albori dal movimento degli anni ’70 e ripreso oggi dalle nuove generazioni femministe nelle tragiche occasioni in cui si fa la conta delle morti ammazzate dai compagni, è la sintesi plastica di ciò che distingue il sesso femminile da quello maschile. Le donne non sono tutte uguali, ma se le donne non sono tutte e decisamente unite nella denuncia della violenza misogina (non importa da chi è rivolta verso chi), il grande favore lo facciamo al patriarcato (di destra e di sinistra) e alle agenzie che lavorano per l’erosione dei fragili diritti di cittadinanza sessuata costruiti dalle attiviste che ci hanno precedute nei decenni del secolo scorso.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/22/giorgia-meloni-la-solidarieta-e-il-segno-distintivo-del-femminismo/6109700/?fbclid=IwAR39Mtm_Eou9sRklgXuVVt6_L5o-Zr0jU7O0kZpqguRXrJpiS7NySCeIdJM

lunedì 22 febbraio 2021

Emancipare le donne dal lavoro di cura.di Maria Rosaria Ayroldi

Il concetto di cura nelle sue varie declinazioni è stato oggetto di studi filosofici e sociologici. Tra le studiose femministe più prolifiche, impegnate a rivendicare il valore della cura in ambito sia etico che politico.

“Il bisogno di cura, la dipendenza dagli altri in particolari fasi della vita, come l’infanzia, la vecchiaia, la malattia, sono elementi costitutivi dell’esperienza umana, eppure non hanno mai avuto la centralità che meritano, sia per l’etica pubblica sia per la teoria politica. Su una svalutazione altrimenti inspiegabile, ha certamente avuto un peso non indifferente il dominio di un sesso che ha riservato a sé la sfera pubblica, lasciando alla donna la funzione di continuatrice della specie, identificata come tale col corpo e le sue traversie, madre sempre e comunque anche se non ha generato.”

Questo scriveva Lea Melandri nel 2019

Il concetto di cura nelle sue varie declinazioni è stato oggetto di studi filosofici e sociologici. Tra le studiose femministe più prolifiche, impegnate a rivendicare il valore della cura in ambito sia etico che politico, Carol Gilligan e Joan Tronto.

Carol Gilligan, psicologa statunitense e studiosa di etica, ha inaugurato un filone di studi di estrema rilevanza che l’ha portata ad elaborare la teoria dell’”etica della cura”. Il 1982 nella sua opera In a different voice Carol Gilligan scrive: “Le donne, dunque, non solo si definiscono nel contesto dei rapporti umani, ma si giudicano, anche, in base alla propria capacità di prendersi cura delle cose e delle persone“.

La sua teoria è stata oggetto di critiche da parte delle femministe che ritenevano che “l’etica della cura” perpetuasse lo stereotipo della donna legata al lavoro di cura. Certamente, nella riflessione di Carol Gilligan, c’è il rischio di riproporre il nesso immediato tra la cura e le donne a confermare l’immagine tradizionale delle donne a lungo confinate ad un ruolo subalterno. Lei stessa, però, si preoccupa di liberare il concetto di cura da ogni dimensione sacrificale e oblativa, introducendo il momento della scelta autonoma e consapevole.

Ma è stata soprattutto Joan Tronto, esperta in studi di genere e femminismo, a estendere ad una dimensione davvero globale i confini dell’etica della cura. La politologa osserva che nella società contemporanea le attività di cura non sono più soddisfatte solo nella sfera domestica, come lavoro non pagato, ma anche in quella pubblica, sia dal mercato, coi servizi di colf, badanti e immigrati, sia dallo Stato, che offre sostegno a famiglie e lavoratori. Tuttavia la svalutazione economica e culturale di queste attività e di chi le svolge perpetua le disuguaglianze sociali: la maggior parte del lavoro di cura è delegato a donne, minoranze e classi inferiori, consentendo ad altri, soprattutto maschi o donne di classi medio-alte, di dedicarsi al lavoro professionale, produttivo, meglio retribuito e più ambito. Resta un privilegio di pochi avere il tempo da dedicare agli interessi personali, coltivando l’immagine e la crescita di sé come persone autonome e indipendenti. Il lavoro di cura corrisponde ad una cittadinanza parziale, mentre il lavoro pagato fonda una cittadinanza piena e un’effettiva partecipazione alla vita pubblica.

La pandemia ha rimesso al centro del vivere quotidiano il bisogno dell’altro/a tanto da essere, il tema del ‘prendersi cura‘, il filo conduttore del Festival di Bioetica che si è tenuto a Santa Margherita Ligure nell’agosto 2020, “da intendersi come cura di sé, degli altri e del mondo di importanza centrale nella nostra vita individuale e collettiva ma che troppo spesso è stata svalutata e considerata marginale, se non secondaria.”

Nel nostro Paese, si deve ancora superare una radicata, pervicace arretratezza culturale in cui il modello ricorrente e convenzionale è che il lavoro di cura sia di “competenza” pressoché esclusiva del mondo femminile. Infatti, quando si parla di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro si fa sostanzialmente riferimento agli equilibrismi che una donna è costretta a compiere per incastrare nella sua vita quotidiana il lavoro fuori casa con tutti gli impegni e le responsabilità legate alla cura domestica, alla cura dei figli e dei suoi famigliari, prevalentemente genitori anziani o soggetti vulnerabili.

Sto parlando, in questo caso, non solo delle donne “in carriera” ma soprattutto di quelle occupate in lavori di basso profilo gravosi e/o usuranti che si sommano al lavoro di cura domestico e di accudimento. In Italia il 75% del lavoro domestico gratuito, dalle pulizie all’andare a prendere i figli a scuola, è svolto prevalentemente dalle donne. 315 minuti al giorno contro i 104 degli uomini. In Francia, Spagna, Germania il lavoro casalingo è diviso in più equo e la percentuale svolta dalle donne è del 62% in Francia e Germania, del 62,5% in Spagna.

Abbiamo accolto tutte con entusiasmo il passaggio del Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi, nel suo discorso in Senato per il primo voto di fiducia del nuovo governo, “la mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne”.

Parità di genere, riduzione del divario salariale, genitorialità e welfare sono i temi che riguardano il ruolo delle donne nell’agenda politica dell’esecutivo.

Sarà molto difficile raggiungere l’obiettivo se gli ultimi dati Istat riportano il dato che oltre il 70% del lavoro familiare è a carico della donna; un dato, che si aggiunge a quelli drammatici sull’occupazione femminile in Italia che era già tra le più basse dell’Europa (46% vs una media europea del 60%).

I dati pubblicati dall’ISTAT nel solo mese di dicembre registrano una flessione dei posti di lavoro dello 0,4% rispetto a novembre, 101 mila occupati in meno. Di quei 101 mila 99 mila sono donne (il 98%) e 2 mila gli uomini. Su base annua sono stati persi 444 mila posti di lavoro e 312 mila nuove disoccupate sono donne.

Il passaggio che il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dedicato alla parità di genere nel mondo del lavoro è interessante:

«L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro».

Come non essere d’accordo, posto che le “farisaiche quote rosa” sono misure transitorie e che in alcuni contesti e nonostante le normative, vengono comunque disattese (vedi l’esempio della Puglia di Michele Emiliano).

C’è da augurarsi che tenga fede a quanto dichiarato rispetto al piano di riforme previste dalla Nex Generation UE: “Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza.”

Dunque tornando al discorso della cura è noto che il sistema di welfare italiano ha un impianto “fortemente familistico”, che tuttora delega alle famiglie la responsabilità di cura sia dei soggetti disabili, sia dei bambini che degli anziani in condizione di dipendenza.

E fin qui, niente di nuovo sotto il sole. Cosa fare per superare questo dilemma sociale, politico ed economico.

Ladynomics, un sito di ricercatrici di economia e di politiche di genere, nel testo per l’audizione alla Camera dei Deputati sul PNRR Next generation indica, tra le proposte di investimento per le donne, quelle in infrastrutture sociali, in servizi per la conciliazione, servizi sociali, istruzione.

Certamente non l’unico ma, a mio parere, uno snodo fondamentale sono le infrastrutture sociali i cui costi, che ad oggi vengono annoverati nella “spesa corrente”, potrebbero diventare investimento strutturale produttivo.

Destinare risorse alla cura all’infanzia, aumentare il numero degli asili nido, riducendone o addirittura azzerando la retta dell’asilo nido determinerebbe una maggiore disponibilità economica a disposizione dei genitori, dunque più possibilità di spesa.

Non solo, una maggiore occupazione, prevalentemente femminile nel settore dell’infanzia, avrebbe anche una ripercussione intergenerazionale: avere o aver avuto una madre che lavora è il miglior predittore per una donna. Ai benefici dal lato dell’occupazione e della crescita economica si sommano benefici per i bambini dal momento che sembrerebbe che tra i bambini che frequentano il nido, si rileva un maggiore livello cognitivo e di socializzazione futuro.

Pensare a piccoli impianti sportivi di prossimità, nei quartieri, rendendoli disponibili gratuitamente per le attività sportive extracurriculari, forse allontanerebbe i bambini e i ragazzi non solo dalla strada ma probabilmente anche da tv, computer, cellulari e videogiochi, i cui danni sono a tutti noti, oltre a rendere efficace il concetto di equità.

L’ideale sarebbe che le scuole secondarie di primo e secondo grado, frequentate da adolescenti, diventino attrattive trasformandole, sul modello di alcuni Paesi scandinavi, in civic center aperti tutto il giorno, offrendo oltre a un luogo di aggregazione più sano e controllato, diverse attività e sollevando le madri, e qualche volta i padri, dal faticoso compito di trasformarsi in autiste/accompagnatrici verso le attività extrascolastiche, sottraendo tempo a se stesse.

Più asili nido, più strutture sportive, edilizia scolastica, investimenti per rendere le più scuole più sicure, accoglienti, adeguate alle più recenti concezioni della didattica genererebbero una maggiore occupazione in termini di insegnanti, operatori scolastici, addetti dei servizi esternalizzati, personale del settore edile, innestando un circolo virtuoso di maggiore occupazione e consentirebbe alle donne che lavorano un maggior respiro e serenità.

Anche la cura e l’assistenza alle persone anziane e disabili è una fetta di welfare che merita attenzione e competenza poiché sono una componente del lavoro di cura almeno altrettanto importante di quella destinata all’infanzia.

Nel 2017 una ricerca dell’Auser-Cgil denunciava la generale scarsità delle strutture residenziali per gli anziani non autosufficienti e le profonde differenze territoriali. Una provincia come Trento disponeva da sola di un numero di posti in strutture residenziali maggiore di quello di una regione come il Lazio, dove vive una popolazione 10 volte superiore. Dunque necessitano investimenti anche in questo settore che sta diventando strategico, visto l’invecchiamento della popolazione.

Secondo dati pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità, negli ultimi 50 anni l’invecchiamento della popolazione italiana è stato uno dei più rapidi tra i Paesi maggiormente sviluppati e si stima che nel 2050 la quota di ultra65enni ammonterà al 35,9% della popolazione totale, con un’attesa di vita media pari a 82,5 anni (79,5 per gli uomini e 85,6 per le donne)

Il numero molto alto di decessi nelle Rsa, a causa del Coronavirus, ha fortemente incrinato la fiducia nella formula “residenzialità” e ha alimentato la ricerca di soluzioni alternative a favore della deistituzionalizzazione e di una personalizzazione degli interventi a domicilio per i soggetti vulnerabili, disabili, persone anziane non autosufficienti, minori affetti da dipendenze, ecc.

Che si vada in questa direzione lo si intravede nelle dichiarazioni di autorevoli, esponenti del mondo cattolico, come mons. Vincenzo Paglia, che non vede nel ritorno alla famiglia un “rischio”, ma una grande opportunità.

Il ministro Roberto Speranza, confermato da Draghi al Ministero della Salute, nel precedente governo Conte II ha istituito con Decreto una Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana.

A presiederla è stato chiamato Mons. Vincenzo Paglia Gran cancelliere del Pontificio Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e ne fanno parte personalità del mondo scientifico e sociale.

Ritenuto necessario ripensare in toto un modello assistenziale rivolto alla popolazione anziana in grado di articolare un continuum di servizi in setting diversi, primariamente presso le dimore degli assistiti, nel loro habitat, nel tessuto familiare e sociale, la mission della commissione sarebbe quella di coordinare l’attività del Ministero in relazione all’assistenza della popolazione anziana con riferimento, in particolare, all’assistenza domiciliare.

Sorprende che, in uno Stato laico, si sia chiamato un uomo, un prelato, a presiedere una commissione che deve pensare ad un nuovo modello di assistenza sanitaria e sociale che dovrebbe aiutare gli anziani a vivere nelle loro case, nel loro habitat, con le loro famiglie.

Ora, visto che tutti stanno guardando alle risorse del Recovery plan, mi chiedo, ma in tutto l’apparato del Ministero della Salute e del mondo scientifico nonché tra gli esperti di economia e statistica sanitaria davvero non si sono trovate persone, magari donne, all’altezza di questo compito così delicato?

L’idea di riportare gli anziani non autosufficienti nell’ambito familiare la si trova anche nella mozione approvata all’unanimità dal Consiglio regionale del Lazio su proposta del consigliere Paolo Ciani, vicepresidente della commissione Sanità e Affari sociali ed esponente della Comunità di Sant’Egidio che propone di superare il modello di assistenza incentrato su Rsa e case di riposo e investire su nuovi modelli assistenziali per gli anziani, volti a coniugare il vivere in casa con una intensità di cura flessibile.

“Innanzitutto innovando in profondità l’assistenza agli anziani, costruire alternative all’istituzionalizzazione e tenere i nostri cari a casa. L’intento è favorire una molteplicità di soluzioni abitative – dimora naturale, housing sociale pubblico o privato, residenzialità leggera, cohousing pubblico o privato, condomini protetti, case famiglia, microaree – e portare le cure sanitarie a domicilio. Questo permetterà una migliore qualità della vita, riducendo i costi per le amministrazioni pubbliche.”

La mia paura è che si incrocino in un loop negativo la flessione dei posti di lavoro delle donne, con l’idea di riportare anziani non autosufficienti nell’alveo familiare, pur con la garanzia di servizi di supporto.

Il rischio insito nella deistituzionalizzazione è ovviamente quello di trasferire il carico assistenziale alle famiglie e più precisamente alle donne, all’interno delle famiglie, la qualcosa potrebbe trasformarsi in un boomerang specie per le donne con lavori precari o sottopagati.

In passato si sono visti programmi di riorganizzazione in funzione di contenimenti della spesa sanitaria, come la chiusura di piccoli ospedali, senza preventivamente potenziare la rete di servizi territoriali e renderla più appropriata e coerente ai bisogni della comunità e per i quali invece l’Ospedale era funzionale.

Per la verità qui si tratta di spenderli, i soldi;

Le Rsa dovrebbero, invece, essere ripensate come un nodo della rete sociosanitaria, potenziando il numero delle pubbliche e di quelle private in grado di offrire elevati standard qualitativi, (da monitorare sia al momento dell’accreditamento sia successivamente con controlli random diluiti nel tempo) soprattutto per pazienti disabili e non autosufficienti e di programmare un modello socio sanitario che sappia offrire l’intero spettro dei servizi, da quelli di rete e prossimità, di lotta alla solitudine e di prevenzione, a interventi domiciliari di sostegno sociale e sanitario continuativo, alla semiresidenzialità in centri diurni.

Anche in questo caso si prefigurerebbero investimenti in edilizia sanitaria, personale sociosanitario e servizi esternalizzati, innestando un circolo virtuoso di maggiore occupazione in settori dove la presenza femminile supera il 70%.

Nella nuova compagine governativa, guidata da Draghi, compare il Ministero della Disabilità.

La pandemia e il lockdown hanno creato non pochi problemi anche per i caregiver, prevalentemente donne, aumentando il carico del lavoro di cura e di assistenza dei disabili a causa anche della sospensione e la riduzione dell’aiuto di badanti o assistenti domiciliari. In aggiunta, le caregiver si sono ritrovate a dover gestire, altre problematiche come la convivenza forzata con altri familiari, magari in spazi ristretti, e la presenza dei figli a casa per la chiusura delle scuole.

C’è da augurarsi che, ora che esiste il dicastero della disabilità, le tre proposte (due presentate al Senato e una alla Camera), per il riconoscimento del Caregiver familiare abbiano un iter più rapido.

Personalmente trovo che quello della disabilità è un settore molto delicato le cui esigenze di programmazione e allocazione di risorse si intrecciano con quelle dei Ministeri dell’Istruzione, Lavoro e politiche sociali, Salute, Politiche giovanili, Infrastrutture e trasporti, Pari opportunità e famiglia e anche lo Sport il cui Ministero è stato soppresso e la delega è nelle mani del Presidente Draghi.

Probabilmente, ma è il mio personale parere, piuttosto che un dicastero dedicato, senza portafoglio, avrei visto più utile una Struttura di missione per le politiche in favore delle persone con disabilità all’interno di ciascun Ministero e un tavolo tecnico interministeriale che facesse da collettore delle istanze delle famiglie e delle associazioni per pianificare politiche inclusive e interventi che vadano incontro ai bisogni delle famiglie, ma soprattutto delle donne che spesso sono costrette a lasciare il lavoro per dedicarsi a un congiunto con disabilità oppure ad un genitore anziano e malato.

Nel 2008, nel mentre il Presidente Draghi ricopriva la carica di Governatore (dal 29 dicembre 2005 al 31 ottobre 2011), la Banca d’Italia così si esprimeva: Ogni 100 posti di lavoro creati per le donne se ne creano in realtà 115, grazie alla esternalizzazione del lavoro di cura (Banca d’Italia, 2008). Attualmente alcune stime indicano che per ogni 10 donne che entrano nel mondo del lavoro vengono creati altri 3 posti di lavoro, soprattutto nel settore della cura a bambini e anziani, nelle pulizie domestiche, e nei servizi alla famiglia in generale (ripreso da Alleyoop il sole24ore)

Non è un caso, infatti, che ancora oggi i paesi europei a più elevato tasso di occupazione femminile siano anche i paesi che spendono maggiormente nel welfare e, dove le donne lavorano di più e possono contare su una rete di servizi di cura, i tassi di natalità crescono.

La Commissione Europea ha confermato che la parità di genere è uno dei i criteri con cui giudicherà i piani nazionali Next Generation EU, che dovranno anche indicare le debolezze nazionali esistenti in proposito, l’aggravamento a causa della crisi e gli strumenti per affrontare il problema nei vari capitoli di investimento.

Certamente, quando è stato stilato il programma di Azione per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritto nel 2015 dai Governi dei 193 Paesi membri dell’ONU, non c’era nessuna Pandemia da Covid19 a preoccupare i Paesi aderenti. Tuttavia l’Italia, tra i paesi firmatari, si è impegnata a raggiungere entro il 2030 l’obiettivo n.5 ( sono in tutto 17): Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze.

Ce la faremo? Staremo a vedere cosa prevederà la versione definitiva del Recovery Plan che l’attuale governo sta preparando. Chiudo con uno stralcio contenuto nel messaggio di auguri di fine anno di Susanna Camusso: “senza le donne, continuando ad escluderle e a marginalizzarle non c’è cambio di paradigma… perché mancherebbe quello sguardo e soprattutto quei saperi che leggono il bisogno di cura, che sanno declinare l’economia della cura.”.

https://www.dols.it/2021/02/20/emancipare-le-donne-dal-lavoro-di-cura/?fbclid=IwAR0rg5OxC2MtTJC7VJRL5ODf_zodgMlnnKHeAQo2CN8CTcEsDEjD7WIPN1s



venerdì 19 febbraio 2021

L’arancia va in passerella con Orange Fiber, la startup siciliana al femminile che produce tessuti con gli scarti di agrumi Daniela Uva

Bucce, semi e foglie di arance trasformate in tessuti preziosi. Scelti da brand come Ferragamo e Marinella per arricchire le proprie collezioni. E’ la sfida vinta da due giovani imprenditrici siciliane, fondatrici di Orange Fiber. L’azienda, con sede a Catania, ha depositato un brevetto in grado recuperare gli scarti della spremitura degli agrumi e di farli diventare una fibra simile al cotone.

L’idea è diventata realtà del 2014 grazie all’intraprendenza di Adriana Santanocito ed Enrica Arena. La prima, specializzata in moda, ha avuto l’intuizione che poi ha condiviso con la socia, esperta in comunicazione. Da quel momento il sogno di portare le arance siciliane in passerella è diventato sempre più concreto.

“Siamo partite nel 2012 grazie a una collaborazione con il Politecnico di Milano che ci ha permesso di sviluppare un innovativo processo per creare un tessuto utilizzando le oltre 700mila tonnellate di sottoprodotto che l’industria di trasformazione agrumicola produce ogni anno in Italia e che altrimenti andrebbero smaltite – racconta Enrica Arena -. Nel 2013 abbiamo depositato il brevetto in Italia e poi nel 2014 lo abbiamo esteso a Brasile, Stati Uniti, Messico, India e alcuni Paesi dell’Unione europea”.

L’idea è nata a Milano, dove Adriana e Enrica condividevano una casa per completare gli studi. Ma si è concretizzata a Catania, dove è appena stato inaugurato il nuovo stabilimento.

“L’idea ci è venuta a ridosso di Expo, quando stava crescendo l’attenzione intorno al cibo e alla sostenibilità – prosegue la cofondatrice -. Avevo appena finito un master in comunicazione e ho condiviso subito l’entusiasmo della mia socia. Con il tempo i nostri ruoli si sono definiti e sono entrati nuovi investitori”.

Che hanno portato Orange Fiber ad avere tre dipendenti, un collaboratore esterno e numerosi consulenti.

Oltre ai due soci lavoratori.

“Grazie al nostro brevetto recuperiamo tonnellate di scarti della spremitura industriale delle arance che altrimenti andrebbero persi – dice -. Siamo in grado di estrarre una materia prima simile alla cellulosa, dalla quale mettiamo a punto una fibra che può essere filata”.

La cellulosa viene estratta nello stabilimento di Catania. Successivamente viene inviata ai partner presenti in Nord Europa, che la trasformano in fibra.

“A quel punto il materiale rientra in Italia, per essere filato – prosegue Arena -. Il prodotto finale è il tessuto che viene venduto alle aziende di moda”.

Nella perfetta logica dell’economia circolare. Anche per questo la storia di Orange Fiber è stata raccontata nel volume “Tutto ruota”. E testimonia quanto la moda sia sempre più attenta al tema della sostenibilità.

Ora leggi: “Non è un caso che nel 2017 Ferragamo abbia scelto la nostra fibra per realizzare una collezione esclusiva che è stata venduta nei loro negozi monomarca selezionati – dice Arena -. La presentazione è avvenuta il 22 aprile, in occasione della Giornata mondiale della Terra. Nell’occasione il designer Mario Trimarchi ha disegnato le stampe usate sul nostro tessuto”.

Il secondo passo è stata la partnership con H&M.

“Nel 2019 con la nostra fibra è stato realizzato un top in edizione limitata, che è andato sold out in un’ora – conferma Enrica Arena -. Lo stesso anno abbiamo avviato un progetto con Marinella per la creazione di una linea di cravatte che arriverà a breve”.

Del resto, la moda è considerata una delle filiere più inquinanti al mondo. Il dieci per cento dei danni creati all’ambiente dall’industria è causato proprio da questo comparto. Che però adesso cerca di mettersi al passo con altri settori, nel segno della sostenibilità.

“Noi, così come altre startup simili alla nostra, offriamo una soluzione. Perché la nostra fibra nasce da rifiuti che diversamente dovrebbero essere smaltiti – spiega Arena -. Il primo anno abbiamo prodotto due tonnellate di fibra, nel 2019 abbiamo lanciato una campagna di equity crowdfunfing che ci ha permesso di ottenere finanziamenti indispensabili per arrivare a 15 tonnellate. L’obiettivo adesso è raggiungere quota 60”.

Ma non finisce qui, perché Orange Fiber vuole continuare a crescere:“In estate presenteremo la fibra creata nel nuovo impianto di Catania, inoltre annunceremo collaborazioni con diversi brand, ancora top secret – conclude Arena -. La sostenibilità interessa sempre di più la moda. Startup come la nostra rispondono a questa nuova esigenza”. 

https://it.businessinsider.com/larancia-va-in-passerella-con-orange-fiber-la-startup-siciliana-al-femminile-che-produce-tessuti-con-gli-scarti-di-agrumi/?fbclid=IwAR1rbfmbhXuyuvKg6kpiNMuDL_GOAKqCHiShr9QQPDKdnYX8M6Ru5B2ciow






giovedì 18 febbraio 2021

La crisi climatica aumenta la violenza di genere di Federica Gentile

 Motivo 19355965969797 per occuparsi della crisi climatica al di là del fatto che ci piacerebbe sopravvivere come razza umana: gli effetti negativi della crisi climatica sulla violenza di genere, ed in particolare della violenza contro le donne, come ha osservato il rapporto “Gender-based violence and environment linkages” dell’International Union for Conservation of Nature (IUN).

Infatti, in contesti caratterizzati da scarsità di risorse e disugualianza nella distribuzione del potere tra uomini e donne, da un lato cresce lo stress delle persone, cosa che potenzialmente può portare a comportamenti violenti, e dall’altro ci sono maggiori opportunità, per chi detiene il potere sulle risorse naturali – gli uomini – di far leva sul controllo di risorse naturali per abusare delle donne. Come riporta la CNN, uno dei casi è quello in cui sesso viene scambiato con cibo, come avviene in alcune aree dell’Africa Orientale in cui non viene venduto il pesce a donne che si rifiutano di fare sesso con i venditori.

Non solo: le donne possiedono solo il 20% della terra a livello mondiale e però sono coloro che sono responsabili di gran parte del lavoro agricolo necessario al sostentamento familiare, mentre gli uomini tradizionalmente tendono a coltivare prodotti da vendere sul mercato. Come conseguenza di raccolti più scarsi dovuti al riscaldamento globale, in Uganda i contadini fanno pressioni sulle donne affinchè cedano loro parte del raccolto per il sostentamento familiare, creando un’opportunità per maggiori abusi. Questo avviene in un paese in cui il divario di genere per quanto riguarda i diritti di proprietà sulla terra è molto alto: la percentuale di uomini che possiedono terra è maggiore di 21 punti percentuali rispetto a quella delle donne. Il rapporto ha anche documentato casi di violenza domestica contro le contadine che volevano invece avere accesso ai mercati locali per vendere la loro merce.

Godere di diritti di proprietà sulla terra per le donne è fondamentale, in quanto potrebbe diminuire il rischio di violenza domestica, permettendo a molte donne di lasciare chi abusa di loro, essendo economicamente più indipendenti. Purtroppo sono stati documentati anche abusi da parte di funzionari che hanno richiesto favori sessuali per assicurare alle donne i loro diritti di proprietà.

La crisi climatica costituisce anche un ulteriore rischio di violenza per le attiviste: da un lato il rischio di violenza rende più difficile far parte o essere a capo di organizzazioni che lavorano sul tema, e come afferma il rapporto :“La violenza di genere viene usata per perpetuare la disuguaglianza di genere, e, a volte, per scoraggiare violentemente o zittire le donne che reclamano i propri diritti e che vogliono lavorare per un ambiente sano e sicuro”. Di conseguenza, continua il rapporto, la violenza di genere contro le attiviste sta aumentando, sia nella sfera privata che in quella pubblica.

Insomma, lo ripetiamo: il riscaldamento globale è LA grande sfida dei nostri tempi; la crisi climatica influisce su tutta una serie di crisi a livello sociale, tra qui l’epidemia di violenza contro le donne, che al momento attuale colpisce circa il 35% delle donne al mondo.

Fonte: “Gender-based violence and environment linkages” (IUN).

https://www.ladynomics.it/crisi-climatica-e-violenza-di-genere/?fbclid=IwAR20lQfAHKDJhc80RptQqKTLWA01ZYsE137EvPPeje6ABkFGKb3bRyH9T4o







3 panchine rosse simbolo del nostro NO alla violenza sulle donne

Ecco le 3 panchine rosse
grazie al ComTeatro, alla Speranza, a chi ci ha aiutato a dipingerle e a chi ha presenziato all'inaugurazione 
Ora cerchiamo tutte e tutti di curarle e proteggerle



piazza Europa

                                                                        parco Giorgella



                                                                      via Cavour

venerdì 12 febbraio 2021

“SPOSATI E SII SOTTOMESSA”

Oggi veniamo a sapere, dalle colonne dei principali quotidiani, che palpeggiare sul luogo di lavoro le parti intime di colleghe non consenzienti, non costituisce reato.

A stabilirlo è stata la sentenza del Tribunale di Palermo, che ha assolto il 65enne Domenico Lipari, impiegato all'Agenzia dell'Entrate, denunciato da due colleghe per, appunto, palpeggiamenti e molestie. Assolto non per non aver commesso il fatto (Lipari ha sempre confermato di aver palpeggiato le due donne), ma proprio perché “il fatto non costituisce reato”. Motivazione della sentenza: “il gesto è da ritenersi come inopportuno e immaturo atteggiamento di scherzo”.

No, non ho fatto alcun errore di battitura, è andata proprio così: il Tribunale ha ritenuto un 65enne “immaturo”.

Contemporaneamente, a Latina, una donna di 42anni è stata denunciata dal marito e rinviata a giudizio per “maltrattamenti in famiglia”. Nello specifico, i maltrattamenti consisterebbero nel fatto che la donna “non effettuava con regolarità le pulizie di casa” e “non preparava la cena al marito”. Il processo, in questo caso, deve ancora iniziare, ma dal rinvio a giudizio veniamo a sapere che una donna può finire in tribunale – e rischiare una condanna da due a sei anni – se non prepara manicaretti al consorte e non gli fa trovare ogni giorno la casa linda e splendente.

Per entrambi i casi, sui social, pioggia di truci commenti di maschi entusiasti.

Per la storia di Palermo, cito in ordine sparso: “e che vuoi che sia una pacca sul culo”; “poi ste troie vengono a lavorare vestite in un modo che le palpate te le tirano via dalle mani”; “tutta sta storia per una tastata di tette”; “la sentenza è giusta: ste donne hanno rotto il cazzo”. E via dicendo.

Per quella di Latina, sempre in ordine sparso: “io avrei fatto di peggio, l'avrei ammazzata”; “era ora”; “si merita quindici anni, sta stronza”. Cito anche due commenti di donne: “del resto è venuta meno al suo compito”; “il marito ha soltanto voluto riconoscere un suo diritto sacrosanto”.

Intanto, ci ricorda un bellissimo articolo di Michela Murgia apparso oggi su “Repubblica”, dall'inizio del 2016 contiamo una vittima ogni tre giorni per femminicidio. Tra le tante, la donna morta a Catania strangolata dal marito davanti al figlio di quattro anni, la ragazza incinta di nove mesi e ridotta in fin di vita dal compagno che le ha dato fuoco, la donna che proprio ieri è stata decapitata dal marito. Su di loro, il silenzio.

Per non contare le innumerevoli vittime di stupro, sulle quali no, non regna il silenzio. Regna al contrario il dubbio. Il dubbio strisciante, nell'opinione pubblica, che sia colpa loro, delle vittime: troppo discinte, troppo provocanti. Troppo donne.

Nel primo pomeriggio di sabato scorso, al Circo Massimo, durante il Family Day, al momento clou della manifestazione, è salita sul palco la giornalista, scrittrice e blogger Costanza Miriano, autrice del best-seller “Sposati e sii sottomessa”. Un libro che esorta le donne di tutto il mondo a riprendere il proprio ruolo naturale, che è quello, appunto, di totale sottomissione all'uomo: “Rassegnati, ha ragione lui – scrive l'autrice – obbediscigli, sposalo, fate un figlio, trasferisciti nella sua città, perdonalo, fate un altro figlio”.

Il libro ha venduto 150mila copie. Vale a dire lo stesso numero di copie che otteniamo sommando cinque (cinque!) recenti pubblicazioni che denunciano la violenza sulle donne, si interrogano sul ruolo delle donne e, soprattutto, denunciano lo strisciante e incredibile maschilismo che ancora permea la nostra società: “Ferita a morte” di Serena Dandini, l'antologia “Questo non è amore” edita da Marsilio, “Regina Nera” di Matteo Strukul, “Sebben che siamo donne” edita da Derive&Approdi e “Mia per sempre” di Cinzia Tani.

Dal palco del Family Day, la Miriano ha gridato: “Riprendiamoci questo ruolo che stiamo dimenticando per emanciparci, torniamo a essere vere donne capaci di accoglienza, e se lo faremo i nostri uomini torneranno a essere capaci di grandezza”.

L'hanno applaudita, entusiasti, due milioni di persone. Un numero imprecisato l'ha applaudita da casa. Nessuno, a quanto risulta, si è scandalizzato.

Chissà perché l'opinione pubblica insorge contro la “segregazione” e la “sottomissione” della donna solo quando si parla di Islam.

Forse sarebbe il caso, noi uomini per primi ma anche molte, moltissime (troppe) donne, ogni volta che denunciamo il velo, le lapidazioni, l'orrenda, spietata e inaccettabile condizione in cui l'intero universo femminile viene tenuto in tantissime aree del mondo, ci ricordassimo di guardare anche tra le pieghe del nostro amato “mondo libero”.

Un mondo che, spesso e volentieri, si rivela paritario solo formalmente. Ma che nella pratica resta ferocemente e spietatamente machista e maschilista.

E sarebbe il caso di cambiarlo davvero, questo nostro amato “mondo libero”.

Cambiarlo una volta per tutte.

Sono stanco di vergognarmi per essere un uomo.

Riccardo Lestini

https://www.facebook.com/riccalestini/photos/a.144361692570196/229601474046217


mercoledì 10 febbraio 2021

One Billion Rising 2021

 La pandemia continua a dettare le regole delle relazioni sociali. Il 14 febbraio One Billion Rising si svolgerà con modalità diverse da quelle conosciute. Non sarà possibile realizzare il Flash Mob con la tradizionale danza che anche noi da anni facciamo a Corsico unendoci a un miliardo di persone nel mondo sulle note di “Break the chaine”.

Quest'anno, in collaborazione con l'Amministrazione Comunale, inauguriamo tre panchine rosse per denunciare la violenza sulle donne e sulle bambine e per affermare la volontà di porre fine a questo insopportabile fenomeno, aumentato in questo periodo di isolamento, mentre gli omicidi in Italia diminuiscono.

Tra sabato 6 e domenica 7 febbraio, in 24 ore, da Palermo a Faenza al Milanese, si sono registrati 3 femminicidi. Dal sud al nord la violenza sulle donne attraversa ed unisce l'Italia. Donne uccise “in contesti relazionali” con ferocia, in casa ed in strada da mani di mariti, compagni, uomini conosciuti.

Bisogna “spezzare la catena” come indicato nella canzone simbolo di One Billion Rising e “coltivare la non violenza”.



martedì 9 febbraio 2021

UN MONDO SENZA PROSTITUZIONE… UN SOGNO? Ilaria Moroni

Ieri nel milanese un uomo ha ucciso in pieno giorno una donna albanese che si prostituiva.
L’ennesima violenza perpetrata su una donna costretta a prostituirsi ci porta a riflettere su questa piaga sociale legata al patriarcato.
La prostituzione non è quasi mai una libera scelta. Non lo è se l’alternativa è morire di fame. Non lo è se minacciano di morte te e la tua famiglia. Non lo è se sei minorenne e ti hanno portato in Italia con false promesse.
Nella maggioranza dei casi una prostituta è una schiava. E non possiamo accettare che nella nostra società si porti avanti una tratta delle schiave, che oltretutto ha dimensioni spaventose (9 milioni di “clienti” in Italia, quindi quasi un uomo su 3).
Quando fai presente questi fenomeni, tanti uomini propongono una “brillante soluzione”: regolamentiamo la prostituzione!
No, non funziona. Le donne che decidono liberamente di prostituirsi sono un’esigua minoranza rispetto a una domanda enorme.
Inoltre, laddove sono stati presi provvedimenti in tal senso (v. Germania e Olanda), la situazione è peggiorata.
La prostituzione è una forma di violenza. Il 68% delle donne che esercitano questa attività soffre dei sintomi del disturbo post-traumatico da stress, come le vittime di tortura.
Il “sesso a pagamento” è una forma di stupro perché nasconde il desiderio di imporre il proprio dominio su un altro essere umano e di trattarlo come un oggetto. E questo appare perfino “normale” in un mondo in cui i media rappresentano spesso la donna come una bambola sexy.
Di fatto, l’unica soluzione che finora si è rivelata efficace sapete qual è stata?
RIDURRE LA DOMANDA, PUNENDO GLI UOMINI
Questo è il cosiddetto “Modello Nordico”, attuato in Svezia dal 1999 e seguito con successo da altri Paesi del nord Europa, governati da tempo da molte donne.
Se tutti i Paesi adottassero questa soluzione la tratta delle prostitute potrebbe ridursi o addirittura sparire.
Ma vista la resistenza del mondo maschile, è difficile sperare che vengano prese certe decisioni in Parlamento finché questo sarà dominato dagli uomini.
Le donne devono entrare in modo massiccio in politica per gestire la “res publica” e porre fine alle pesanti sopraffazioni maschili.
Quando saremo tante non rischieremo più di adeguarci a modalità di gestione del potere legate al sistema patriarcale e spesso interiorizzate.
Ilaria Moroni
Per approfondire:
https://tinyurl.com/yyqgyb94
https://nonseilunica.it/il-mito-della-prostituta-felice.../
https://www.eunews.it/.../modello-nordico.../79988
https://tinyurl.com/yyycrvuu
https://left.it/.../donne-da-macello-nel-libro-inchiesta.../
#prostituzione #schiavitù #maschilismo #stopalpatriarcato #donneinpolitica

lunedì 8 febbraio 2021

Picco di femminicidi durante il lockdown: «La donna che non scappa è quella senza lavoro» – di Giada Ferraglioni

I dati dell’Istat sono solo la punta dell’iceberg. Sigrid Pisanu, consigliera dell’associazione D.i.Re, racconta le difficoltà dei centri contro la violenza nei 12 mesi di pandemia

«Ho un ricordo chiarissimo delle prime due settimane di marzo. Mentre eravamo prese dall’organizzazione per la pandemia, io e le altre volontarie del centro antiviolenza ci siamo rese conto che gli unici contatti che avevamo erano con donne che già conoscevamo. Tutte le altre le avevamo perse». Sigrid Pisanu è una delle responsabili del centro di Merano, in Alto Adige, e una delle consigliere della rete nazionale D.i.Re (Donne in rete contro la violenza). Durante i mesi di pandemia da Covid, nonostante le difficoltà oggettive, non ha smesso di fare il suo lavoro di assistenza alle donne che chiedevano il suo aiuto. Quando ha visto i risultati dell’indagine dell’Istat sul femminicidio, però, non si è stupita: non aveva dubbi, dice, che ci si sarebbe trovati davanti a questo quadro.

Stando al report dell’Istituto di ricerca, nel primo semestre 2020 i femminicidi sono stati quasi la metà del totale degli omicidi (il 45%): il 10% in più rispetto ai primi sei mesi del 2019, quando la percentuale era del 35%. Inoltre, nei due mesi di confinamento più duro – quelli tra marzo e aprile -, i femminicidi hanno raggiunto un picco del 50%. Nel 90% dei casi gli assassini erano membri della comunità familiare, e nel 61% si trattava di un partener o ex partner. Le persone, cioè, con le quali spendevano la maggior parte del loro tempo chiuse in casa.

Non che la violenza sia nata con la pandemia, certo. Pisanu sa bene che gli abusi domestici sono parte integrante del nostro sistema, che ancora fatica a trovare risposte adeguate. Ma quest’ anno è stato indubbiamente particolare, almeno su 2 livelli. «Da una parte il Covid ha aumentato le situazioni di pericolo per le donne già rischio, peggiorando spesso la loro condizione», spiega. «Dall’altra, chi voleva rivolgersi a noi per la prima volta non ha avuto modo o occasione per chiedere aiuto».

Il silenzio del lockdown

Già nei mesi del primo lockdown la situazione si era fatta chiara. Come spiega Pisanu, in tutta Italia si è registrato un aumento delle richieste d’aiuto da parte delle donne già precedentemente in contatto con le associazioni del 74% rispetto alla media dell’anno precedente – un dato che testimonia il peggioramento delle condizioni durante l’isolamento. Parallelamente, però, si è registrata una diminuzione importante delle nuove richieste.

Poi c’è stato il problema logistico. Normalmente, le donne che chiedono aiuto ai centri antiviolenza vengono aiutate a uscire di casa con la promessa di essere accolte nelle case rifugio per tutto il tempo necessario. Con l’arrivo del Coronavirus, però, non era più possibile far vivere troppe persone nella comunità per non rischiare focolai. «Qui in Alto Adige siamo riuscite, dopo un po’ di tempo, a organizzarci con gli alberghi chiusi che si sono messi a disposizione», spiega Pisanu. «Ma all’inizio è stata dura, e molte delle ospiti sono andate in crisi».

Nel 2019, il tasso di femminicidi nel Nord est è stato uno dei più alti, secondo solo a quello delle Isole. Consce della situazione territoriale, Pisanu e le altre responsabili dell’associazione hanno iniziato a fare campagna attiva tramite giornale, social, volantinaggio. «Davamo consigli come: chiamaci quando vai a buttare la spazzatura e poi cancella la chiamata. Oppure approfittane quando vai in farmacia. E dopo un po’ di tempo, qualche donna ha cominciato a raggiungerci».

Il boom di richieste a novembre

A partire da maggio, le cose hanno cominciato a cambiare. Con l’inizio della Fase 2 e l’allentamento delle misure di contenimento, il numero delle donne che per la prima volta si sono rivolte a un centro antiviolenza D.i.Re è aumentato del 17% per cento rispetto a marzo/aprile. A novembre, quando lo spettro di un secondo lockdown si stava facendo realtà, molte hanno iniziato a chiamare in maniera preventiva, spaventate dalla possibilità di ritrovarsi in una condizione come quella di marzo.

«Abbiamo ricevuto molte richieste», dice Pisanu. «E quasi tutte le volte, ascoltando i loro racconti, abbiamo pensato “grazie al cielo ha avuto il coraggio di farlo”. Spesso a farle stare male è anche la presenza dei figli in casa, costretti ad assistere alle violenze molto più di prima». L’età media di chi chiede aiuto è tra i 39 e i 59 anni, ma la verità è che ci sono anche tantissime giovani appena maggiorenni. A peggiorare la loro condizione è la dipendenza economica: non avendo prospettive lavorative anche a causa della pandemia, molte di loro hanno desistito dallo scappare.

Il numeri sul lavoro

«Il femminicidio è solo la punta dell’iceberg», dice Pisanu. «Guardando ai dati sulla disoccupazione, possiamo capire che non è qualcosa che esce dal nulla». Gli uomini violenti con cui queste donne vivono, sottolinea, fanno leva sulle minacce. Su frasi come “Non troverai mai un lavoro“, “Non riuscirai a trovare una casa per i tuoi figli“. E ora che il Coronavirus ha colpito le fasce più deboli del mercato del lavoro, le donne in difficoltà si trovano davanti all’evidenza della realtà: il lavoro, per loro, non c’è.

«Questo è sia psicologicamente devastante, sia socialmente inaccettabile», dice Pisanu. «Non c’è niente da fare: per poter essere libere bisogna essere autonome dal punto di vista economico». Se la società non riesce a risolvere questo punto, spiega, le cose non miglioreranno. «La donna che non scappa è la donna che si chiede dove andare, cosa fare, tanto più se ha dei bambini. La responsabilità di questi numeri è anche di chi non fa niente per darle un’opportunità».

https://www.open.online/2021/02/07/covid-19-picco-di-femminicidi-durante-il-lockdown/


sabato 6 febbraio 2021

La violenza sulle donne è l'atto di nascita della politica e del suo inevitabile declino di Lea Melandri Il Riformista del 7 febbraio 2021

 Lea Melandri  Il mio articolo su Il Riformista del 7 febbraio 2021

La violenza sulle donne è l'atto di nascita della politica e del suo inevitabile declino.

Dire che è “un fenomeno strutturale”, senza che gli uomini consapevoli degli orrori che ha prodotto storicamente la “virilità”, aggiungano “ci riguarda”, è indifferenza o silenziosa complicità.

I femminicidi, gli stupri, i maltrattamenti, l’integralismo antiabortista, le molestie e i ricatti sessuali sul lavoro: queste e infinite altre forme di violenza manifesta o invisibile sulle donne “emergono” oggi non a caso nella loro forma più arcaica e selvaggia –potere di vita e di morte- di fronte a una “libertà” delle donne che molti uomini sono incapaci di tollerare, altri tollerano in silenzio, altri evitando di alzare gli occhi e la voce di fronte alla barbarie assassina dei loro simili.

Il dominio maschile sull’altra metà del mondo ha significato l’appropriazione del potere generativo, riportato su un sesso solo –le genealogie di padre in figlio-, la cancellazione della sessualità femminile e della donna come singolarità incarnata, corpo e pensiero. Quella che viene oggi allo scoperto è la crisi di una civiltà che ha portato finora in tutte le sue manifestazioni, economiche, culturali e politiche il segno della comunità storica degli uomini, la loro visione del mondo, imposta, contrabbandata ideologicamente come “naturale”.

Non ci si può più accontentare di qualche legge o di qualche diritto strappato con fatica e subito contrastato con violenza dagli odiatori delle donne. Quelle che oggi riempiono le piazze di tutto il mondo sono donne di generazioni diverse che hanno capito quanto il sessismo sia trasversale a tutte le realtà di violenza, sfruttamento, miseria e ingiustizia sociale, e quanto siano profonde le radici nella cultura, ancora in gran parte inconscia, che abbiamo ereditata e purtroppo anche fatta nostra. 

Il cambiamento che si impone perciò è radicale, riguarda istituzioni, saperi e poteri della vita privata e pubblica, è contrasto, disobbedienza, ribellione a tutti i governi che legittimano la violenza maschile in tutte le sue forme. E’ un modello di civiltà, e non solo un sistema economico, che oggi mostra le sue radici distruttive, sugli umani e sulla natura.

Nell’epoca in cui i capisaldi del potere dei padri, per naturale decrepitezza o inevitabili discontinuità dovute alle nuove acquisizioni della coscienza, cominciano a declinare, sembra che solo la violenza tragga dal mutamento in atto nuovo vigore. Nel venir meno di modelli virili socialmente autorevoli, nel declino delle istituzioni che dietro la maschera della neutralità hanno sedimentato valori, gerarchie, privilegi, divisione di ruoli, nel lento decadimento dei miti della forza e dell’onore, è come se si fosse prosciugato il terreno in cui scompariva ogni volta un tenero figlio, ancora in odore di madre, per far crescere un coraggioso guerriero.

Il copione della virilità, destinato a ripetersi quasi senza variazioni nel corso di una vita, poteva contare in passato su attori e parti note già nell’ambito famigliare, figure parentali irrigidite da obblighi, doveri, rituali domestici, distribuzione di poteri, visibilmente in consonanza con le strutture portanti della vita pubblica. Patriarchi contadini, abbruttiti dall’alcolismo, non riscuotevano per questo minore obbedienza e rispetto. La violenza si confondeva con la legge, con la tradizione, con le norme comportamentali, con l’esercizio di un potere considerato “naturale”. Senza quel supporto, fatto di carne e passione, nessun ordine avrebbe potuto durare così a lungo, resistere alle discontinuità della storia, all’assalto delle nuove generazioni. E’ questa la “sacra famiglia” della tradizione? L’assassino non solo ha le chiavi di casa. In una casa è cresciuto da piccolo, ci è entrato da adulto con una moglie, ha visto nascere dei figli.

Sembra ancora lontano a venire il giorno in cui, nel comunicare l’ennesimo femminicidio alla televisione, anziché dire “adesso cambiamo argomento”, ci si fermi per aggiungere “cerchiamo di capire da dove nasce tanto odio e violenza maschile”. Le ragioni sono ormai sotto gli occhi di tutti.

Quando le donne hanno cominciato a scostarsi dal posto in cui sono state messe -svilite o esaltate immaginariamente-, anche la collocazione dell’uomo ha perso i suoi contorni definiti e indiscutibili. La libertà, di cui ha creduto di godere la comunità storica maschile, svincolandosi dalle condizioni prime, materiali, della sua sopravvivenza, ha rivelato impietosamente la sua inconsistenza, portando allo scoperto un retroterra fatto di fragilità, paure e insicurezza.

E’ nella sfera domestica che le donne hanno cominciato a non voler più essere un corpo a disposizione degli altri. Le separazioni, i divorzi, il numero crescente di quelle che scelgono di vivere da sole, sono materialmente e simbolicamente la prova che la millenaria “oblatività” femminile, come “sacrificio di sé” sta venendo meno. Di conseguenza aumentano nell’uomo senso di fallimento e impotenza, consapevolezza intollerabile di una dipendenza finora rimossa.

La pandemia non ha fatto che accentuare il peso che ha comportato per le donne la cura, considerata “naturale” destino femminile -una maternità estesa tanto da riguardare, oltre che figli, anziani, malati anche uomini in perfetta salute -, e togliere il velo alla retorica della famiglia come luogo della loro protezione e sicurezza. Ma ha anche messo allo scoperto, nel momento in cui il corpo con tutte le vicende, le più indicibili che lo attraversano, come la vecchiaia, la malattia, la morte, è uscito dal ‘privato’ per accamparsi sulla scena pubblica, il vuoto di sapere, sostenibilità, consapevolezza, su cui sono nate le istituzioni politiche, separate dalla vita nel momento stesso in cui hanno consegnato all’immobilità della natura, insieme al sesso femminile, tutte le esperienza, per altro le più universali dell’umano, che hanno il corpo come parte in causa.

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2864564933779416&id=100006778116561

venerdì 5 febbraio 2021

Istat: a dicembre 101 mila lavoratori in meno, 99 mila sono donne di Rosaria Amato

Tra i settori in calo in particolare gli autonomi, si perdono 79 mila posti. In fumo la "miniripresa" registrata tra luglio e novembre. Nel confronto annuo persi 444 mila posti, 482 mila inattivi in più. In forte diminuzione il lavoro a termine, non protetto dal blocco dei licenziamenti. Disoccupazione giovanile al 29,7%

 Dopo il momentaneo recupero messo a segno tra luglio e novembre l'occupazione torna a calare, nonostante il blocco dei licenziamenti, e colpisce tutte le fasce di età a esclusione degli ultracinquantenni, invece in crescita. Si tratta di un crollo quasi esclusivamente al femminile: in totale i lavoratori scendono di 101 mila unità, ma di questi 99 mila sono donne e sono 2000 sono uomini. Tra i settori in calo soprattutto gli autonomi: nel solo mese di dicembre si perdono 79 mila posti di lavoro rispetto a novembre.

Il tasso di occupazione delle donne a dicembre cala di 0,5 punti e cresce quello di inattività (+0,4 punti), per gli uomini al contrario la stabilità dell’occupazione si associa al calo dell’inattività (-0,1 punti). In generale, c'è un forte aumento dell'inattività ma solo per la fascia dei età giovanile e per quella centrale.

Nel confronto annuo si perdono 444 mila unità, mentre le fila degli inattivi crescono di 482 mila unità. Anche in questo caso, c'è una forte prevalenza femminile, anche se meno marcata rispetto al confronto tra novembre e dicembre: infatti le donne passano da 9,842 milioni del dicembre 2019 a  9,530 milioni a dicembre 2020, in 312 mila perdono il lavoro, mentre gli uomini passano da 13,441 milioni a 13,309, perdendo 132 mila unità. La maggiore fragilità del lavoro femminile è dovuta al fatto che in percentuale le donne sono maggiormente occupate nei servizi, in lavori precari o per i quali è possibile licenziare (a cominciare dal lavoro domestico).

A dicembre il tasso di disoccupazione risale al 9%, quello dei giovani al 29,7%, mentre il tasso di occupazione scende al 58,0% (-0,2 punti percentuali rispetto a novembre) dal 58,9% di dicembre 2019.

Le ripetute flessioni congiunturali dell'occupazione registrate tra marzo e giugno 2020, unite a quella di dicembre, hanno portato l'occupazione a un calo dell'1,9% rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. La diminuzione coinvolge dipendenti (-235mila) e autonomi (-209mila) e tutte le classi d'età, ad eccezione degli over50, in aumento di 197mila unità, soprattutto per effetto della componente demografica. Il tasso di occupazione scende, in un anno, di 0,9 punti percentuali.


/www.repubblica.it/economia/2021/02/01/news/istat-285381015/?fbclid=IwAR1g6QuMGMLNfNoZBtAKtKc5Np2_VN6CyPIV1MNyXMjtNcVm1FMFxRjN_LM

 



 



martedì 2 febbraio 2021

L’assurdo silenzio sui femminicidi di Dacia Maraini

Immaginiamo per un momento che la cronaca ci desse le notizie rovesciate: ogni tre giorni un uomo viene ucciso dalla moglie, accoltellato, sgozzato, bruciato, strangolato, fatto a pezzi, gettato nel cassonetto o in fondo a un burrone. Queste donne, assieme al marito hanno ucciso anche i figli, strangolandoli o sparando loro in testa. Cosa succederebbe?

Roberta Siragusa , torturata, sgozzata e poi bruciata dal fidanzato; 

Teodora Casasanta, uccisa assieme al figlio di cinque anni dal marito; 

Tiziana Gentile colpita a coltellate dal compagno; 

Victoria Osaguie, scannata davanti ai figli di 9 , 6 e 2 anni dal coniuge; 

Rosalia Garofalo ammazzata dal suo uomo che prima l’ha picchiata selvaggiamente.

Queste sono le donne uccise nei primi mesi del nuovo anno. Solo nel 2020 sono state 112 le donne massacrate dai conviventi. La media: due donne alla settimana. Immaginiamo per un momento che la cronaca ci desse le notizie rovesciate: ogni tre giorni un uomo viene ucciso dalla moglie, accoltellato, sgozzato, bruciato, strangolato, fatto a pezzi, gettato nel cassonetto o in fondo a un burrone. Queste donne, assieme al marito hanno ucciso anche i figli, strangolandoli o sparando loro in testa. Cosa succederebbe?

Si leverebbero voci scandalizzate, urla, denunce, grida di «torniamo alla pena di morte»! I giornali si scatenerebbero. Qualcuno certamente teorizzerebbe che le donne sono malvage per natura, nemiche dell’uomo e tendono a distruggerlo. Verrebbero fuori decine di psichiatri a dire che le donne sono incapaci di vincere la gelosia, portate al crimine e oggettivamente pericolose. Esagero? Ma cosa dire di fronte al silenzio drammatico che accompagna le centinaia di femminicidi? Mentre tutti i delitti contro la persona diminuiscono, come dichiarano tutti gli Istituti di statistica, i delitti in famiglia crescono.

Come spiegare questo aumento di violenza se non come una rivolta contro le nuove libertà delle donne? La vita della politica, della sessualità, della famiglia si regola su equilibri di potere decisionale. Ricordiamo che a ogni conquista di diritti corrisponde una perdita di privilegi: in famiglia, sul lavoro, nei rapporti sociali e sessuali. Per certi uomini deboli che identificano la propria virilità col dominio, questa perdita viene considerata un affronto talmente grave da ripescare nel profondo il più arcaico e selvaggio degli istinti: la vendetta. Ma si tratta di una tristissima confessione di impotenza. L’uomo saggio capisce, acconsente e si adatta. A tutti faceva piacere avere degli schiavi in casa. Eppure abbiamo trovato il modo di farne a meno. Bisognerà che gli uomini, avvezzi ai tanti privilegi storici, imparino ad adattarsi. Non ci sono alternative.

https://www.corriere.it/opinioni/21_febbraio_01/assurdo-silenzio-femminicidi-36983202-648d-11eb-aad7-ece6884524fa.shtml?fbclid=IwAR05aqqlEz_CFGL0U8Qj1lTRnmjzlkr6M_CGMhHKF6v3ew3ofc3Ex-DeG08