martedì 28 marzo 2023

Servono dati per contare Rossella Forlè

Donne, madri sole, crisi abitativa: serve trasparenza per contrastare la povertà, la campagna di Period Think Thank parte da Bologna per comprendere l’impatto che hanno le politiche e gli investimenti sulla riduzione del gap di genere

Oggi in Italia sono generalmente le donne e le madri sole le persone a maggiore rischio di povertà. I dati del rapporto annuale Istat, pubblicato a luglio 2022 rivela disuguaglianze di genere drammatiche. Dell’11,7% delle famiglie monogenitoriali in povertà assoluta, l’80,9% è composto da madri sole.  

Quante di queste donne hanno accesso a case popolari? E quante donne che fuoriescono da contesti di violenza sono inserite in alloggi popolari o stanno ancora aspettando? Sono solo alcune delle domande che, Giulia Sudano, Presidente di Period, think-thank femminista intersezionale che si occupa di advocacy, policy e dati, ha posto al Comune di Bologna, chiedendo di fornire dati aperti disaggregati per genere, per poter contrastare il disagio abitativo delle donne, attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).  

La richiesta di Period è solo la prima di una campagna lanciata in occasione dell’8 marzo, e intitolata #datipercontare che ha l’obiettivo di comprendere l’impatto che hanno le politiche e gli investimenti economici, sulla riduzione del gap di genere. 

Il Pnrr è la grande sfida che l’Italia deve affrontare per garantirsi un futuro di stabilità e di armonia sociale. Era quindi naturale attendersi misure che nel medio periodo affrontassero la crisi abitativa che è uno dei fattori di blocco e di profonda disuguaglianza di genere nel nostro paese.  Il testo del Pnrr infatti afferma che – la carenza abitativa si riflette differentemente su uomini e donne per via del differente ruolo familiare loro attribuito e del fatto che la maggior parte delle famiglie monoparentali siano affidate a donne – a fronte di questa dichiarazione non sono però presenti dati di contesto e obiettivi numerici da raggiungere.  

Secondo l’Istat in Italia le famiglie dove sono presenti minori e in condizione di povertà assoluta è pari al 28,2% se la famiglia abita in un appartamento in affitto, contro il 6,4% di quelle che posseggono un'abitazione di proprietà e il 13,1% delle famiglie in condizioni di usufrutto o in uso gratuito, ma i dati disponibili non permettono di creare una correlazione tra la condizione di povertà individuale per genere e la tipologia dell’abitazione in cui si vive.  

Esiste infatti una contraddittorietà delle misure messe a disposizione dai sistemi di protezione sociale. Parliamo qui del contributo del sistema di welfare nella definizione e costruzione della dipendenza economica femminile e, al contempo, dell'adeguatezza delle risposte istituzionali ai rischi di povertà per le donne, intesa come il grado di riconoscimento dei bisogni di modelli familiari non tradizionali, in un contesto toccato da intense trasformazioni. 

Gli interventi compensativi in Italia, sono ancora strutturati su un modello tradizionale di famiglia, in cui è data per scontata la dipendenza economica della donna dal marito e la responsabilità femminile del lavoro di cura. Paradossalmente, la dipendenza economica delle donne è stata assunta negli anni come una sorta di protezione dalla povertà: le donne non necessitano di una propria fonte di reddito, perché gli uomini con cui vivono provvedono finanziariamente alle loro necessità.  

L'idea di uno stipendio familiare percepito dal ‘capofamiglia’ maschio per il proprio mantenimento e quello della moglie e dei figli dipendenti ha dunque contribuito indirettamente alla femminilizzazione della povertà: tale logica è più che mai inadatta a cogliere le necessità di tutte quelle donne che vivono da sole (single, madri sole, vedove, anziane) e che, conseguentemente, non hanno accesso alla fonte di reddito di un partner ‘maschile’. Tale inadeguatezza è sempre più macroscopica perché si inserisce in un contesto storico caratterizzato da intense trasformazioni socioeconomiche che hanno stimolato il proliferare di nuovi bisogni e, al contempo, messo in seria difficoltà i sistemi di sostegno sociale originariamente strutturati sulla base di corsi di vita differenti, di una diversa organizzazione della vita familiare e di una marcata divisione di ruoli tra genere femminile e maschile. 

Come descrive bene uno studio del 2021, Le diseguaglianze di genere in Italia e il potenziale contributo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per ridurle, a cura del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’economia e delle finanze, questi cambiamenti hanno portato alla luce una serie di rischi sociali largamente sconosciuti in passato e hanno profondamente influenzato la loro distribuzione lungo il corso di vita delle donne. Sono state proprio le donne negli anni ad essere maggiormente investite dalla forte precarizzazione e instabilità del lavoro.  

In passato, spiega lo studio, la povertà femminile era per lo più nascosta all’interno delle famiglie che, al contempo, sancivano la dipendenza delle donne. Ora è più esplicita e colpisce non solo le donne in una situazione di dipendenza economica dal marito o dal partner che si ritrovano sole, a seguito di una morte o separazione ma anche le donne inserite nel mercato del lavoro, a causa della difficile conciliazione tra impegni familiari e lavorativi.  

Tutto ciò permette di contestualizzare la povertà femminile all’intersezione tra storie individuali, storia collettiva e mutamento sociale. La ricerca rivela inoltre come le statistiche di genere giochino un ruolo essenziale nel promuovere l’equità, perché costituiscono la base imprescindibile per svelare la natura sessuata della realtà che ci circonda e sviluppare così politiche in grado di affrontare le cause del problema e offrire soluzioni appropriate.  

Le donne sono state e sono ancora invisibili nelle statistiche. Tale invisibilità si esprime con la carenza di informazioni e dati sulla condizione femminile; un inadeguato sfruttamento dei dati esistenti e l’assenza di un approccio volto a evidenziare la differenza di genere fin dalla fase di progettazione delle rilevazioni statistiche.  

È solo attraverso la disponibilità di dati aperti disaggregati per genere che potremo valutare l’efficacia degli interventi relativi all’abitare sulla condizione economica e di vita delle donne.   

https://www.ingenere.it/articoli/servono-dati-contare?fbclid=IwAR0YsKxLrEmxei1RwPjIF6kVQUe7qrBu9lsFIUAxwaZrH4eFa0SjnsT24mM


venerdì 24 marzo 2023

In Italia una ragazza su due si sente ancora condizionata da stereotipi di genere di Elena Fausta Gadeschi

Una volta sfondato il soffitto di cristallo, non ci si deve dimenticare di chi regge le fondamenta

È vero, l'Italia non ha ancora avuto una presidente della Repubblica donna. Ma sono donne la presidente del Consiglio e la leader dell'opposizione, la presidente della Corte di Cassazione e la presidente della Corte Costituzionale, per non dimenticare la donna alla guida dell'avvocatura dello Stato e del Consiglio nazionale forense. Nel 2023 si può ben riconoscere che le stanze dei bottoni siano per la maggior parte occupate da figure femminili. Eppure, una volta sfondato il soffitto di cristallo, non ci si deve dimenticare di chi regge le fondamenta: ragazze e donne come tante su cui ancora gravano stereotipi di genere profondamente invalidanti. "L'Italia non è un Paese per noi" non è solo il pensiero diffuso tra molte giovani, ma è anche il nome della ricerca dell’Osservatorio indifesa di Terre Des Hommes, secondo cui il 53,96% delle intervistate (oltre 2.000 ragazze adolescenti dai 14 ai 26 anni) si sente condizionata da cliché e retaggi maschilisti nella vita di tutti i giorni e in particolare sul posto di lavoro.

"Non ci hanno visto arrivare" – per citare l'ormai celebre battuta di Elly Schlein – o non ci vogliono vedere arrivare? Questo è il problema. Le intervistate non solo denunciano di sentirsi limitate da logiche maschiliste, ma di non poter contare su una rete di sostegno e su modelli educativi a cui ispirarsi. Per il 20% di loro "non c’è nessun modello di riferimento" e per il 30% il principale modello è la propria mamma. Questo significa che una ragazza su tre non ha riferimenti esterni alla famiglia per progettare il proprio futuro e spesso è proprio in casa che si perpetuano pregiudizi più o meno inconsci rispetto a certe carriere e professioni.

"Occorre lavorare affinché genitori e insegnanti incoraggino le ragazze a seguire percorsi di studio che permettono carriere vicine ai loro reali desideri, al netto dei condizionamenti esterni, che arrivano persino dai libri di testo che ancora troppo spesso raffigurano gli uomini come scienziati e ingegneri e le donne come maestre e infermiere – spiega a Repubblica Paolo Ferrara, direttore generale di Terre des Hommes –. Ogni anno con la nostra campagna indifesa ci impegniamo a diffondere i dati della violenza e delle discriminazioni, ma cerchiamo anche di offrire a ragazze e ragazzi percorsi che possano accrescere la loro consapevolezza su queste tematiche e proporre nuovi modelli per essere davvero leader del cambiamento per una società più equa e inclusiva".

Come racconta Dossier Indifesa 2022, la situazione è drammatica per le cosiddette Neet (Not in Education, Employment or Training - fuori da percorsi educativi, disoccupate e senza formazione professionale), per le quali l'Italia detiene il record europeo negativo: le italiane tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano rappresentano il 25%. Il gender gap si evidenzia pure nei corsi di laurea in materie Stem in cui le ragazze rappresentano solo il 21% nonostante il 60% dei laureati siano donne. Risultati scoraggianti anche per quanto riguarda l'educazione finanziaria, che per le studentesse 15enni resta terreno sconosciuto. Molte di loro infatti non hanno idea di come gestire un conto corrente né calcolare il tasso di interesse di un prestito né capire un investimento finanziario. Se in Europa la differenza di alfabetizzazione è di 2 punti percentuali, in Italia sale a 15 punti. Da qui l'esigenza di Terres des Hommes di promuovere corsi di educazione finanziaria per donne in situazione di vulnerabilità grazie alla collaborazione con la Global Thinking foundation.

La pandemia ha rallentato e in alcuni casi ha fatto perdere i progressi acquisiti finora. Secondo l'Osservatorio il 47,78% delle giovani dichiara di aver assistito a una violenza fisica, mentre 7 ragazze su 10 sostengono di aver assistito ad episodi di violenza psicologica. Cresce però la consapevolezza attorno al tema della salute mentale e ai pericoli a cui giovani e donne sono esposti. Il 23,14% percepisce il rischio della solitudine e dell'isolamento sociale (23,14%) e il 19,72% il pericolo della violenza psicologica (19,72%). Il bullismo (17,90%) e la violenza sessuale (17,39%) sono tra i maggiori pericoli e per l’82,90% il web non è un ambiente sano e sicuro. E per quasi il 34% delle intervistate non si stanno facendo passi avanti nella parità di genere. Non esiste un'unica soluzione, ma è fondamentale che famiglie e scuole cooperino per promuovere modelli educativi positivi. Con questa finalità nel 2020 Terre des Hommes e Junior Achievement Italia hanno lanciato #IoGiocoAllaPari – Palestra di Diritti e Competenze, un percorso di potenziamento generazionale e parità di genere rivolto a ragazze e ragazzi di scuola secondaria di secondo grado per unire la consapevolezza dei diritti con quella delle competenze attraverso workshop e incontri con esperti. Ormai è dimostrato che i bias di genere vengono interiorizzati dai bambini a partire dai 5 anni: prima si agisce, meglio si combatte per la gender equality.

https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a43362891/stereotipi-genere-italia/?fbclid=IwAR1PecPiyYznjYotXJGhJcbWa_BDRznX1QV_ZOoo7XuSRz2rE9NeobKzXKA

mercoledì 22 marzo 2023

Quando il sessismo italico diventa incontenibile di Lea Melandri Il Riformista 17 marzo 2023

E’ bastato che due donne salissero a ruoli di primo piano nella politica italiana - Giorgia Meloni alla Presidenza del Consigli, Elly Schlein alla Segreteria del Pd -perché il sessismo italico con i suoi atavici pregiudizi, la sua misoginia, la sua segreta resistenza a ogni conquista femminile di libertà, uscisse vistosamente allo scoperto, favorito da una destra di governo con evidenti nostalgie patriottiche di uno stampo già noto. Ma ciò che arriva agli occhi di tante persone non è detto che venga visto per quello che significa, per ciò che nasconde dietro quel paravento di “normalità” che ha permesso al dominio maschile di permeare la cultura, il senso comune, l’immaginario e le convinzioni profonde di ogni singolo individuo, di un sesso e dell’altro, senza che se ne prendesse coscienza. Finché a farsi protagonista sulla scena pubblica era una donna il cui ruolo preferiva fosse nominato al maschile – “Il Presidente del Consiglio” -, in sintonia con quell’ibrido di “materno” e di “virile”, di “viscere e pensiero” (Paolo Mantegazza), ancora fortemente radicato nel nostro Paese, l’allarme è stato contenuto. Il quadro era quello più facile da aggredire: il ritorno a una retorica di vecchio stampo fascista – “Dio, Patria; Famiglia”, critica all’aborto come ritorno alla “integrità della stirpe” contro l’inquinamento portato dalle migrazioni, difesa della “famiglia naturale” contro le nuove forme di intimità, opposizione a ogni tentativo di portare nella scuola un educazione attenta agli stereotipi di genere, al rapporto col “diverso”, alla relazione tra adulti e bambini. Bastava l’antifascismo e l’antirazzismo a creare un argine riconoscibile dalla politica tradizionalmente intesa. E’ stato solo quando a fianco di Chiara Melloni è comparsa un’altra figura femminile con un ruolo di rilievo, che nel vaso di Pandora, in cui si celano le viscere della storia millenaria del patriarcato, sembra essersi aperta una faglia. La donna, diceva Rossana Rossana, “non può non essere vista”, “uno specchio l’accompagna sempre: è lo sguardo dell’uomo sul suo corpo, per cui è prima di tutto bella o brutta, bionda o bruna, gambe seni e fianchi (…) Anche se ha sgobbato e faticato per millenni, nell’immaginario o simbolico non è definita dal fare, che è storico e contingente, ma dall’ “apparire” in funzioni eterne come la maternità e la seduzione.” Con una figura di donna, come Elly Schlein, che si definisce “femminista e lesbica”, il quadro politico di riferimento non poteva più essere soltanto quello dell’opposizione tradizionale, destra e sinistra. Le problematiche sollevate dal femminismo avevano già aperto la strada da oltre mezzo secolo a consapevolezze nuove riguardo a quelle esperienze, per altro le più universali dell’umano, che sono state considerate “non politiche”, tra cui il rapporto di potere tra i sessi. Che queste “storie non registrate” (Virginia Woolf) potessero essere il fondamento di tutte le forme di dominio, di oppressione, di ingiustizia sociale e di violenza che abbiamo conosciuto, e quindi “rivoluzionarie” rispetto alla politica che ha separato “il corpo e la polis”, non sembra aver attraversato il pensiero dei media e del dibattito pubblico. A fare eccezione sono stati ancora una volta i social. Si sa che fumetti con volti deformati di personaggi noti, di un sesso e dell’altro, compaiono da tempo sulle pagine del “Fatto quotidiano”. Quelli di Chiara Melloni e Elly Schlein non potevano mancare. Ciò che si può notare è che la caricatura di quest’ultima non è semplicemente, come nel caso di altre e altri, un’immagine che esalta stravolgendoli tratti caratteristici della fisionomia del soggetto in questione. Preso di mira è il fatto di essere una donna giovane, determinata e con idee aperte a un rinnovamento non solo del partiti di cui è Segretaria, ma di una cultura e di una società in cui crescono povertà, disuguaglianze economiche, spinte xenofobe, violenza contro le donne e le soggettività Lgbtqui+. Fin troppo ovvio rappresentarla, come fa il “Fatto quotidiano”, con i due stereotipi più immediati del “femminile”, quello della favola - “La principessa Elly, dell’Occupy Pd” – e quello di una vecchia donna inguardabile. Si direbbe una “barbona”. Ma di stampo ancora più inequivocabilmente sessista è il “sondaggio” che, nel telegiornale della sera de La7, affiancava gli indici di gradimento delle due donne leader, con domande che si potrebbero liquidare come ridicole e grottesche, se non ricalcassero, in un elenco che ha dell’incredibile, tratti del femminile, visto sotto il profilo di “genere”, considerati “naturali”.

In una contrapposizione frontale, di quelle che il cinema e il gossip ci hanno ampiamente nutrito – del tipo “Eva contro Eva” -, a essere sottoposti a indice di gradimento sono gli aggettivi che più specificamente si attribuiscono al carattere, al comportamento delle donne, nel privato come nel pubblico: “calcolatrice”, “autoritaria”, “divisiva”, “snob”, “furba”, “coraggiosa”, “autorevole”, “affidabile”, “empatica”. Chi ha ancora dei dubbi che non ci si possa limitare a vedere questo repertorio in chiave di politica tradizionale, si legga Otto Weininger, “Sesso e carattere”, uscito nel 1903, lo stesso anno in cui il suo autore, lucido e tragico erede della cultura greco romano cristiana, si è suicidato a soli 23 anni. Oppure, più semplicemente, si chieda se lo stesso sondaggio avrebbe potuto essere applicato a due leader di sesso maschile.

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martedì 21 marzo 2023

Il lungo cammino della poesia delle donne in Italia, dal Novecento a oggi Di Lorenzo Pompeo

Per lungo tempo "trascurate" dagli studiosi e dalle antologie, le poetesse italiane del Novecento hanno saputo rinnovare in modo unico e originale il canone nazionale. E non solo. Nella Giornata mondiale della poesia il critico Lorenzo Pompeo ripercorre i profili di Pozzi, Negri, Frabotta e tante altre, invitando a leggere i due volumi de La poesia delle donne editi da Left

Per festeggiare la giornata mondiale della poesia pubblichiamo l’introduzione del libro Poesia delle donne Volume II a cura di Lorenzo Pompeo. Il volume che vede il contributo di molti autorevoli studiosi fa seguito al libro Poesia delle donne donne I uscito l’anno scorso e curato da Lorenzo Pompeo e Rosalba De Cesare. Questo volume che ha dato il la alla collana sarà presentato domani, 22 marzo a Roma, dalle 17 alla Biblioteca Quarticciolo 

L’antologia/monografia La poesia delle donne volume II edita da Left si ricollega a quella uscita l’anno scorso a cura del sottoscritto in collaborazione con Rosalba De Cesare. Nell’introduzione mi ero riproposto di dedicare allo specifico della poesia italiana lavoro supplementare. In quell’occasione avevo deciso di dedicare il saggio introduttivo a tre figure, Emily Dickinson, Anna Achmatova e Wysława Szymborska, intorno alle quali esiste un consolidato consenso a livello mondiale in relazione al loro ruolo di figure-chiave della poesia novecentesca. Naturalmente l’elenco potrebbe essere integrato da altri nomi, ma l’importanza di queste tre poetesse può essere considerato un fatto assodato.

Nel caso della poesia italiana, possiamo individuare poetesse di primo piano in relazione alla loro epoca, ma se prendiamo in esame il Novecento fino ai nostri giorni, risulta più difficoltoso individuare una o due figure-chiave dalle quali partire per descrivere e analizzare l’intero fenomeno della poesia femminile novecentesca.

Possiamo però individuare una costante che riguarda tutto il novecento italiano: la scarsa presenza dei nomi di autrici nelle antologie della poesia italiana (che però, occorre riconoscerlo, sono perlopiù curate da autori). Nella Antologia della poesia italiana (1909-1949) di Giacinto Spagnoletti edita da Guanda nel 1950 erano presenti solo due autrici (Antonia Pozzi e Alda Merini, presentata come «assolutamente inedita»). In Poesia italiana del Novecento, l’antologia curata da Edoardo Sanguineti per Einaudi e uscita nel 1969, non compare nemmeno una autrice. In Poeti italiani del Novecento curato da Vincenzo Mengaldo per gli Oscar Mondadori nel 1990 (ma uscito nel 1978 nella ben più prestigiosa collana de I meridiani) l’unica poetessa rappresentata era Amelia Rosselli. Nei due volumi della Poesia italiana del Novecento a cura di Pietro Gelli e Gina Lagorio, editi nel 1980 (quindi dopo l’auge del femminismo italiano degli anni Settanta) nella collana Grandi libri Garzanti le poetesse antologizzate, furono ben sette (Elsa Morante, Antonia Pozzi, Daria Menicanti, Margherita Guidacci, Elena Clementelli, Maria Luisa Spaziani e Giovanna Bemporad), ma inspiegabilmente non compare il nome di Amelia Rosselli. Ma neanche intorno a questi nove nomi esiste un generale consenso nei lavori dedicati allo specifico della poesia femminile italiana. Il volume Donne in poesia a cura di Biancamaria Frabotta edito da Savelli nel 1976, tra le 24 autrici antologizzate, non include Giovanna Bemporad né Elena Clementelli né Alda Merini, la quale, tra queste otto autrici nominate, è l’unica che successivamente sarebbe riuscita a guadagnarsi una certa notorietà al di fuori della cerchia degli studiosi, i quali a loro volta in parte ne disconoscono i meriti artistici. In nessuna di queste antologie citate compaiono i nomi di Ada Negri e di Sibilla Aleramo, che pure furono nella prima metà del Novecento due figure di primissimo piano (la seconda è oggi molto più nota per le prose e per la biografia).

Nel corso degli ultimi due decenni del Novecento però fortunatamente si può osservare un cambiamento radicale in favore di una presenza di autrici molto più significativa sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Con la “stagione dei movimenti” si era affermata una nuova generazione di poeti, tra i quali alcune figure femminili giocarono un ruolo di primo piano. Molte tra le voci di questa generazione però rappresentarono un fenomeno effimero legato alla contingenza politico-culturale. A questa temperie è legata l’antologia Donne in poesia a cura di Biancamaria Frabotta, fotografia di un momento di esplosione creativa legato alle istanze del movimento femminista, che proprio in questi anni aveva raggiunto una dimensione di massa. Tuttavia tra le “giovani” poetesse di questa antologia, Patrizia Cavalli sarà l’unica a guadagnarsi una collocazione centrale sulla scena della poesia italiana nei due decenni successivi. Alcune vennero sostanzialmente dimenticate, altre, come Piera Oppezzo, sono state oggetto di una tarda e recente “riscoperta” postuma. Tuttavia un fatto è certo: questa generazione di poetesse aprì quella breccia che permise alla poesia femminile di acquistare una presenza molto più rilevante sulla scena letteraria del nostro Paese. Negli anni Ottanta tutte le autrici che abbiamo menzionato continuavano a scrivere e a pubblicare. A questa nutrita produzione di autrici ormai celebri, che avevano acquisito un consolidato riconoscimento da parte della critica e del mondo accademico, si aggiungevano opere di autrici esordienti destinate ad affermarsi nella prima metà del decennio successivo. La somma di questi fattori rese la poesia femminile di quel decennio un formidabile laboratorio della poesia contemporanea. In questi anni salirono sulla ribalta della scena letteraria, tra le altre, Patrizia Valduga, Rosita Copioli, Giovanna Sicari, Antonella Anedda, oltre alla stessa Biancamaria Frabotta. In parallelo furono attive figure ascrivibili a sottogeneri e settori, come la poesia sperimentale e dialettale, che vanno a completare un quadro complesso e diversificato, del quale è ormai difficile offrire una rappresentazione completa. Possiamo però affermare senza ombra di dubbio che a partire da questo decennio la presenza delle donne nel parnaso della poesia contemporanea non fu più minoritaria né marginale né trascurabile, tanto che la stessa accezione di “poesia femminile” perse quel senso di riscatto e di rivalsa per diventare un semplice dato anagrafico, a cui la critica è chiamata a offrire, volendo, una chiave interpretativa, ma non più una giustificazione.

Ma se vogliamo ripercorrere il lungo cammino che ha portato a questo traguardo, ci troviamo di fronte a diversi ostacoli e problemi. Prima di tutto: cosa fare con le poetesse della prima metà del Novecento? Abbiamo già potuto rilevare la totale assenza dalle antologie della seconda metà del Novecento di figure di primissimo piano del precedente cinquantennio, come le menzionate Ada Negri o Sibilla Aleramo. Tra le due, sicuramente la prima ebbe avuto una maggiore e più lunga familiarità col verso e, nell’epoca in cui visse e scrisse, prima volta in assoluto per una poetessa italiana vivente, le furono tributati onori e riconoscimenti. Infatti nel 1931, alla presenza del re e della regina, in una cerimonia solenne nella sala degli Orazi e Curiazi al Campidoglio, le venne attribuito il premio Mussolini per le discipline letterarie e nel 1940 ricevette, prima e ultima donna, la nomina ad Accademica d’Italia. Morì nel 1945 e dopo la guerra la sua figura, forse perché a torto considerata vicina agli orientamenti ideologici e culturali del regime fascista, venne sostanzialmente cancellata. Già solo per questo motivo le poesie di Ada Negri meritano di essere rilette con la massima attenzione. Ci si accorgerebbe subito del fatto che la sua poesia non fu mai al servizio del regime. Si sa che Negri conobbe Mussolini, probabilmente tramite Margherita Grassini Sarfatti, la quale, com’è noto, fu per un breve periodo amante del giovane Mussolini (che introdusse nei salotti dell’alta borghesia milanese) e, al tempo stesso, amica e protettrice di Ada Negri. Questo contatto risale però agli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale in cui entrambi gravitavano intorno al partito socialista. Vi fu una corrispondenza privata tra i due nella quale la poetessa mostrò tutto il suo appoggio verso Mussolini e le sue scelte politiche anche dopo l’avvento del fascismo, ma la sua creazione letteraria non fu contagiata dalla retorica del regime. Tra l’altro, nel 1922, l’anno della Marcia su Roma, aveva già pubblicato sette raccolte di poesia e due opere in prosa. Ma vale la pena ripercorrere il suo percorso umano e intellettuale dal principio.

Ada Negri nasce a Lodi nel 1870 in una famiglia di umili origini. La madre Vittoria era tessitrice e il padre, che morì l’anno seguente, faceva il vetturino. Per tirare avanti Vittoria si impiegò in un lanificio per tredici ore al giorno, abitando presso la portineria dove lavorava come custode sua madre. Tra il 1873 e il 1876 Ada frequenta l’asilo di carità per l’infanzia e successivamente le scuole elementari. Nel 1884 si iscrive alla scuola normale femminile e nel 1887 ottiene la patente di insegnante elementare e comincia a lavorare, non ancora diciottenne, in un convitto femminile privato a Codogno. Nel 1888, Appena raggiunta la maggiore età è chiamata come supplente a Motta Visconti, in una classe di prima elementare maschile composta da centonove scolari. Nello stesso anno, sul settimanale Fanfulla da Lodi pubblica la sua prima poesia, a cui seguirono negli anni successivi molte altre pubblicazioni su altri periodici. Ma la svolta fu la visita della giornalista Sofia Bisi Albini, che pubblicò sul Corriere della sera del 20 dicembre del 1891 un resoconto dell’incontro. Nel marzo dell’anno seguente l’editore Treves pubblica Fatalità, l’esordio poetico di una autrice che era già diventata un caso letterario. Tanto che nel 1894 Ada ottenne l’abilitazione all’insegnamento delle lettere italiane nelle scuole normali del Regno “per chiara fama”. Si trasferì a Milano, dove insegnò presso la scuola normale superiore femminile Carlo Tenca, entrò nel comitato direttivo della lega femminile e frequentò la casa di Filippo Turati e Anna Kuliscioff (che Ada considerò «sorella ideale»). Legata principalmente alle passioni politiche di questa stagione Tempeste, la seconda silloge di poesia che uscì nel 1895. La protesta sociale rappresenta infatti il tema principale delle liriche di questa raccolta. L’anno successivo però Ada, donna avvenente oltre che ormai celebre, riceve una proposta di matrimonio da parte dell’industriale Giovanni Garlanda, che accettò. Dopo il matrimonio, i coniugi si trasferirono a Valle Mosso, nel biellese, e nel 1898 nacque la primogenita Bianca (la secondogenita Vittoria, nata nel 1900, visse solo poche settimane). L’impegno politico però non venne meno, come testimonia la partecipazione attiva di Ada nella fondazione, nel 1899, dell’Unione femminile nazionale (associazione nata da organizzazioni di mutuo soccorso operaio per promuovere l’emancipazione delle donne attraverso l’acquisizione dei diritti politici, sociali e civili). Tuttavia una nota introspettiva e autobiografica, legata alla maternità, alla tragica scomparsa della secondogenita e, nel 1903, anche del fratello, si fece strada nelle sue poesie. Non a caso la sua terza raccolta, uscita nel 1904, si intitola Maternità. L’agiatezza e lo status “borghese” a cui è ormai approdata non le impedisce di esprimere nelle liriche di questa silloge tutta la sua solidarietà verso donne meno fortunate di lei. Nel 1910 la raccolta Dal profondo segna una ulteriore passaggio verso una malinconica introspezione. In “Un fratello”, la lirica di apertura, si immagina di incontrare un giovane e povero ribelle nel quale rivede se stessa da giovane: («Ti fui compagna per le ignote strade / del mondo e all’ombra dei crocicchi, in una / vita lontana che fu mia (..)/»), ma dal quale lo separa il suo attuale status di signora dell’alta società. L’autrice dichiara di conservare nel suo cuore la scintilla della ribellione («Sono rimasta zingara, nel fondo / del cuore. – Non si mente al proprio sangue – ») ma il suo destino l’ha ormai portata verso una direzione diversa: «Forte e libero tu fra tanti schiavi, / addio. Colei che passa è tua sorella; / ma la folla l’inghiotte – e ognun va solo / col mistero di sé, fino alla morte» – dichiara l’autrice in chiusura. Nel frattempo però i rapporti col marito si vanno deteriorando fino alla rottura: nel 1913, Ada deciderà di seguire la figlia Bianca a Zurigo. Tornerà a Milano nel 1915. A questo periodo risale la frequentazione e l’amicizia con Margherita Grassini Sarfatti, la definitiva rottura con il socialismo turatiano e l’avvicinamento alle posizioni interventiste sostenute dal Popolo d’Italia diretto da Benito Mussolini.

Nel 1917 uscì Le solitarie, prima opera in prosa, una raccolta di ritratti di donne, diverse per ceto, età e condizioni economiche, ma accomunate dalla struggente consapevolezza della solitudine e del rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere la loro vita. Nella breve lettera dedicata a Sarfatti che apre il volume, Ada dichiara di aver voluto raffigurare «umili scorci di vite femminili sole a combattere: malgrado la famiglia, sole: malgrado l’amore, sole: per colpa propria o per colpa degli uomini e del destino, sole». Grazie ai proventi di questo libro, Ada fu in grado di comprarsi una casa dove andrà a vivere con la madre e la figlia.

Due anni dopo, nel 1919, uscì Il libro di Mara, raccolta di 41 testi poetici in versi lunghi che esprimono il tormento e la passione di un amore sconfinato dopo la morte dell’amato (probabile eco di un amore troncato dalla morte dell’uomo a lei caro a causa dell’epidemia di febbre Spagnola), considerato il vertice della sua produzione in versi. «Ada Negri raggiunge (..) una maturità artistica riconosciuta anche da Croce (“è l’opera sua più notevole”): l’irruenza del dettato, il saldo disegno della scrittura, nonostante gli evidenti debiti verso le suggestioni del D’Annunzio notturno, l’emotività esibita senza pudore, il fascino delle atmosfere trasognate, le cadenze monodiche dei ricordi rendono la vicenda molto coinvolgente, soprattutto per il pubblico femminile, a cui ancora l’autrice si rivolge, affascinandolo con la descrizione della sventurata vicenda passionale della protagonista» scrive Pietro Sarzana nel saggio: “La vita risolta in un grido” (premessa a Poesie e prose, Mondadori, Milano 2020). Il seguito della sua produzione in versi e in prosa non fu che la conferma di quanto l’autrice aveva fin qui dimostrato, con l’aggiunta di una nota di misticismo e di malinconica mestizia legata al trascorre degli anni. Fu candidata al premio Nobel nel 1926 e nel 1927.

Sono almeno due le ragioni per cui in una storia della poesia italiana (e a maggior ragione di quella femminile) non si può ignorare Ada Negri. Prima di tutto perché fu una figura di primissimo piano della scena letteraria per quasi mezzo secolo, che lasciò un segno profondo non solo nel mondo delle lettere, ma anche nel costume e, più in generale, nella dinamica socio-culturale della prima metà del Novecento. Ma se volessimo restringere il campo d’indagine alla sua produzione in versi, dobbiamo prima di tutto rendere onore a una autrice che dimostrò una grande padronanza del verso. Anche se dobbiamo riconoscere che non fu una “assoluta innovatrice” (il suo linguaggio e il suo gusto rimasero ancorati alla tradizione dannunziana), alcuni suoi componimenti della fase della maturità, specialmente quelli più brevi (che meno risentono del peso dell’impianto retorico) rappresentano dei piccoli gioielli.

La tragica vicenda umana e intellettuale di Antonia Pozzi, che si consumò proprio in quegli stessi anni, rappresenta l’esatto opposto rispetto a quella di Ada Negri. La prima fu discreta e anonima (non pubblicò nulla in vita) quanto la seconda occupò il centro della scena letteraria nazionale. Dalla prima edizione postuma, Parole. Liriche del 1939, voluta e curata dai genitori a un anno dal suicidio a soli ventisei anni, le edizioni postume delle sue poesie, diari e lettere si sono succedute in modo incessante. La sua figura è stata oggetto di un vero e proprio culto che arriva fino ai giorni nostri (nel 2009 la cineasta Marina Spada le ha dedicato il docufilm Poesia che mi guardi; nel 2014 i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno realizzato sullo stesso argomento il documentario Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa mentre nel 2016 mentre Ferdinando Cito Filomarino ha diretto il film Antonia dedicato alla sua biografia). Il gioco degli opposti potrebbe essere esteso anche all’estrazione sociale, essendo la Pozzi figlia di una contessa e di un importante avvocato milanese. Allo stesso modo la “rimozione” della Negri dal canone novecentesco può essere letto come speculare al culto della Pozzi.

Decisiva fu l’edizione Mondadori (la terza contando quella a cura dei familiari) del 1948 di Parole. Diario di poesia con prefazione di Eugenio Montale, citata anche da Spagnoletti nella sua Antologia della poesia italiana (1909-1949) edita da Guanda nel 1950, che ne sancì l’ingresso nel canone della poesia novecentesca, in cui Spagnoletti scriveva: «Antonia Pozzi merita di uscire dal limbo tra polemico e mondano in cui trova facili consensi certa odierna poesia “controcorrente” – dice Montale nella prefazione a Parole. Infatti tale era sembrata, al suo primo apparire, la gracile lirica della Pozzi: una poesia da “adoperare” contro i cultori dell’ermetismo, una poesia tutta di cuore, di domande fresche e patite». Malgrado gli studiosi in seguito abbiano messo in guarda da un abuso della nozione di “spontaneo” o, peggio ancora, di “autentico” (spesso in contrapposizione alle artificiose alchimie dell’ermetismo) in relazione alla sua poesia, era inevitabile che proprio questi fossero i motivi alla base di un successo presso una vasta cerchia di lettori. Non c’è niente di male, anche perché proprio questa è la prima impressione a una prima lettura.

A questo fenomeno probabilmente non è estranea la figura di un’altra grande “poetessa postuma”, ovvero Emily Dickinson (di cui Einaudi ha appena pubblicato la raccolta Poesie a cura di Silvia Bre ndr), che proprio in quegli anni cominciava a essere nota anche in Italia, funzionale alla “narrazione” dell’inizio di un nuovo ciclo (in questo caso della poesia novecentesca) per mezzo del «sacrificio rituale di una vergine». Per il resto, riguardo ad Antonia Pozzi, rimando il lettore al saggio a lei dedicato nel presente lavoro da Martina Benigni.

Diverso il caso di Sibilla Aleramo, che cominciò a pubblicare le proprie poesie quindici anni dopo il suo fortunato esordio nel campo della prosa col romanzo Una donna, che uscì nel 1906, considerato uno dei primi romanzi femministi italiani, di chiara ispirazione autobiografica e che ottenne quasi subito un successo internazionale (da allora in poi si firmò con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo). L’incontro con il verso fu inatteso e improvviso, quasi una rivelazione: «avevo oltrepassato di qualche anno la trentina quando i primi ritmi erano sbocciati in me, un’estate solitaria in Corsica, in un trapasso inavvertito dalla prosa a una libera versificazione. Proprio in quello stesso mese avevo principiato a stendere qualche periodo del mio secondo libro Il passaggio, e anche lì, per la prima volta, il mio mondo intimo si esprimeva con movenze e accenti lirici… che cosa avesse determinato sotterraneamente questa specie di accensione, di conquista, anche questo non potrei dire. Fino ad allora m’ero ritenuta negata alla poesia… forse perché digiuna di studi classici, e perfino di qualsiasi cognizione di metrica», scrive in Gioie d’occasione e altre ancora. Questo episodio si è svolto nel 1910, in un periodo di inquieto vagabondare tra città (Napoli, Firenze, Roma, Milano) e luoghi di villeggiatura (Corsica, Capri, Sorrento) tra varie e numerose relazioni di diversa lunghezza e intensità con poeti, letterati, intellettuali e artisti (tra cui Cena, Damiani, Cardarelli, Campana, Boine, Papini, Quasimodo, Evola e molti altri) ma anche ricchi imprenditori e atleti (non mancò una breve parentesi saffica con la studiosa di lettere classiche Lina Poletti, che diventerà la protagonista del romanzo Il passaggio). In Momenti, la silloge d’esordio del 1921, Sibilla raccoglie i frammenti lirici di otto anni, quaranta componimenti che paiono scritti di getto (nel titolo è già espresso il loro carattere rapsodico), in gran parte brevi, nei quali la dimensione erotica è prevalente e piuttosto esplicita, in cui la scrittrice cerca di catturare l’attimo che fugge. Appaiono quasi come pagine di un diario che si è scritto da sé, a cui l’autrice ha solo prestato la sua mano. Se vogliamo la sua poesia è una espressione verbale di sensazioni e ciò rappresenta, allo stesso tempo, il suo limite (la poca cura della forma e la superficialità) e il suo punto di forza (libera spontaneità, leggerezza). Le sue poesie, almeno fino alla terza raccolta Sì alla terra, del 1934, possono essere considerate una testimonianza delle passioni e delle inquietudini di una donna che fece della propria libertà il valore supremo.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale finalmente si arriva al suffragio universale e per la prima volta nelle elezioni amministrative del 1946 le donne sono chiamate al voto. Nell’Assemblea costituente, nello stesso anno, vengono elette sei donne. Due anni dopo, nel 1948, esce lo straordinario Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, probabilmente uno dei migliori romanzi italiani del Novecento.

Nel campo della poesia, il debutto più importante nell’immediato dopoguerra fu quello di Margherita Guidacci, che nel 1946 pubblicò La sabbia e l’angelo. Aveva ventisei anni (era nata a Firenze nel 1921) e si era laureata nel 1943 con una tesi su Ungaretti. La sua poesia però nulla aveva a che fare con Ungaretti. Dichiarò in seguito l’autrice: «Il mio vero cammino cominciò nel 1946 con La sabbia e l’angelo, in cui cercai di dominare, esprimendolo, il dominante senso di morte che aveva gravato su di noi nei terribili anni della guerra». In un suo intervento in una conferenza così descrisse la sua silloge d’esordio: «Erano delle sentenze, delle massime molto brevi, scritte però quasi in una forma di prosa, per lo meno di versetto biblico, il che era completamente contrario alla prassi del tempo che era tutta di derivazione ungarettiana e quindi con le parole sgocciolate in un effetto visivo tutto verticale. Le mie poesie invece erano tutte orizzontali».

Figlia unica, Margherita aveva perso a dieci anni il padre amato, che sui prati di Scarperia, nel Mugello, dove da secoli la famiglia aveva terre e una vecchia casa d’epoca medicea, le aveva insegnato a riconoscere le costellazioni. Chiusa in una timidezza forte come l’orgoglio, ebbe un’infanzia solitaria e pensosa, vivendo con la madre e la nonna. Dedita intensamente allo studio e alle letture, a otto anni aveva già scritto «varie novelle e un paio di commedie». «Nella vita ero entrata, per così dire, a ritroso, senza staccare lo sguardo dal termine che ci attende sulla terra, il disfacimento della carne. E quel termine mi riempiva di tanto terrore da esercitare su di me una specie di sinistro incantesimo», aveva dichiarato in una intervista la poetessa nel 1958 (dal titolo “La morte come vita”, pubblicata su Il Popolo il 5 gennaio 1958)

De Benedetti sarà stato il primo a recensire La sabbia e l’angelo dalle colonne de L’Unità nel gennaio del 1947, colpito dalla forza e dal carattere di quella nuova voce poetica, impossibile a spiegarsi con antecedenti e frequentazioni, quantunque colta e ricchissima di echi (negli anni tra il ‘46 e il ‘47 Margherita già commentava e traduceva John Donne, T.S. Eliot, Emily Dickinson, maestri di cui si nutrì).

A distanza di anni si comprese meglio l’assoluta e dirompente novità che la comparsa di questa silloge rappresentò rispetto alla scena letteraria di quegli anni, che a partire dalla fine degli anni Trenta era dominato dall’ermetismo. Convenzionalmente il saggio di Carlo Bo comparso su Il frontespizio nel 1938, Letteratura come vita viene considerato il suo manifesto. In realtà l’ermetismo non fu un movimento, quanto piuttosto un gusto o una tendenza, attorno al quale vi fu una convergenza tra giovani poeti in quegli anni, verso una poesia pura agganciata ai modelli del simbolismo europeo, Mallarmé e Rilke in primo luogo (tra gli italiani, Il porto sepolto di Ungaretti fu considerato un modello di riferimento). Firenze, dove nel 1927 si era trasferito Eugenio Montale (vi rimase fino al 1948) fu il centro dell’ermetismo. La rivista Campo di Marte, che fu attiva solo un anno (dall’agosto 1938 all’agosto del 1939, quando venne soppressa d’autorità dalla censura fascista), diretta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, insieme alla più longeva Letteratura diretta da Alessandro Bonsanti, sono considerate le pubblicazioni di punta di questo movimento. Attorno a questi due periodici si raccolsero gli scrittori e i poeti più promettenti della loro generazione, tra cui Tommaso Landolfi (che si era laureato a Firenze nel 1932), Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini e molti altri. I giovani poeti toscani Mario Luzi, Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari (tutti e tre nati nel 1914), protagonisti della “generazione dell’ermetismo”, cominciavano a farsi conoscere proprio in quegli anni. Le loro poesie erano accomunate dal culto della parola “assoluta”, che travalica la concreta realtà e la storia, alla ricerca di un senso collocato in un piano superiore. La Guidacci crebbe in questo ambiente, ma seguì una strada completamente diversa. «Uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza» dichiarò successivamente, una presa di posizione che ricorda la reazione degli acmeisti russi (tra cui Anna Achmatova in primo luogo) nei confronti della poesia simbolista.

Prima della silloge d’esordio, nei Consigli a un giovane poeta (che pubblicò molto dopo) la poetessa provò a chiarire, prima di tutto a se stessa, le ragioni della sua poetica. Il primo di questi cinque punti diceva: «Meglio scrivere un libro importante nel deserto / dirgli sei figlio del deserto, qui sei nato e qui rimani,/ solo le pietre e il vento ti avranno conosciuto,/ che diventare celebri per equivoco». La sabbia e l’angelo, concepito e scritto nelle tragiche circostanze di quegli anni, venne al mondo senza alcuna soggezione o paternità. «Il mio primo libro, in certo senso, era monodico e corale al tempo stesso. Era un libro scritto nell’immediato dopoguerra e che cercava soprattutto una comunione con i morti. Avevo il senso che la poesia fosse fosse la sola cosa che poteva, in qualche modo, mettere ancora in comunicazione i due mondi. Infatti, la poesia d’apertura diceva: “Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli. / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi e i morti”» – dichiarò in proposito la poetessa.

La sua silloge d’esordio, anche se non fu ignorata dalla critica, si collocò in una posizione marginale rispetto alla tendenza allora dominante nella poesia italiana. Essa tuttavia rappresenta non solo il punto più alto nella creazione letteraria dell’autrice, ma, grazie a l’altissima tensione e la densità dei suoi versi («Non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente, a morire» dichiarò in seguito l’autrice), anche uno dei capolavori della poesia novecentesca italiana. La critica ci mise qualche anno ad accorgersene. Il nome della Guidacci apparve nel 1954 per la prima volta in una antologia di poesia contemporanea grazie Piero Chiara e Luciano Erba, i curatori di Quarta generazione. La giovane poesia (1945-54); quattro anni dopo, nel 1968, Salvatore Quasimodo la incluse nella sua antologia Poesia italiana del dopoguerra, e dieci anni dopo, nel 1964, Giacinto Spagnoletti la inserì nella sua antologia Poesia italiana contemporanea (1909-1959), ideale continuazione e aggiornamento di quella summenzionata del 1954 in cui erano incluse Antonia Pozzi e Alda Merini (dieci anni dopo entrerà, oltre a quello della Guidacci, entrerà anche il nome di Sibilla Aleramo).

Ben diverso è il caso di Maria Luisa Spaziani, nata a Torino nel 1924 in seno a una agiata famiglia di imprenditori industriali. Esordì nel 1954 con Le acque del sabato e venne immediatamente notata e inclusa nella citata antologia curata da Piero Chiara e Luciano Erba. La stessa autrice, nella prefazione dell’auto-antologia Poesie (1954-1996) a proposito di questa silloge scrisse: «appartiene, vorrei dire, alla mia preistoria esistenziale, agli anni in cui ero ancora in famiglia a Torino. Dirigevo a diciannove anni una piccola rivista che si chiamava “Il dado” attraverso la quale mi trovavo in corrispondenza o avevo fatto amicizia con alcuni poeti e scrittori ai quali sarei stata vicina tutta la vita, da Mario Luzi a Sandro Penna, da Sinisgalli a Pratolini (..). Aleggiava ancora nell’aria l’ermetismo, e qualche viaggio a Firenze mi permise di sentirne ancora l’odore vivo. Ma in quegli anni (1953) si aprì un inaspettato spiraglio, che si sarebbe poi rivelato un torrente di luce, e cioè ebbi la mia prima borsa di studio a Parigi. L’ultima parte de Le acque del sabato reca notizia di questa fulminante scoperta. All’acquarello così educato ed ermetizzante delle prime poesie si affiancarono i colori di una vita e di un ambiente diverso, scoperte ed emozioni». Da questo racconto possiamo cogliere le ragioni e il carattere della sua poesie, che si colloca sulla scia dell’ermetismo, e più in generale nel rispetto della grande tradizione dell’endecasillabo, misura che la Spaziani si dimostrò in grado di padroneggiare con estrema maestria. Nel gennaio del 1949, durante una conferenza del poeta al teatro Carignano di Torino, conobbe Eugenio Montale, che frequentò in seguito a Milano. Ne nacque un importante sodalizio intellettuale e umano che lasciò un segno importante anche nelle liriche della giovane torinese. Queste furono le premesse di una lunga e feconda produzione poetica di ottimo livello nel solco della migliore tradizione della prima metà del novecento. Quando, nel 1966, Spaziani diede alle stampe Utilità della memoria, sua seconda silloge, sulla scena letteraria italiana si già manifestata l’esigenza di un cambiamento, un rinnovamento invocato a grande voce dalle cosiddette “neo-avanguardie” (“gruppo 63” e dintorni).

Un caso unico e singolare è quello di Amelia Rosselli, la poetessa che, forse per via di un equivoco, sembrò più vicina alle istanze di rinnovamento delle neo-avanguardie. Era nata a Parigi nel 1930 da Marion Catherine Cave e da Carlo, l’antifascista esule che nel 1937 verrà ucciso per ordine di Mussolini insieme al fratello Nello. Poco prima dell’occupazione della Francia da parte della Germania nazista, la famiglia parte per gli Stati Uniti, ma nell’immediato dopoguerra tornerà in Italia, dove però la madre non riesce ad ambientarsi. Intorno agli anni Cinquanta Amelia si stabilisce a Roma, dove tenta di portare a termine, senza successo, studi di filosofia e di musicologia e comincia a scrivere in inglese e francese. Lavora come traduttrice e consulente editoriale. Intorno alla metà degli anni Cinquanta comincia a scrivere anche in italiano. Alcuni suoi componimenti vennero apprezzati da Pier Paolo Pasolini, che li fece pubblicare su Il menabò nel 1963. L’anno successivo vide la luce Variazioni belliche, la sua prima silloge, che sembrò a molti un compendio di quel rinnovamento invocato dal Gruppo 63. Pier Vincenzo Mengaldo, che la inserì, unica presenza femminile, nella sua antologia Poeti italiani del novecento, scrisse: «La formazione plurilingue (..) da lei finalizzata alla ricerca di una sorta di “linguaggio universale”, sta in parte all’origine della lingua vistosamente deviante delle due prime raccolte: che fra lapsus, barbarismi e innovazioni calcolate perverte – o semplicemente ignora – la norma scritta (e orale) italiana a tutti i livelli, grafia e morfologia, sintassi e lessico. Ma l’aggressione disgregatrice perpetrata da questi “versi fatti con furore di distrazione” pochissimo o nulla ha in comune con lo sperimentalismo guidato e tecnologico della neo-avanguardia (..) ed esattamente opposto è l’esito: una scrittura, o una scrittura-parlato, intensamente informale, in cui per la prima volta si realizza quella spinta alla riduzione assoluta della lingua della poesia a lingua del privato, che si ritrova quindi in non pochi poeti post-sessantotteschi».

Senza dubbio la poesia della Rosselli fu audace e innovativa; aprì nuovi orizzonti linguistici al di là dell’italiano letterario novecentesco fino a quel momento praticato, da D’Annunzio a Montale passando per i poeti ermetici, e per questo venne da molti a torto assimilata a una sorta di nostrano poeta “beat”, ma fu e rimase un fenomeno circoscritto negli ambienti degli accademici e di pochi intellettuali, per un semplice motivo: le sue poesie non riescono (per una precisa scelta dell’autrice) a generare alcuna empatia nel lettore comune (questa potrebbe essere l’unica spiegazione della sua esclusione dall’antologia Poesia italiana del Novecento edita nel 1980 dalla Garzanti, che contava ben sette presenze femminili).

Ma il compito di aprire la nuova stagione post-68 spetta ancora una volta a Margherita Guidacci e alla sua Neurosuite (1968-1969), edito da Neri Pozza nel 1970, legato a una permanenza in una clinica psichiatrica a seguito di un esaurimento, libro potente, coerente, capace di coinvolgere e travolgere il lettore. Scrive Maura Del Serra (Introduzione a Le poesie, la raccolta quasi integrale della sua produzione in versi uscita nel 1999) che in Neurosuite lo shock e l’esperienza della clinica neurologica «estende a categoria corale la frantumazione solipsistica innescata dall’angoscia depressiva, in una tragica solidarietà con-senziente con gli altri malati, vittime della tetra, carceraria “città murata” dantesca e kafkiana” Lì Guidacci compiva il suo “eloquente viaggio al termine della notte”». Per comprendere la portata di questa pubblicazione dobbiamo immaginarci una poetessa che grazie a Quasimodo e Spagnoletti dalla seconda metà degli anni Cinquanta era entrata nel canone della poesia contemporanea, dopo La sabbia e l’angelo aveva pubblicato altre tre raccolte, riproposte in una antologia uscita con Rizzoli nel 1965. Poco dopo ci fu il crollo nervoso e il ricovero. Neurosuite è un racconto della discesa negli inferi dell’ospedale psichiatrico (sono numerosi i riferimenti all’inferno dantesco), con riferimenti concreti alla condizione dei malati di mente, come nell’eloquente Incoronazione – elettrochoc: «Questa è la tua corona con le crudeli gemme / ad ogni altro invisibili / i cui lampi improvvisi ti traversano l’anima: / smeraldi rubini topazi / diamanti che ti accecano / in una danza elettrica, / razzi sfrenati nell’interna tenebra. // Dopo sei come il rovo /spogliato della breve fioritura / e chiuso nei suoi neri aguzzi spini./ Da che rivoluzione / emergi? Quale folla / hai dovuto affrontare? Che nemico / guidava la battaglia? / Forse hai cambiato il trono/ con un patibolo, / forse ti hanno promesso ancora gloria / di là da un lungo esilio. / Nulla sai, nulla puoi ricordare / mentre premi smarrita / le mali sulle tempie: / vuoto dentro e la traccia degli elettrodi». Le poesie di questa raccolta furono scritte poco dopo il ricovero, in pochi mesi tra la fine del ‘68 e l’inizio del ‘69. A proposito scrive l’autrice: «Anche Neurosuite aveva una sua coralità: c’era il senso che il “male” non era soltanto mio, e non era neppure degli altri malati, ma il “male” del mondo che si rifletteva in ciascuno di noi. Quindi non si trattava soltanto del singolo, ma si trattava di tutto il mondo che era malato: doveva guarire anche il mondo se si voleva che guarissero i singoli».

Con questa pubblicazione la poetessa fiorentina tocca per la seconda volta un vertice assoluto della sua creazione poetica; indirettamente, in senso metaforico, i versi di questa raccolta possono essere considerati lo specchio di quel doloroso travaglio politico, culturale e antropologico che stava attraversando la società italiana partire dal ‘68 (data che coincide col suo ricovero nell’ospedale psichiatrico).

Con la cosiddetta “seconda ondata femminista”, parte della “stagione dei movimenti”, partendo dal dato ormai acquisito della parità dei diritti, si passò a mettere in discussione l’istituto della famiglia: per la prima volta furono passate al vaglio le relazioni tra i suoi componenti non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello umano. Vennero così alla luce tutti quei “disastri umani” fino a quel momento tenuti nascosti tra le mura della “famiglia borghese”.

Il tessuto costituito dall’associazionismo, dalle case editrici e, a partire dal 1976, dalle radio libere, costituì la premessa per la diffusione di una nuova cultura giovanile. Il femminismo, per la prima volta in Italia, divenne in questi anni un movimento di massa. A questo clima è legata la menzionata antologia Donne in poesia di Biancamaria Frabotta, grazie alla quale la generazione delle poetesse nate negli anni Venti (Guidacci e Spaziani) consegnava il testimone a quella degli anni Trenta, vagamente e variamente legata alle neo-avanguardie (Rosselli, ma anche Piera Oppezzo, Rossana Ombres, Giulia Niccolai e Dacia Maraini). C’era anche l’alba della generazione degli anni Quaranta (Patrizia Cavalli, nata nel 1947, che allora aveva ventuno anni). Questa “massa critica” fu in grado di rompere il silenzio e far uscire la poesia delle donne da quella condizione di marginalità a cui era stata fino a quel momento relegata. Ciò permise anche l’emergere di alcune voci femminili al di fuori degli schemi generazionali e delle correnti letterarie, come la geniale outsider Daria Menicanti, che era stata compagna di studi di Antonia Pozzi all’università di Milano. Nata a Piacenza nel 1914, dopo un lungo apprendistato come traduttrice dall’inglese, pubblicò Città come, la sua prima raccolta, cinquanta anni dopo, nel 1964, per i tipi della Mondadori, che fu subito notata dalla critica per la sua abilità nel dissimulare nei suoi brevi componimenti dal tono apparentemente dimesso una conoscenza profonda della poesia basata su una solida formazione umanistica, che andava dai lirici greci fino ai poeti contemporanei (Frabotta, nella menzionata antologia, la mise in relazione a Umberto Saba e Sandro Penna). Sergio Solmi, nel presentare Poesie per un passante, la sua terza raccolta che uscì nel 1978, scrisse che la poesia di Menicanti appartiene al filone «della poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi, nei suoi poli fondamentali di amore-morte».

Nel 2022 ci hanno lasciato Patrizia Cavalli e Biancamaria Frabotta. Una enorme perdita per la poesia italiana, nella quale però la presenza femminile è diventata ormai parte integrante, come dimostra il recente successo di Mariangela Gualtieri anche nel “mainstream” (dal palco di Sanremo nel 2022 Jovanotti ha letto una sua poesia).

Lorenzo Pompeo è critico letterario, scrittore e traduttore

I due volumi si possono acquistare sul sito di Left

https://left.it/2023/03/21/il-lungo-cammino-della-poesia-delle-donne-in-italia-dal-novecento-a-oggi/?fbclid=IwAR2Pndur3TjqVCV5m86MctomSU6fYvIHSsQjHxqSPedVhpS5HJprelPebBA

lunedì 20 marzo 2023

sabato 25 marzo alle ore 20,45 "Donne che scrivono.Dialogo tra donne reali e virtuali.

Il nostro percorso dell'8 marzo si conclude con il sapere e saper fare di donne.
Tre scrittrici di Corsico Viviana Bardella, Imma Di Nardo e Valentina Ferrari hanno creato tre donne protagoniste che, fra stereotipi di genere, conflitti e relazioni ricercano in modo diverso un rapporto d'amore con gli uomini e conquistano consapevolezza e libertà. Tre donne che dialogano tra di loro, con noi e con la città.

    sabato 25 marzo alle ore 20,45 Saloncino La Pianta, via Leopardi 7 Corsico 
            "Donne che scrivono.Dialogo tra donne reali e virtuali."     
con Viviana Bardella   Imma Di Nardo e Valentina Ferrari   tre scrittrici di Corsico

 


venerdì 17 marzo 2023

Saraceno: “Discriminando i figli di coppie omosessuali si torna all’idea retrograda del ‘figlio illegittimo'” di Cinzia Sciuto

Secondo la sociologa, le recenti iniziative governative per il blocco delle procedure di riconoscimento all’anagrafe dei figli di coppie omosessuali sono frutto di una battaglia ideologica condotta sulla pelle dei bambini. Si torna indietro a un principio secondo il quale alcuni bambini sono figli legittimi e altri illegittimi.

Di recente due vicende hanno riportato al centro del dibattito pubblico la questione del riconoscimento giuridico dei figli di coppie omosessuali. Le due vicende sono da un lato la circolare del ministero dell’Interno che chiede ai prefetti di invitare i sindaci a non trascrivere più i certificati di nascita ottenuti all’estero in cui oltre al genitore biologico viene riconosciuto anche il genitore non biologico; dall’altro la risoluzione di una commissione del Senato che ha bocciato una proposta di regolamento europeo che si propone di uniformare le procedure di riconoscimento dei figli. Ne parliamo con la sociologa Chiara Saraceno, esperta di politiche familiari e autrice di L’equivoco della famiglia.

Prof.ssa Saraceno, che idea si è fatta di queste due vicende?

Si tratta di due vicende molto tristi, ma che non mi sorprendono affatto. Stiamo pur sempre parlando di forze politiche che avevano tanto insistito perché sulla carta d’identità ci fosse “madre” e “padre” (decisione di Salvini quando era ministro dell’Interno, poi ribaltata da un tribunale, n.d.r.).

La ragione addotta dalla maggioranza per queste decisioni è che in questo modo si aggirerebbe il divieto di gestazione per altri che vige in Italia.

Innanzitutto, il regolamento europeo cerca di dare una forma più completa a delle norme che esistono già, secondo le quali i rapporti familiari che sono legali in un Paese dell’Unione devono essere in qualche modo riconosciute anche negli altri Paesi europei, ricorrendo alle forme legali più vicine. Per cui, per esempio, il matrimonio tra omosessuali celebrato in Spagna, visto che noi non abbiamo il matrimonio per gli omosessuali, viene riconosciuto come unione civile in Italia. Questo per evitare che le persone che si spostano da un Paese all’altro si ritrovino prive di tutele. Ora se questo principio vale per gli adulti, dovrebbe a maggior ragione valere per i bambini.

Quali sono le conseguenze concrete di queste decisioni per i bambini?

Questi bambini di fronte alla legge italiana sono di fatto orfani di un genitore. Anzi, peggio, perché gli orfani di un genitore hanno comunque ancora tutta la relativa parentela (nonni, zii, cugini ecc.) mentre questi bambini per i quali l’altro genitore non è mai esistito davanti alla legge sono orfani di una intera parentela. E questo significa che, per esempio, se la coppia si separa il genitore legalmente riconosciuto ha tutti i diritti sul figlio, può quindi impedire all’altro genitore (che tale è di fatto, anche se la legge non lo ha riconosciuto) di continuare a vedere il bambino. Viceversa, il genitore non riconosciuto può sparire nel nulla, senza prendersi carico del mantenimento del figlio, dato che per la legge non ha nessun diritto ma neanche nessun dovere nei suoi confronti. Se il genitore riconosciuto muore, il bambino è automaticamente orfano e non solo il genitore non riconosciuto ma anche l’intera parentela (nonni, zii) sono per la legge inesistenti. E questo vale anche per quel che riguarda cose come l’eredità ecc. Queste sono le conseguenze più pesanti, poi ci sono quelle più “banali” ma che rendono complicata la vita di tutti i giorni: andare a prendere i bambini a scuola, dal medico, assisterli in ospedale, viaggiare con loro ecc.

Ma per risolvere tutti questi problemi non è sufficiente l’istituto dell’adozione del figlio del partner?

Lo sarebbe se fosse una procedura semplice e immediata, con un effetto fin dalla nascita. Un po’ come avviene nel caso in cui in una coppia eterosessuale un uomo riconosce come proprio il figlio che la compagna ha in grembo anche se non è suo. In quel caso basta che l’uomo dichiari “quel figlio è mio” affinché venga riconosciuto come padre legittimo. Nel caso dell’adozione del figlio del partner invece devono trascorrere diversi anni, l’altro genitore deve dimostrare di essere idoneo a fare il genitore, di avere un rapporto reale con il bambino ecc. Nel frattempo il tempo passa, e i figli rimangono senza tutele. Di fatto oggi questi bambini sono trattati esattamente come venivano trattati i figli cosiddetti illegittimi, che non potevano essere riconosciuti perché nati fuori dal matrimonio ed erano dunque figli di madre nubile, con tutte le conseguenze del caso.

Nei bambini nati da gestazione per altri si pone però un problema di diritto alla verità sulle proprie origini.

Ma questo non c’entra nulla con il riconoscimento dei due genitori. Si può benissimo riconoscere giuridicamente entrambi i genitori e allo stesso tempo garantire il sacrosanto diritto dei bambini a conoscere le proprie origini. Che poi è il dibattito che c’è stato in passato sull’adozione, attorno alla quale prima vigeva l’anonimato assoluto. Usare questo argomento per impedire il riconoscimento di entrambi i genitori è pretestuoso.

Certamente, comunque, la gestazione per altri pone dei problemi etici e sociali non indifferenti.

Non c’è dubbio, e sono questioni di cui varrebbe la pena discutere ampiamente nella società, possibilmente però senza anatemi e preconcetti ideologici. Per esempio, non si può negare che la gestazione per altri è una categoria sotto la quale ci sono situazioni diversissime fra loro ed è disonesto trattare situazioni diverse con i medesimi strumenti. Quello che è inaccettabile è che si conducano battaglie ideologiche sulla pelle dei bambini.

Ma, si dice, evitare il riconoscimento dell’altro genitore rappresenta un deterrente: se tu sai che in Italia non sarai riconosciuto, ci penserai due volte prima di ricorrere alla gestazione per altri all’estero.

Innanzitutto, questo effetto di deterrenza è tutto da dimostrare. E poi se non si vuole essere ipocriti, l’unico vero “deterrente” a ricorrere alla gestazione per altri per le coppie omosessuali (maschili, perché le lesbiche in linea di massima non hanno bisogno di ricorrervi) sarebbe consentire loro l’adozione. Ma non mi pare proprio che questo sia nel programma di questo governo. Aggiungo tra l’altro che a subire gli effetti di queste disposizioni non sono solo i figli avuti con gestazione per altri (alla quale comunque, lo ricordiamo, fanno ricorso in massima parte coppie eterosessuali), ma anche i figli di coppie lesbiche nelle quali una delle due è la gestante e l’altra talvolta è la donatrice di ovuli: in questo caso sono entrambi madri biologiche, ma per la legge italiana la madre è solo quella che porta in grembo il bambino. Colei che ha donato il suo corredo genetico – che è esattamente quello che fa il padre – non viene riconosciuta. E questo perché quello che interessa non è tutelare i bambini, ma ribadire il concetto che una famiglia è fatta da una mamma e un papà.

https://www.micromega.net/discriminazione-dei-figli-di-coppie-omosessuali-chiara-saraceno/?utm_source=substack&utm_medium=email&fbclid=IwAR2DhbhWakBIIV1lRJe2nDPmBDTDz6MBpJq-osWBBO2yEc681jVHrWTMnSY


mercoledì 15 marzo 2023

Iran, arrestate e costrette a pentirsi le 5 ragazze del balletto senza velo nel giorno della Festa della Donna

 Iran, arrestate e costrette a pentirsi le 5 ragazze del balletto senza velo nel giorno della Festa della Donna La polizia ha trattenuto le ragazze per due giorni e ha preteso che si pentissero prima di rilasciarle

Sono state costrette a pentirsi davanti alla polizia dopo essere state trattenute per 48 ore le cinque ragazze iraniane che avevano pubblicato un video in cui ballavano senza velo a Ekbatan, alla periferia di Teheran. Le ragazze avevano inscenato un balletto sulle note di Calm Down della cantante nigeriana Rema e Selena Gomez nel giorno della Festa internazionale delle donne, l’8 marzo scorso. Le immagini erano diventate rapidamente virali sui social, un affronto per le leggi iraniane che vietano alle donne di ballare in pubblico e di mostrarsi senza velo. Le ragazze sono state identificate dalla polizia anche grazie alle telecamere di sicurezza, come racconta l’account Twitter Ekbatan, per poi trattenerle due giorni, fino a costringerle a un video di pentimento.

https://www.open.online/2023/03/13/iran-balletto-ekbatan-ragazze-arrestate-balletto-senza-velo-video/

Iran: avevano ballato senza velo, arrestate e costrette a pentirsi

Avevano festeggiato l'8 marzo ballando senza velo sulle note della canzone Calm Down.

Ma, come riporta l'account twitter di Ekbatan, il popolare quartiere alla periferia di Teheran dove vivono, le 5 ragazze sono state fermate per due giorni e sono state costrette al pentimento.

Nella fotografia, riportata sull'account Twitter, le donne appaiono in piedi con il capo coperto dal velo e vestite con abiti larghi.

Sullo sfondo gli stessi palazzoni che avevano fatto da cornice al ballo in pubblico, vietato in Iran, inscenato per la festa della donna proprio per sfidare i divieti del regime.

https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/asia/2023/03/14/iran-avevano-ballato-senza-velo-arrestate-e-costrette-a-pentirsi_decaff51-9420-4a0a-9edf-1972cfe92cb8.html


domenica 12 marzo 2023

L’8 marzo “clandestino” delle donne afghane che resistono ai Talebani di Cristiana Cella

Nonostante le difficoltà e le minacce, le attiviste celebrano la giornata per ricordare che il cambiamento è sempre possibile. Anche in un Paese dove oggi violenze domestiche e persino l’uccisione di una figlia non vengono puniti

Buio. Temperature polari, neve, fango e ancora buio. Di sera la città scompare nell’oscurità. L’elettricità c’è raramente. Le luci stradali e quelle dentro le case sono spente. I passi incerti degli uomini per strada, come fantasmi. Resti di una vita che non c’è più. Miliziani ovunque, posti di blocco. Sono vestiti meglio i Talebani: buone divise, mezzi potenti, armi efficienti, ereditati dall’esercito e dagli americani. È questa la Kabul che ritrova Rehana, militante della Revolutionary association of the women of Afghanistan (Rawa) dopo una lunga assenza. Nemmeno nelle case si sta al sicuro. I miliziani arrivano, sono una cinquantina. Circondano un quartiere, chiudono le strade. Poi entrano nelle abitazioni e perquisiscono, buttano all’aria tutto. Dicono di cercare armi ma rovistano anche nella biancheria delle donne. Alcune tra le nostre amiche attiviste hanno subito questa avventura. Se sei da sola in casa, convocano un testimone maschio altrimenti non potrebbero entrare. Mostrano a tutti che hanno il controllo del Paese, seminano paura. E ci riescono benissimo.

La paura è entrata infatti nella pelle di tutti. Rehana racconta di averla davanti agli occhi ogni giorno quando prende l’autobus. Ha tempo di osservare dalla sua postazione di donna, schiacciata con le altre, in fondo. I posti buoni sono per gli uomini. Uomini spenti, sguardi opachi. Ascolta la desolazione, l’avvilimento, le storie delle donne. Si scambiano lo sconforto. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare, niente per scaldarsi, non possono comprare nemmeno un pezzo di sapone per lavarsi. Le mamme si preoccupano per le figlie. Troppo vuoto nella mente. I disturbi psichici aumentano. Non c’è scuola, né lavoro, né distrazioni, né vita sociale. I Talebani si sono mangiati i loro sogni. Chiuse in casa, spesso una sola stanza, da mesi non possono uscire. È pericoloso: i miliziani possono portarsele via.

Dopo il devastante terremoto che ha colpito Turchia e Siria il 6 febbraio molti hanno preso d’assalto l’aeroporto di Kabul, con l’obiettivo di salire sugli aerei che partono per portare soccorso: file di automobili come nell’agosto 2021, tanti venivano anche da altre province. La Turchia è la meta da raggiungere a qualsiasi costo: i Talebani sono spiazzati, fanno fatica ad arginare l’assalto, si spara fino a tarda sera. La gente, in città, pensa che ci sia stato un attentato. Khader non è riuscito a partire: “Comunque qui si muore. Preferisco perdere la vita sotto le macerie di un terremoto che qui”.

https://altreconomia.it/l8-marzo-clandestino-delle-donne-afghane-che-resistono-ai-talebani/?fbclid=IwAR0Ho8ZNtw11oCs4BDgRUayl97WEfL3zhyuyeoKWC0BEWNAFQGj71xKssdk

venerdì 10 marzo 2023

2013 - 2023 Dieci anni di ventunesimodonna

L'8 marzo 2013 viene costituita da un gruppo di donne di Corsico l'associazione “ventunesimodonna”,  nel nome l'auspicio che il XXI secolo possa essere il secolo delle donne, il tempo in cui le donne possano essere protagoniste visibili della storia, presenti in tutti i luoghi in cui si decide.

L'8 marzo è una giornata in cui si riflette sulla storia delle donne, sui percorsi fatti per la conquista dei diritti, sulla possibilità che i diritti vengano sfilati, sulla necessità di rivendicarne nuovi. 

E' il tempo dei bilanci. 

Si guarda con orgoglio la strada percorsa, i punti sempre più numerosi in cui il tetto di cristallo viene bucato e le donne sempre più frequentemente occupano posti fino a poco tempo fa di esclusiva pertinenza maschile.

Si sostengono e si sta accanto alle coraggiose donne che rischiando la vita, nei luoghi governati da “uomini che odiano le donne”, lottano e resistono contro il sistema di discriminazione e oppressione maschilista che vuole avere il controllo totale delle loro vite. 

In questo terzo decennio del XXI secolo sentiamo un vento nuovo che porta spore di Donna, Vita, Libertà, Pace su cui le donne si stanno mettendo in cammino su una nuova strada...

Buon viaggio.

giovedì 9 marzo 2023

Tre grandi donne di Milano che hanno fatto la storia diPaola Breda

Ecco tre grandi donne di Milano che hanno lasciato la loro firma in modo indelebile nella storia della nostra città, e non solo.

3 grandi donne di Milano per la Festa della donna

Milano è una grande città, ma non sarebbe stata la stessa senza l’aiuto di grandi donne che hanno contribuito alla sua importanza, oltre che culturale, anche simbolica.

In particolare, oggi vi parliamo di tre donne, molto conosciute non solo a Milano ma in tutto il mondo e che hanno segnato la storia della nostra città e del mondo intero.

Scopriamo insieme la loro storia!

Gae Aulenti

Forse questo nome vi potrà suonare familiare… stiamo proprio parlando della famosa architetta che da il nome a pizza Gae Aulenti.

Friulana di nascita, milanese di adozione, Gaetana Emilia Aulenti, più conosciuta come Gae Aulenti, è stata una dei più importarti designer e architetti italiani.

Nel 1953 si laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano, formandosi proprio durante il periodo Neoliberty della città meneghina.

Da quel momento, il recupero dei valori architettonici del passato è diventato il punto di partenza della sua missione.

Dall’arredo urbano di piazzale Cadorna, alla ristrutturazione dell’appartamento di Gianni Agnelli e dello “Spazio Oberdan”, senza dimenticarci del percorso d’ingresso attraverso Parco Sempione, realizzato in occasione della XII Triennale di Milano nel 1960.

Durante la sua carriera, Gaetana vanta lavori architettonici in Italia e all’estero, a dimostrazione anche del forte carattere della donna.

Tutto ciò, testimonia anche il coraggio di intraprendere un mestiere principalmente maschile, diventando però uno dei più grandi firme dell’architettura italiana e mondiale.

Liliana Segre

Una delle principali testimoni italiane della Shoah, vittima dell’Olocausto e delle leggi razziali di cui è stata vittima all’età di otto anni.

Nata a Milano in via san Vittore nel 1930, il vissuto di Liliana, che lei stessa si impegna a divulgare da inizio anni Novanta, è una delle storie più importanti del nostro paese, se non una delle più significative, così come il suo impegno costante nel far si che ciò che è successo, non si ripeta più.

Queste sono le parole della Senatrice in occasione della Giornata della Memoria 2023:

Una come me ritiene che tra qualche anno (sulla Shoah) ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella

Alda Merini

Concludiamo questo articolo con una delle poetesse del Novecento più importanti di Milano, Alda Merini.

Nei suoi testi, infatti, si capisce subito l’amore che la scrittrice provava per la sua città, in particolare per i quartieri popolari dei Navigli, dov’è nata e cresciuta.

Celebre la sua poesia “A tutte le donne” che tengo, con particolare affetto, a dedicare a tutte le donne in occasione del prossimo otto marzo:

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso

sei un granello di colpa

anche agli occhi di Dio

malgrado le tue sante guerre

per l’emancipazione.

Spaccarono la tua bellezza

e rimane uno scheletro d’amore

che però grida ancora vendetta

e soltanto tu riesci

ancora a piangere,

poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,

poi ti volti e non sai ancora dire

e taci meravigliata

e allora diventi grande come la terra

e inalzi il tuo canto d’amore.

grandi donne milano

Alda Merini

https://www.coolinmilan.it/grandi-donne-milano/?fbclid=IwAR2ZYtmR_vLx0wBza0GaqAoucCYoe8jXPXae1xapFOrWAf0p0R6esocOF_Y

martedì 7 marzo 2023

L’8 marzo quest’anno è dedicato a Mahsa Amini e alla lotta per la libertà di SIMONA SIRIANNI

È alle donne iraniane che mettono a rischio la loro stessa vita per riprendersi la libertà che sarà dedicata la Giornata Internazionale dei diritti della Donna. Parte oggi la campagna realizzata dal Governo #ilcoraggioèdonna

Mahsa Amini è morta in Iran dopo essere stata arrestata perché non aveva indossato il velo come imposto dal regime islamico e da quel momento le donne iraniane hanno cominciato a far sentire la loro voce per vedere riconosciuti e rispettati i propri diritti fondamentali.

8 Marzo per le donne che lottano in Iran

È a loro dunque e al loro lottare a scapito della vita stessa che sarà dedicato questo 8 marzo. Verrà lanciata da oggi 6 marzo la campagna #ilcoraggioèdonna che celebra la Giornata Internazionale dei diritti della Donna voluta dalla ministra per la Famiglia e le Pari opportunità Eugenia Roccella. 

È alle donne iraniane e afghane che combattono per tutte le donne che giustamente quest’anno viene dedicata l’8 marzo

Che cosa vuol dire essere libere

Sarà la voce di Pegah Mostri Pour, attivista e content creator lucana di origine iraniana, a spiegare cosa vuol dire essere libere: «Vuol dire poter studiare e decidere chi diventare. Poter uscire di casa con i capelli scoperti senza paura di essere arrestate o di perdere la vita. Avere l’opportunità di guadagnarsi da vivere e veder riconosciuto, equamente, il proprio lavoro. Vuol dire scegliere di costruire una famiglia in pace, lontano dalla violenza e dalla guerra. Il coraggio è donna come la libertà».

Una voce in Italia per tutte le iraniane

Il nome di Pegah Mostri Pour è diventato popolare, quando, dopo la morte di Masha Amini, in Iran sono esplose delle proteste senza precedenti. Quando aveva 9 anni, Pegah è stata costretta a lasciare Teheran per arrivare in Basilicata assieme alla sua famiglia.

In quegli anni, le violenze e la repressione del regime islamico si fecero fortissime, al punto da indurre diverse famiglie a scappare dal paese. Per questa ragione oggi la sua voce è tutta a sostegno delle proteste delle donne e degli uomini, esplose dopo la morte di Masha Amini.

8 marzo: una giornata di riflessione, non di divertimento

Ed è proprio a queste donne che combattono per tutte le altre che giustamente viene dedicata la Giornata Internazionale dei diritti della Donna, non un’occasione per divertirsi o uscire a cena, ma un’occasione per riflettere su un tema fondamentale quale la libertà degli esseri umani di essere e diventare ciò che desiderano. Senza che nessuno arbitrariamente possa cancellare dall’oggi al domani diritti fondamentali.

I diritti non sono mai acquisiti per sempre

Anche perché, ahinoi, nessuno può dirsi salvo per sempre. I diritti conquistati, purtroppo, vanno difesi sempre, perché basta un attimo di disattenzione perché vengano tolti. Si vede spesso anche in Paesi, compresa l’Italia, che non hanno certo problemi di democrazia. 

Parla chiaro, in questo senso, l’abolizione da parte della Corte Suprema in alcuni Stati americani della storica sentenza Roe v. Wade che nel 1973 aveva riconosciuto il diritto all’interruzione di gravidanza tornando di fatto a renderlo vietato.

E parla chiaro, anche in Italia, quando si sente troppo spesso parlare di ritoccare la legge 194 sempre sull’aborto.

8 marzo: quanto forti sono ancora gli stereotipi?

Ma è chiaro anche quando sondaggi e analisi della società mostrano quanto gli stereotipi siano ancora fortemente presenti. E si sa, che passare dalle credenze alla negazione dei diritti, è davvero un soffio. 

È interessante osservare la fotografia scattata da Taskrabbit, il network globale che mette in contatto chi ha bisogno di una mano per lavori dentro e fuori casa con tasker competenti e affidabili, per capire che c’è ancora molto da fare.

Di fronte alle attività domestiche, infatti, sembra che la differenza di genere si faccia ancora sentire, tanto che gli uomini si fiderebbero più di una donna che di un uomo per pulire la casa (77% vs 41%), per riordinare i vestiti nell’armadio (79% vs 39%) e per stirare (76% vs 36%). 

Una donna che aggiusta un tubo? Poco affidabile per gli uomini e per le donne

Stereotipi di genere che vengono confermati anche per le attività di manutenzione della casa: il 29% degli uomini si fiderebbe poco o niente di una donna per riparare un guasto elettrico, il 27% non le farebbe mai aggiustare un tubo che perde e il 24% metterebbe in dubbio il risultato di un lavoro di falegnameria se a farlo fosse una donna. 

Queste percezioni, seppure in proporzione minore, vengono condivise anche dalle donne stesse: il 22% di loro non si fiderebbe di una persona dello stesso genere per le riparazioni elettriche, il 18% non pensa che le donne siano in grado di aggiustare un tubo che perde e il 17% non sarebbe sicura del risultato di un lavoro di falegnameria se a farlo fosse una donna.

https://www.iodonna.it/attualita/eventi-e-mostre/2023/03/06/8-marzo-dedicato-a-mahsa-amini-lotta-liberta-ilcoraggioedonna/?fbclid=IwAR11CHohGmbt_qLkRdm2HEm1P5mOE6g_M9e6knaegP6yQ5eBcdrqBH9i-P8

Lama, 18 anni: "Io, afghana e il mio 8 marzo senza diritti"

Il racconto di una giovane attivista di Kabul: "Per me l'8 marzo non c'è nulla da festeggiare. I talebani ci hanno tolto la libertà di scegliere, srtudiare, uscire di casa"


“Oggi per me non è la festa delle donne. Qui per noi non c'è nulla da festeggiare. Oggi è il giorno di chi vive umiliato, imprigionato in un paese allo stremo. I talebani hanno tolto i diritti alle donne, la libertà di scegliere, studiare, uscire di casa sole o lavorare. E il peggio è che dopo tante promesse l'Occidente ha dimenticato l’Afghanistan e tutti noi che restiamo qui. A combattere di nascosto, rischiando la vita, uomini e donne, per il diritto di esistere e scegliere”.

Lama, 18anni, un nome falso per difendere la identità di una studentessa diciottenne, attivista per i diritti delle donne, vive a Kabul. Tra forza e sconforto racconta i giorni delle bombe, l‘arrivo dei talebani, i sogni spezzati, le speranze. Le sue parole si ritrovano in quelle di registe, fotografe, manager, attiviste, scappate in autunno o rimaste in patria che testimoniano, nel documentario "Noi donne afgane" (regia di Anna Migotto e Sabina Fedeli per la3Dproduzioni, in onda  questa sera su Sky documentaries) la voglia di lottare, il rifiuto delle donne di Kabul ad arrendersi al sopruso.

Com'è la situazione ora?

“Non possiamo andare a scuola né uscire senza un uomo accanto, non possiamo lavorare. E questo, oltre a farci sentire prigioniere, peggiora la crisi economica già devastante. La gente muore di fame, di freddo  perché non c'è lavoro neanche per gli uomini, non ci sono soldi per pagare il riscaldamento, accade che madri vendano figlie come spose bambine per comprare pane e mantenere gli altri piccoli. Ci sentiamo tutti senza futuro".

Lei aveva parlato con hillary Clinton dopo il ritorno dei talebani…

“Sì era stato e emozionante, ma in questi mesi purtroppo l'Occidente ci ha dimenticato, forse per lo scoppio della nuova guerra in Ucraina... La realtà è che qui c'è bisogno di aiuto economici, ma non solo. Noi eravamo convinti che il mondo si sarebbe mosso  in nostra difesa, non solo delle donne, ma del nostro paese, della libertà... Invece… ora i talebani approfitteranno di questo disinteresse per aumentare il loro potere:qui nessuno ha più diritto di libertà di parola, di pensiero, vietato vestirsi all occidentale e persino ascoltare musica”

Come era la sua vita prima?

“Ero una ragazza come tante che in jeans e truccata andava all'università, studio scienze politiche. Ora sono chiusa in casa, luogo segreto per evitare il peggio, se esco ho il velo a nascondermi il volto. Senza un uomo non posso girare  o prendere un taxi, non posso andare in università e studiare. Mi mancano gli amici, le lezioni in classe  con i professori. Mi hanno rubato il futuro. Perché il futuro, la crescita di un paese, delle donne passa per l’educazione”.

Lei non si arrende però…

“Sono figlia di mio padre che mi ha sempre appoggiata, lui non lavora con i talebani:gli sembrerebbe di essere un uomo senza onore. Mi ricordo quel giorno in cui tutto è cambiato: ero in giro a fare acquisti quando all'improvviso vedo una folla di gente che corre da una parte, file di macchine, esplosioni, poi il vuoto e io che cammino in lacrime per la strada. Ora a volte sono disperata, mi sembra di non avere più il coraggio di battermi per le altre, ma con la mia organizzazione "Empowering afgan women", e in altri modi continuo a cercare di aiutare le mie coetanee, le donne. Facciamo lezioni online, in tanti lavorano gratis per trasmettere il sapere, per non perdere una generazione”.

Cosa direbbe alle ucraine?

“Capisco il loro dolore, ho vissuto anche io le bombe esploderti accanto quando ero bambina. Penso sia insopportabili vedere il tuo paese invaso. Sono coraggiose a combattere, non bisogna mai subire in silenzio, quando sono arrivati i talebani anche qui molte donne si sono battute accanto agli uomini come potevano . La differenza che il loro presidente è rimasto, il nostro è fuggito”.

Se le donne fossero al potere?

“Ovviamente tutti avrebbero uguali diritti e non credo farebbero le guerra, penserebbero prima alle sofferenze dei loro cari e cercherebbero una mediazione.Come credo farebbe Angela Merkel, l’apprezzo per come ha affrontato il tema dell immigrazione, la crisi. Vorrei diventare come lei, nel frattempo studio. Studio per non pensare a quello che ho attorno,  studio per essere tra qualche anno un buon avvocato per difendere i diritti umani e delle donne. Perché sono intrecciati, i diritti civili devono essere uguali per tutti”.


https://www.repubblica.it/cultura/2022/03/07/news/io_donna_afghana_e_il_mio_8_marzo_senza_diritti-340659861/

Il coraggio delle donne










 

domenica 5 marzo 2023

L'8 marzo 2023 di ventunesimodonna

 Vi aspettiamo alle iniziative che abbiamo organizzato per la Giornata internazionale della donna.

Abbiamo aderito allo sciopero delle done, preparato delle letture sul coraggio delle donne  per l'incontro dell'8 marzo organizzato dall'Amministrazione comunale e organizzato la serata del 25 marzo contattando tre scrittrici di Corsico che scrivono di donne.



venerdì 3 marzo 2023

I talebani hanno vietato anche la contraccezione, è l'ennesimo attacco ai diritti delle donne DI ELISABETTA MORO

I talebani hanno interrotto la vendita di contraccettivi in ​​due delle principali città dell'Afghanistan

Sono entrati nelle farmacie e hanno ordinato di eliminare tutti gli anticoncezionali in vendita. Hanno minacciato le ostetriche dicendo loro di non promuovere idee occidentali legate al controllo delle nascite. I talebani, come ha raccontato il Guardian, hanno interrotto la vendita di contraccettivi in ​​due delle principali città dell'Afghanistan, sostenendo che il loro uso da parte delle donne è una cospirazione occidentale per controllare la popolazione musulmana. Si tratta dell'ennesimo grave attacco ai diritti femminili che avrà un impatto drammatico sulle donne afghane.

“Sono venuti due volte nel mio negozio con le pistole e mi hanno ordinato di non tenere più pillole contraccettive in vendita. Controllano regolarmente tutte le farmacie di Kabul e abbiamo smesso di vendere i prodotti”, ha dichiarato il proprietario di un negozio nella capitale. È successo a diversi farmacisti delle città di Kabul e di Mazar-i-Sharif che hanno raccontato di non poter più vendere anticoncezionali. "Articoli come pillole anticoncezionali e iniezioni di Depo-Provera non possono più essere tenuti in farmacia dall'inizio di questo mese e abbiamo troppa paura di vendere le scorte rimanenti", ha detto un altro negoziante.

In Afghanistan partorire è estremamente pericoloso e una donna afgana su 14 muore per cause legate alla gravidanza. Inoltre il Paese sta vivendo una profonda crisi economica, la popolazione è in ginocchio tra povertà e carestie: secondo Save the Children ci sono 9,6 milioni di bambini che soffrono la fame ogni giorno. Senza anticoncezionali le donne saranno esposte a continue gravidanze non volute o risultato di violenze sessuali trovandosi poi a crescere i loro figli senza poterli sfamare. "È un diritto umano fondamentale avere accesso ai servizi di pianificazione familiare e contraccezione senza coercizione", ha dichiarato al Guardian Shabnam Nasimi, attivista nata in Afghanistan che ora vive nel Regno Unito, "Autonomia e libero arbitrio sono componenti essenziali dei diritti delle donne come il diritto all'uguaglianza, alla non discriminazione, alla vita, alla salute sessuale, alla salute riproduttiva e altri diritti umani fondamentali”. I talebani stanno togliendo alle donne ogni tipo di diritto, da quello all'istruzione alla libertà di movimento. Ora, vietando gli anticoncezionali, privano le donne di una delle libertà più intime e fondamentali, la possibilità di decidere sul loro corpo, condannandole a una sorta di schiavitù riproduttiva.

https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a43004370/talebani-divieto-contraccezione-diritti-donne/