lunedì 29 ottobre 2018

L'ipocrisia della politica che si ricorda delle violenze sulle donne solo quando il carnefice è straniero Marco Furfaro Politico

 "Che un italiano violenti una donna lo posso sopportare, che lo faccia uno straniero no", diceva una settimana fa un vecchio razzista di Cascina a Piazza Pulita, paese della Toscana dove governa la sindaca leghista Ceccardi.

Dirò una cosa forse un po' forte, ma io penso che ci sia un pezzo d'Italia, rappresentato da chi sta oggi al governo, che il significato mostruoso di questa frase lo abbia metabolizzato. Che lo pensi, ma non abbia, al contrario di quel signore, il coraggio di dirlo.

Perché se posti, twitti, manifesti e strepiti solo quando una violenza viene commessa da uno straniero, implicitamente fai passare il messaggio che le violenze commesse dagli italiani sono fisiologiche. Perché io, cittadino semplice, vedo il vice primo ministro che condanna sempre e solo le violenze degli stranieri.

Dietro la punta - Salvini - c'è poi l'iceberg, cioè il suo seguito. Perdonate, ma io - che in questi giorni sto scrivendo, parlando, manifestando affinché Desirée abbia verità e giustizia - l'ipocrisia non la sopporto.

Poco più di un anno fa, Noemi, sedici anni, di Specchia, in provincia di Lecce, fu brutalmente uccisa a pietrate e sepolta tra i sassi dal suo fidanzato. Sepolta viva. Sì, avete capito bene, fu sepolta viva - dopo essere stata picchiata e trascinata - dal suo fidanzato mentre lei le gridava di fermarsi. Il suo cadavere fu occultato per dieci giorni, prima di essere ritrovato.

Sapete poi quante sono le donne uccise da ex mariti o compagni solo nei primi sei mesi del 2018? 44. In quanti ricordano il nome di queste donne? In quanti ricordano le prese di posizione di quelli che ora fanno la morale?

Dov'era Salvini e dov'erano tutti quelli che ora strepitano? Perché, sinceramente, non ricordo di averli visti al nostro fianco mentre denunciavamo i femminicidi e chiedevamo una riflessione sulla società maschilista in cui viviamo, sui dati Istat che parlano di oltre sei milioni di donne che hanno subito molestie nella loro vita, sulla proposta di introdurre l'educazione sentimentale a scuola, sui finanziamenti ai centri antiviolenza.

Non c'erano, al nostro fianco e di quelle famiglie. Non c'erano nemmeno quelli del "prima gli italiani" e "dell'Italia agli italiani". Nessuna manifestazione di Casapound, nessuna presa di posizione contro la violenza maschile, nessuna proposta di legge.

Niente di niente. Solo una maledetta ipocrisia che li fa scendere in piazza a giorni alterni, quando gli conviene a fini elettorali.

Infine. Tutto questo non riguarda solo l'ipocrisia di questa destra feroce. Riguarda anche l'incapacità della sinistra, delle forze vive della società di manifestare senza farsi dettare sempre il terreno di gioco dalla destra.

Alla sinistra tutta vorrei dire che c'è un solo modo per rovesciare l'immaginario e dimostrare che noi, sì, noi, siamo quelli che difendono le persone fragili, sempre, a prescindere dal colore della pelle o della nazionalità.

Si manifesti per Desirée, si lotti perché non accada più, si tenga ferma la complessità e non ci si arrenda agli slogan, come stiamo facendo in questi giorni.

Ma si continui a farlo anche alla prossima violenza. Quando il ministro dell'Interno farà finta di non vedere che un uomo italiano ha ammazzato una donna italiana, quando i giornali daranno la notizia con due righe in cronaca locale, quando i razzisti si volteranno altrove.

Facciamo in modo che la prossima volta (sperando che non ci sia mai) accanto a quelle famiglie, accanto a quelle donne, non si sia ancora una volta pochi, ma tanti, tantissimi. A dimostrare che alla loro maledetta ipocrisia noi rispondiamo con la credibilità di un'Italia che alle donne vuole bene davvero, non solo quando a commettere i reati è uno straniero.
https://www.huffingtonpost.it/marco-furfaro/lipocrisia-della-politica-che-si-ricorda-delle-violenze-sulle-donne-solo-quando-il-carnefice-e-straniero_a_23572506/?fbclid=IwAR1iyPSYoEgXNVsnlv774UW9XE-NBtV4aAlaGCySVKUyZYklTySRn9V5_4M

venerdì 26 ottobre 2018

Dal caso Hina al caso Desirée...di Lea Melandri. Questo articolo è apparso su Liberazione del 25 agosto 2006.

Matteo Salvini non perde tempo a fare della violenza maschile contro le donne un caso di arretratezza culturale o di "bestialità"dei migranti.

Riprendo frammenti di quello che avevo scritto sul caso Hina nel 2006.

"Se è vero, come si apprende dalle inchieste su scala mondiale, che la prima causa di morte delle donne è l’omicidio per mano di padri, mariti, fratelli, figli, amanti, vuol dire che il “boia domestico” non abita di preferenza in questo o quel paese, ma è per così dire di casa in ogni tempo e luogo. Inoltre, si può pensare che non sia solo l’ “onore” ferito dei suoi convincimenti virili, etici e religiosi, ad armargli la mano, ma anche il suo contrario: il desiderio di liberarsene. Gli uomini dunque uccidono, uccidono preferibilmente o coattivamente le donne, e questo, come si sa, è solo il traguardo estremo di una serie variegata di altre violenze per la maggior parte domestiche. Uccidono, in alcuni Paesi e culture, per ottemperanza a una legislazione arcaica desunta dalla lettura più o meno ortodossa dei testi sacri della loro religione, in altri, invece, in dispregio di tutte le leggi e i diritti acquisiti dagli Stati a cui appartengono. Uccidono sotto le dittature e sotto i governi democratici, nell’Occidente emancipato da remoti vincoli tribali e in Paesi già decimati da povertà e guerre. Uccidono per odio o amore, per affermare il loro potere o per sfuggire all’impotenza, per dare un segno di fedeltà a un ideale comunitario condiviso o per dimostrare che possono farne a meno.

Delitti di questo genere in Italia sono pressoché quotidiani, e i protagonisti finora sono stati indifferentemente connazionali e immigrati, evidenti spesso anche le analogie sia per quanto riguarda il movente che la messa in atto.

La discriminazione, lo sfruttamento, le molteplici forme di violenza che subiscono ancora le donne, parlano una lingua universale, e se sembrano talvolta “altre”, straniere tra loro, è solo per una sfasatura di tempi, di “emancipazione” -quel “ritardo” o “avanzamento” per cui il “delitto d’onore”, oggi giustamente deprecato per l’omicidio di Brescia, ha smesso di costituire un’ attenuante nei tribunali italiani solo trent’anni fa. Intervenire repressivamente, prolungando di anni l’attesa della cittadinanza per gli immigrati, vincolandola a obblighi formali di rispetto per i nostri valori e diritti sulla base magari di un test, come ha fatto lo Stato tedesco di Baden Wùrttember, oltre a essere un provvedimento di buone intenzioni ma inefficace, risulta soprattutto fuorviante per un problema che riguarda prioritariamente l’educazione, la formazione dell’individuo, le relazioni sociali, il confronto delle esperienze, l’allenamento quotidiano alla reciprocità, la conoscenza di ciò che ci rende differenti e simili al tempo stesso a tutti gli altri.

Di fronte al disagio che sta lievitando in una delicata fase di mutazione dell’Occidente, sembra che l’unica strada praticabile sia quella di “tutelare”, “monitorare”: tenere tutto sotto controllo, accumulare dati, statistiche, rapporti che finiranno regolarmente negli archivi -dopo aver rassicurato i lettori dei giornali-, salvaguardare un’immagine di ordine alzando barriere, imponendo agli immigrati un “tirocinio” o “prova” di civiltà che, a questo punto, o coinvolge anche l’Occidente, la sua storia, i suoi contraddittori “valori”, o il futuro di tutti si fa davvero inquietante."

Questo articolo è apparso su Liberazione del 25 agosto 2006.

giovedì 25 ottobre 2018

Dalla parte delle bambine. Se la A al posto della O fa paura di Manuela Cattaneo Della Volta

Un convegno a Venezia riunisce esperte ed esperti di livello internazionale sul tema della comunicazione inclusiva e paritaria e della violenza verbale con particolare riguardo alla categoria del genere
Maestra, infermiera, operaia, cameriera. E poi dottoressa, professoressa, imprenditrice. Per andare verso architetta, ingegnera, ministra, sindaca. Allora comincia a diventare difficile: cacofonico per alcuni, espressione poco elegante per altri, proprio brutto per altri ancora.
E se leggete “camionista” o “presidente”? Cosa immaginate? Se invece leggete “la camionista” o “la presidente”? Avete visto tutt’altro? O pensate a un errore di battitura?
In Italia siamo fermi qui – in compagnia di tanti altri Paesi per la verità – sul dibattito del linguaggio di genere, come è stato rilevato da un convegno vastissimo sull’argomento tenutosi a Venezia il 18 e 19 ottobre 2018.
Titolo: LIGHTS, LInguaggio parità di Genere e parole d’odio/Language, Gender and HaTe Speech, organizzato da Giuliana Giusti per Ca’ Foscari, che ha visto la partecipazione di oltre una ventina di oratori e oratrici a livello internazionale nelle discipline più svariate, in particolare della ricerca linguistica e della legislazione.
Davvero complicato rendere in un solo articolo le varie voci che si sono alternate sull’argomento e che hanno fatto fiorire domande, chiarimenti, dubbi, ulteriori ricerche, approfondimenti, commenti, pensieri. Si parte dalla grammatica, una semplice a oppure una o, per distinguere un genere da un altro: minuscoli semi, che crescono in un discorso socio-culturale-professionale dove il genere femminile cerca inclusione per trovare – spesso, non sempre – divieti con l’utilizzo di termini sessisti se non addirittura l’esclusione e l’allontanamento attraverso la modalità dello “hate speech”.
In queste quattro righe appena scritte c’è un mondo intero, un problema culturale atavico, una ricerca scientifico-linguistica in costante rinnovo e uno spazio infinito di discussione.
Ecco dunque qualche “perla” per ragionare sull’argomento: un piccolo esame di coscienza su cosa ne pensiamo del genere in genere. O meglio, ci abbiamo mai davvero pensato?
Deborah Cameron, Oxford University, ha presentato uno studio sui dibattiti in politica. Quando vengono riportati dai media, questi usano verbi differenti per le donne rispetto agli uomini. Esempio, per le donne: cigolava, ha sbottato, abbaiato, fulminava…
Mentre il verbo utilizzato per gli uomini è: “dice”.
Mat Pires, Université Bourgogne Franche-Comté, ha spiegato che lo studio della lingua scritta per includere il genere femminile, in atto da diversi anni, è di difficile realizzazione non solo perché quasi impossibile da rendere oralmente, ma anche perché differenze che si esprimono in una lingua sono improponibili per un’altra. Esempio: travailleur•se (lavoratore•trice) oppure parisiennes e parisiens diventano parisians (parigine e parigini diventano…”parigian”? Impossibile da tradurre al momento).
Pires suggerisce un vocabolario nuovo per quanto riguarda tutti i termini che potrebbero essere neutri e non lo sono: come mela-frutto e melo-albero…perché non trovare un genere universale?
Lubna Akhlaq Khan, Università di Islamabad, ha dimostrato quanto i proverbi in punjabi – la lingua più parlata in India – detti anche pietre di verità perpetuano l’ineguaglianza di genere. Ecco due esempi: “la morte della moglie è come una botta all’anca, la morte del marito è un colpo in testa”. Oppure: “nutrire le figlie femmine è come bagnare la sabbia, nutrire i figli maschi è come innaffiare i campi”.
Per inciso, la professoressa indiana ha spiegato quanto i rapporti sociali e professionali si siano evoluti negli anni in favore della parità tra i generi, eppure parlando del marito che la sostiene nella carriera ha detto: “Mi ha permesso di venire e partecipare a questo convegno”. Forse è una svista, ma è più probabile che sia l’ennesimo segnale che le donne sono le prime a dover smantellare un sistema granitico che le mette sempre in una posizione di inferiorità.
Irene Biemmi, Università di Firenze, dalla messa in atto di Polite (acronimo di Pari Opportunità nei Libri di Testo) ha mostrato cosa è cambiato a oggi nel campo dell’istruzione primaria con la direttiva di avere libri attenti all’identità di genere: nulla.
Il silenzio linguistico riflette e al tempo stesso determina l’invisibilità delle donne. Le giovani lettrici sono perciò costrette a uno sforzo continuo per leggere in messaggi, solo apparentemente neutri, la loro inclusione o la loro esclusione. Per evitare questo sforzo sarebbe sufficiente seguire alcune accortezze basilari nell’uso della lingua, come per esempio evitare gli stereotipi, l’esclusione di uno dei generi, l’irrilevanza e l’insignificanza dell’appartenenza di genere, il carattere neutro dell’informazione. Dall’analisi emerge che i libri di testo in uso sui banchi delle scuole italiane continuano a trasmettere immagini di femminilità e di mascolinità rigide e anacronistiche, che certamente non sono funzionali al rinnovamento della cultura di genere nel nostro Paese, né tantomeno alla formazione delle bambine e dei bambini.
La ricerca ha dimostrato che se c’è stato un tentativo di parificare il messaggio nei primi anni, dal 2001 si è tornati alla pubblicazione di libri di testo in cui l’incidenza percentuale del genere femminile è modesta e si sta avviando a diventare irrisoria. Stiamo parlando delle case editrici tra le più grandi e di scolastica. Intanto, fortunatamente, sono fiorite in Italia numerose altre pubblicazioni attente alla parità di genere che però diventano scelte di famiglia e non passano, ancora, attraverso i canali scolastici.
E dalla scuola al cyberbullismo, messaggi di sessismo, misoginia, odio, il passo è breve. E si dirama in maniera esponenziale in ogni direzione. Le ricerche presentate si sono susseguite in questi due giorni di convegno sottolineando il bisogno di un aggiornamento continuo per riuscire a non perdere terreno rispetto allo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Tweet e post Facebook sono i più studiati, con risultati sconcertanti rispetto al tema della parità: si evidenzia che il sesso femminile è meno violento e molto più vittima di linguaggio d’odio, che le stesse donne quando fanno uso di hate speech  lo indirizzano nei confronti di altre donne, e che gli adulti non hanno freni, come invece sembrano avere i teenager.
La legislazione arranca per restare al passo con il veloce mutamento sociale culturale e non ci riesce: mette una pezza sulla libertà di espressione e una toppa sulle offese; minaccia una punizione per le ingiurie dando la scappatoia nel caso turbi l’attività della vittima, non la persona offesa.
Se da una parte il reato on-line è considerato permanente e non c’è dunque prescrizione, e se chi condivide il messaggio diventa autore autonomo e a sua volta commette reato, dall’altra parte il problema dell’anonimato, delle false identità e dei provider che non sono perseguibili rende tutto sempre, troppo difficile.
Il mondo del web è una giungla e ricordiamoci che la società non migliora con il diritto penale, che è l’accetta. Il codice penale non previene, ha una funzione sussidiaria, avverte Elisabetta Rosi dell’Alta Corte di Cassazione.
E Luciana Delfini – Federation Nationale de Femmes de Carrière Juridique – ha rimarcato nel suo intervento:
Il conflitto tra la libertà di espressione e l’uguglianza di genere è il maggior ostacolo per combattere l’hate speech di genere. Dunque: la libertà di espressione “pesa” più dell’uguaglianza di genere, e ogni tentativo di contrastare l’hate speech (di genere) è una censura.
Risparmio al lettore le ingiurie, le violenze verbali, gli aggettivi degradanti che sono stati mostrati sul grande schermo durante il convegno, un vero e proprio mondo di violenza dove non si capisce se la fantasia superi la malvagità o viceversa, e dove soprattutto ci si chiede qual è il limite, se un limite c’è…
Per riportare al discorso iniziale di semplice parità di genere, Marina Cosi, giornalista e tra le fondatrici di Giulia (GiornalisteUniteLibereAutonome), dice:
Se io sono definita col maschile l’interpretazione è che sono un caso, un accessorio. Io mi definisco con il mio nome.
E se sono donna ho diritto a essere definita col genere femminile. Sembra semplice e logico.
Ma dietro a “Moglie e buoi dei paesi tuoi” cosa c’è? Proviamo a leggere invece: “marito e buoi dei paesi tuoi”. Cambia? Eh, sì, per me cambia. Se invece ci diciamo che è abitudine, o saggezza popolare, dobbiamo forse chiederci se non usiamo queste frasi come scudo per non cambiare, per paura del cambiamento. E se è così, di cosa abbiamo paura?
Giuliana Giusti, commentando il convegno, ha rilevato:
Elena Cornaro si è laureata con il titolo di Magistra et Doctrix in Filosofia a Padova nel 1678. Le hanno dato un titolo accordandolo al suo genere semplicemente cambiando una vocale. Dobbiamo guardare così indietro per cose che oggi risultano impraticabili?
Da Elena Cornaro passarono altri due secoli prima che le donne potessero accedere all’università. Vogliamo continuare a fare come i gamberi, oppure prima di salutare una professionista darle la dignità di cui ha diritto?
https://ytali.com/2018/10/21/quando-la-al-posto-della-fa-paura-convegno-dalla-parte-delle-bambine/?fbclid=IwAR03Cj_HERFw-OxrotfJfu3ErOIG38l36eJd88uonF2JyClagEYFRjnZj20

mercoledì 17 ottobre 2018

Mimmo Lucano ha lasciato Riace di Alessia Candito

È rimasto a Riace fino all’ultimo minuto che gli è stato concesso, poi si è chiuso la porta di casa alle spalle ed è partito. Attorno alle 6 di questa mattina Mimmo Lucano, il sindaco “esiliato” per decisione del tribunale del Riesame dopo la revoca degli arresti domiciliari,  è andato via da Riace. Non si sa al momento quale sia la sua destinazione. Potrebbe essere un paese del della Locride, dove Lucano ha parenti, ma non ci sono indicazioni certe.

Una partenza subito commentata da Roberto Saviano con un tweet che cita Dante: "Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di ventì. Dante. #Forzamimmo".

Un tweet che in pochi minuti ha ricevuto centinaia  di condivisioni e like. Saviano cita le parole del quinto canto del purgatorio lasciando intendere Lucano come guida, come novello Virgilo.
E' infatti Virgilio, guida del poeta, a dire quelle parole per smuovere Dante che si è fermato nel cammino. La perifrasi dell'intero verso spiega:   Perchè che rallenti l'andatura , Cosa ti importa di ciò che esse bisbigliano? Seguimi, e lascia parlare le persone: comportati come una torre immobile, a cui non crolla mai la cima per il soffiare del vento.
@robertosaviano
 “Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti.”
Dante#ForzaMimmo

Ieri, Amareggiato, appena saputo dell’ordine di lasciare Riace dato dai giudici, Lucano ha commentato “La mia paura è che tutto questo sia diventato un fatto politico, che adesso ci sia l’obbligo di stritolarmi”. E poi si è lasciato andare “Forse ho sbagliato a dire che avremmo comunque mantenuto in vita il sistema Riace senza finanziamenti pubblici, che avremmo fatto accoglienza spontanea. Cosa ho fatto di male per non stare nel mio paese dopo che ci ho messo l’anima?”.
Riace, Lucano: "Andremo avanti senza soldi pubblici. Governo spesso non rispetta diritti umani"

Il suo collegio difensivo già in nottata ha fatto sapere che contro “l’esilio” di Lucano sarà proposto al più presto possibile un ricorso in Cassazione, ma per una decisione sarà necessario attendere quanto meno un mese. Nel frattempo, Lucano dovrà trovare un domicilio alternativo.
A Riace, provvederanno a proseguire l'attività di assistenza ai circa 150 migranti che si trovano ancora in paese, la compagna etiope di Lucano, Tesfahun Lemlem, cui é stato imposto l'obbligo di firma, i numerosi volontari che da anni collaborano con Lucano e l'Amministrazione comunale, tutti intenzionati a portare ancora avanti con l'autofinanziamento ed i contributi quel "modello Riace" di cui il Governo ha decretato la soppressione con l'uscita dallo Sprar.

Secondo chi gli sta vicino è difficile che si allontani dalla Calabria, ma già ieri sera dal sindaco di Napoli, Luigi De Magistris – da subito vicino al sindaco sospeso di Riace e alla sua battaglia per difendere il “paese dell’accoglienza” – è arrivato un invito. "Caro Mimmo – ha twittato De Magistris - lo so che non lascerai la tua e nostra amata Calabria ma se vuoi ti ospitiamo con amore a Napoli". Per l’ex magistrato, che ha scelto di svestire la toga per dedicarsi alla politica nella sua Napoli e"Il divieto di dimora nella tua Riace è peggio degli arresti domiciliari ma non potranno mai arrestare la rivoluzione. Riace vivrà con Lucano sindaco".
Riace, Mimmo Lucano: "Il nostro modello sopravviverà"

Anche il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha immediatamente manifestato la propria solidarietà al sindaco “esiliato”. "La revoca dei domiciliari restituisce la libertà a Mimmo Lucano ma non ferma la battaglia legale e civile perché possa continuare e possa rafforzarsi l'esperienza di Riace e la cultura di accoglienza e convivenza diffusa che essa rappresenta". Così, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. "Ho già espresso a Mimmo Lucano, come hanno fatto i sindaci di tante città fra cui Parigi, la mia solidarietà e la volontà di dare vita ad iniziative coerenti con il coinvolgimento di comuni di tutta Europa - dice - gli ho anche rivolto l'invito a venire a Palermo, già nei prossimi giorni e in occasione del Festival delle letterature migranti, per condividere la sua storia ed esperienza e costruire insieme un percorso che trova nelle comunità ed amministrazioni locali la sua forza".

Sull'allontanamento da Riace di Lucano è intervenuto questa mattina anche il ministro dell'Interno Matteo Salvini. "Evidentemente Lucano non è un eroe dei tempi moderni ma la gente in Calabria mi chiede più lavoro non più immigrati - ha detto il vicepremier  ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del programma 'I Lunatici' - Chi c'era prima di me al ministero dell'Interno, di ben altro colore politico, aveva già iniziato delle inchieste e sollevato dei dubbi e delle perplessità. Ci sono state evidentemente delle irregolarità, perché altrimenti noi non avremmo chiesto trentaquattro chiarimenti. Vogliamo solo che vengano rendicontate le spese effettuate, visto che si tratta di denaro pubblico. Se poi un giudice dice che non può mettere piede nel proprio Paese, evidentemente Lucano non è un eroe dei tempi moderni. O è stato distratto o non so che altro".

A fianco di Lucano, invece, Beppe Fiorello che twitta: "Il tempo ti darà ragione, hai regalato un sogno al mondo e lo faremo vedere, ti hanno isolato e fatto fuori come fossi il peggiore dei mafiosi (liberi ancora di agire). Sei scomodo perché  tu hai il volto della Calabria giusta, nuova, libera e felice #iostoconriace".
https://www.repubblica.it/cronaca/2018/10/17/news/riace-209160653/

giovedì 11 ottobre 2018

La Giornata delle bambine e delle ragazze, 131 milioni senza istruzione

In occasione della Giornata internazionale l'Unicef ricorda che nel mondo sono 600 milioni le adolescenti che hanno il potenziale e la forza per rispondere alla domanda di lavoro dell'industria.

In occasione della Giornata internazionale delle bambine e delle ragazze (il prossimo 11 ottobre) l'Unicef ricorda che nel mondo sono 600 milioni le ragazze adolescenti che hanno il potenziale, la forza, la creatività e l'energia per rispondere alla domanda di lavoro dell'industria globale. A livello globale 131 milioni di ragazze sono fuori dalla scuola. Ai tassi di progresso attuali, entro il 2030, oltre la metà delle ragazze del mondo non sarà in grado di raggiungere le competenze di base- alfabetizzazione e capacità di calcolo- di livello secondario. Nonostante il numero di ragazze che stanno frequentando la scuola sia il maggiore di sempre, troppe ancora non stanno ricevendo conoscenze, sviluppando competenze e abitudini lavorative necessarie per fare carriera nella vita. Le donne tra i 15 e i 29 anni hanno probabilità 3 volte maggiori rispetto ai giovani uomini di non lavorare, non ricevere un'istruzione e corsi di formazione (1 giovane ragazza su 3 rispetto a 1 ragazzo su 6).

In molte si ritrovano in condizioni di inattività economica/fuori dall'istruzione e restano in questa situazione: il 76% dei giovani inattivi che non studiano sono ragazze; il 32,7% (un terzo) di queste giovani donne non hanno esperienze di lavoro prima di cadere nell'inattività, rispetto al 18% dei ragazzi; le ragazze più svantaggiate - comprese quelle che vivono nelle aree rurali, insediamenti umanitari o quelle con disabilità - hanno un minore accesso a lavori dignitosi; tra i giovani economicamente inattivi, il 35% delle giovani donne rispetto al 7% dei giovani uomini ha lasciato il lavoro per ragioni familiari (avere un bambino o prendersi cura della famiglia).

Oggi, una generazione di ragazze sta entrando in un mondo in cui l'innovazione e l'automatizzazione stanno trasformando il lavoro. Ma molte ragazze non stanno sviluppando competenze e non hanno la possibilità di ottenere posti di lavoro e accedere ad opportunità di business. Per consentire alle ragazze di svilupparsi come lavoratrici qualificate, la comunità globale dovrebbe: fornire una programmazione su larga scala sia nel settore pubblico che in quello privato per promuovere istruzione, competenze e formazione adeguata al mercato per le ragazze; migliorare la qualità dell'insegnamento e dell'apprendimento per consentire alle ragazze di sviluppare competenze di base trasferibili e specifiche necessarie per la vita e il lavoro; combattere gli stereotipi, le norme sociali e modificare i pregiudizi per consentire alle ragazze di avere le stesse opportunità di apprendimento e di carriera dei ragazzi; motivare, incoraggiare, favorire l'empowerment e creare spazi per le ragazze e le giovani donne per considerare opportunità di carriera nel sempre più ampio mondo di lavoro digitale; ampliare la partecipazione delle ragazze nei corsi di apprendimento in Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica; creare iniziative per supportare la transizione scuola-lavoro delle ragazze come orientamento, apprendistato, tirocini e formazione all'imprenditorialità; favorire l'accesso alla finanza e allo sviluppo di impresa per le imprenditrici donne.

Ancora oggi nel mondo le bambine e le ragazze sono esposte a numerosi rischi che compromettono lo sviluppo del loro pieno potenziale. Tra questi:
. Violenze e abusi. Ogni anno 12 milioni di ragazze diventano spose bambine; nel mondo, circa 650 milioni di donne in vita oggi si sono sposate da bambine; senza un'ulteriore accelerazione, oltre 150 milioni di ragazze in più si sposeranno prima del loro 18esimo compleanno entro il 2030; nel mondo, circa 15 milioni di ragazze adolescenti tra i 15 e i 19 anni sono state costrette a rapporti sessuali o altri tipi di violenza sessuale durante la loro vita.

. Hiv/Aids. Nel 2017, ogni ora, circa 30 adolescenti- tra i 15 e i 19 anni- sono stati contagiati da Hiv. Di questi, i due terzi sono ragazze; nel 2017 dei circa 1,2 milioni di adolescenti tra i 15 e i 19 anni che vivevano con Hiv, 3 su 5 erano ragazze; ogni 3 minuti un'adolescente viene contagiata da Hiv.

https://www.globalist.it/world/2018/10/09/la-giornata-delle-bambine-e-delle-ragazze-131-milioni-senza-istruzione-2031994.html

mercoledì 10 ottobre 2018

Chi è Nadia Murad, l'attivista che ha vinto il Nobel per la Pace 2018

La giovane yazida fatta schiava dall'Isis nel 2014 è stata premiata con il medico congolese Denis Mukwege «per la battaglia contro le violenze sessuali nelle guerre». La sua storia.
 
Nadia Murad, attivista irachena yazida, e Denis Mukwege sono i due laureati vincitori del premio Nobel per la Pace 2018, «per i loro sforzi nella battaglia contro le violenze sessuali usate come arma nelle guerre e nei conflitti armati». Denis Mukwege è il medico congolese che ha dedicato la sua vita alla difesa delle donne vittime dei conflitti, specializzato in ginecologia e ostetricia, ha fondato nel 1998 il Panzi Hospital, ed è considerato tra i massimi esperti mondiali nella cura delle ferite interne causate da stupro.

UNA DELLE 6.700 YAZIDE IRACHENE SCHIAVE DELL'ISIS
Nadia è nata in una fattoria a Kocho, piccolo villaggio nel Sinjar nel nord dell'Iraq. La sua famiglia è di etnia yazida - una minoranza religiosa, presente in questa regione prima della comparsa dell'Islam, vittima di una sterminio e ridotta in schiavitù dall’Isis. Murad aveva solo 21 anni quanto nell'agosto del 2014 i miliziani hanno irrotto nella sua piccola comunità, sterminando oltre 600 persone, tra cui i sei fratelli di Nadia, e l'hanno presa come schiava. Dopo essere stata condotta a Mosul, la ragazza è stata picchiata, torturata e stuprata per oltre tre mesi, fino alla sua fuga a novembre di quello stesso anno. Grazie all'ospitalità di una famiglia della zona, Nadia è riuscita poi a raggiungere il campo profughi di Duhok e poi Stoccarda, in Germania.

Due anni dopo, nel settembre 2016 l'avvocata rappresentante di Nadia, Amal Clooney, di fronte all'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), ha descritto il genocidio, lo stupro e la tratta come «burocrazia del diavolo a scala industriale». Nella sua autobiografia, L'ultima ragazza [edita da Mondadori ndr] Murad, ha raccontato delle sofferenze subite della sua comunità, gli yazidi, considerati dal Califfato adoratori del diavolo. «A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio», spiega la giovane sopravvissuta. Murad è stata la prima persona a parlare davanti al Consiglio di Sicurezza Onu della tratta di esseri umani nei conflitti. Come Ambasciatrice Onu porta la sua testimonianza alle comunità sopravvissute ai genocidi dell'Isis e ai rifugiati, proprio per il suo attivismo Nadia ha ricevuto numerose minacce.

https://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2018/10/05/nadia-murad-premio-nobel-2018-pace/26757/