martedì 31 marzo 2015

Mestieri “adatti” alle donne (e giornalisti “inadatti” al pensiero? di Roberta Valtorta

Possibile che esista ancora gente che pensa alle donne come a deboli creature da relegare in casa tra fornelli e pargoli? Sì, purtroppo è possibile. Forse la vera domanda che dovrei pormi è perché mi stupisco ancora, ma partiamo dall’inizio.
Anzi, torniamo al 22 settembre 2014 quando Elisa De Bianchi, trentatreenne autista dell’azienda di trasporti pubblici romana, è stata aggredita da una trentina di uomini durante il proprio turno di lavoro, mentre era alla guida del suo bus. Un po’ per curiosità, o forse per masochismo, e un po’ per la sensazione che avrei trovato qualcosa di tristemente raccapricciante, ho deciso di rovistare fra quotidiani cartacei e online: il risultato ha brutalmente sconfitto anche le mie peggiori aspettative.
Certo, sono consapevole che parlare di sessismo in relazione a determinati giornalisti sia un po’come scoprire l’acqua calda, ma è stato più forte di me e quando Paola mi ha chiesto se avessi visto o letto qualcosa degno di riflessione, il pensiero a un’altra Preghiera di Camillo Langone è stato immediato.
Elisa De Bianchi, l’autista dell’Atac aggredita «Erano in 30, nessuno mi ha aiutata». Sassi e bottiglie contro il mezzo sul percorso verso Tivoli. Lei chiusa dentro in lacrime «Ho chiamato un collega, gli ho chiesto di salvarmi». (da http://www.corriere.it)
Se nel suo pezzo sul Foglio del 23 settembre 2014, facendo riferimento alla giovane autista aggredita, lui chiede: «Perché una trentenne a quell’ora (le 19.30, ndr) non è a casa coi figli, o con i genitori, oppure in centro con le amiche o con un uomo?», allora io domando: che altro avrebbe dovuto mai fare una trentenne, a quell’ora, per dare da mangiare ai figli, se non svolgere il suo lavoro? Ancora una volta, purtroppo, la soluzione che si propone e che sembra essere la più adatta ad arginare i fenomeni di violenza, è quella di redarguire la vittima circa i suoi atteggiamenti e le sue abitudini.
La Preghiera prosegue e si legge: «Per Elisa vittima […] della mascolinizzazione, l’idea che una donna debba accettare qualsiasi lavoro, ancorché pericoloso e usurante.» Non è mai passato per la testa all’autore del pezzo che forse Elisa desideri fare il lavoro che fa? È tanto sorprendente pensare che una donna voglia guidare un autobus?
Il meglio di sé, però, Langone lo dà più avanti, accennando a quello che secondo lui è un «problema di ordine mentale»: «[…] possibile si ritenga normale che una donna guidi un autobus?» Già, chi l’avrebbe mai detto che anche noi donne siamo dotate di gambe e piedi per schiacciare tre pedali, di due braccia e due mani per tenere il volante e per cambiare marcia, nonché di capacità visuo-spaziali per orientarci? Lo so, potrà sembrare sconvolgente per certi maschietti, ma sì, esistono donne (non è sicuramente il mio caso e chi mi conosce lo sa bene, ma questa è tutta un’altra storia!) che sono in grado di guidare magistralmente, addirittura meglio del cosiddetto “sesso forte”. E perché no, anche un autobus, con tutti i rischi che il mestiere comporta. Anche le donne sanno guidare e, soprattutto, anche le donne sanno gestire situazioni potenzialmente pericolose: se quella sera ci fosse stato un uomo al volante, sarebbe forse riuscito a fare qualcosa di più contro trenta uomini forsennati e armati di sassi e bottiglie di birra vuote? Ne dubito fortemente.
Al di là di quanto scritto fino ad ora, però, ciò che ritengo importante sottolineare è il modo tutto particolare in cui l’autore vittimizza la donna: per il giornalista, infatti, anziché essere la vittima dell’aggressione subita, Elisa lo è del mestiere svolto che Langone dà per scontato sia imposto e non scelto.
La giovane, in fin dei conti, un po’ se l’è cercata: se sei donna, perché uscire la sera quando puoi stare a casa, al sicuro fra figli e fornelli? Elisa è quasi colpevole, ma al contempo vittima di un mestiere sbagliato che andrebbe corretto, esaudendo così la triste Preghiera de Il Foglio: «pregando che il futuro le riservi serate più romantiche, un lavoro più adatto al suo nome».
*Meglio soffermarsi su questa riflessione di Roberta Valtorta dopo aver letto il suo post

È una prostituta, dunque di “sua proprietà: fogli e quotidiani italiani alla deriva. L’attenzione di Roberta al linguaggio sessista dei giornali l’ha ormai fatta diventare una aficionada (per così dire) di Camillo Langone che, segnala l’autrice del post, ha prodotto un’altra pregevole perla a proposito dell’8 marzo. Ovviamente, così come facciamo con le immagini, anche per le parole dosiamo col misurino (e soltanto se strettamente necessario) quelle offensive e/o volgari. Ecco spiegato perché non ripubblichiamo i testi integrali delle “preghiere tossiche”.

lunedì 30 marzo 2015

L’onda lunga della discriminazione di Maria G. Di Rienzo

Il numero dei bambini che muoiono su tutto il pianeta è fortemente legato al livello di discriminazione che investe le donne nei paesi in cui si trovano.

E cioè, alla diseguaglianza di genere.
http://www.scidev.net/global/governance/gender/

I risultati di una ricerca medica in 138 paesi confermano la relazione.
http://www.biomedcentral.com/1471-2458/15/97

L’esposizione delle madri alla violenza aumenta le possibilità che i bimbi nascano prematuri o con peso insufficiente.
Nei paesi in cui la diseguaglianza di genere è alta, le donne soffrono di denutrizione più facilmente e i problemi durante la gravidanza aumentano.
Se le donne non hanno accesso all’istruzione, possono avere meno capacità di nutrire adeguatamente i bambini e di aver cura della loro salute.
Se le donne non hanno accesso alle finanze familiari, possono non avere la possibilità di spendere denaro per le cure dei loro figli.
“E’ solo senso comune: dove le donne non sono trattate bene, i bambini muoiono prima. Il nostro studio conferma questo. Le strategie globali per contrastare la mortalità infantile, come gli obiettivi di sviluppo, devono andare oltre gli interventi medici e tener conto della diseguaglianza di genere nelle loro attività.” Anto Rajkmur, psichiatra che lavora per il servizio sanitario nazionale inglese, uno dei ricercatori.
“L’impatto della diseguaglianza di genere va oltre le donne. Se le donne non hanno denaro e/o controllo sul denaro non sono in grado di provvedere assistenza sanitaria ai bambini. Il trascurare le bambine in favore dei figli maschi è pure assai comune.” Ethel Brinda, dell’Università di Aarhus in Danimarca, una delle ricercatrici.
“I risultati dello studio sono estremamente plausibili. – dice Katherine Fritz, direttrice per la salute globale al Centro Internazionale di Ricerca sulle Donne – Ci sono moltissimi dati all’interno dei vari paesi che mostrano la relazione diretta fra la diseguaglianza di genere e una salute povera nei bambini.
http://www.scidev.net/global/enterprise/data/
Lo studio mostra questa relazione a livello globale, rendendola più visibile e concreta. I risultati rafforzano la prospettiva, per i governi, di una migliore integrazione dei servizi sociali, come l’ingresso del sostegno alle vittime di violenza di genere nei loro sistemi sanitari.”
Lo studio ha usato, per misurare la discriminazione contro le donne, uno strumento messo a punto dalle Nazioni Unite: l’Indice della Diseguaglianza di Genere.

Genere, genere? Abbiamo letto bene, genere?!? E oggi, per il complotto-gender globale che mira a far diventare “deviata” la vostra figliolanza, ignoranti patentati zeppi di odio, è tutto.

venerdì 27 marzo 2015

Donne meravigliose e cavalieri galanti: il sessismo che non si vede

Gli uomini galanti non esistono più. Non ci sono più i cavalieri di una volta. Quelli che ti fanno sentire speciale, che ti mettono su un piedistallo, che ti aprono la portiera della macchina, la porta dell’ascensore, perché sei donna.
Si dice che ormai siano gentilezze superate e lo si dice con tristezza, perché chi di noi non vuole sentirsi speciale?
Eppure la galanteria io la vedo tutti i giorni. Non è mai morta e non morirà finché il mondo sarà sbilanciato a favore dell’uomo. E poi io l’ho sempre vista, fin da piccina.
Mi ricordo come mi sentivo speciale l’otto marzo di venti anni fa, quando i miei compagni delle elementari ci portarono le mimose, i cioccolatini e ci coprirono di attenzioni e le maestre erano così felici di questo quadretto. Mi sentivo proprio fortunata ad essere nata donna.
Alla soglia dei trent’anni non sono cambiate di molto le cose. C’è sempre qualcuno che prova a farmi sentire speciale perché sono una donna. Al lavoro, se entro in ascensore con un collega, mi apre la porta: “prima le donne” mi dice tutto contento. Se usciamo da un locale, sarà lui a tenere la porta aperta, magari dopo aver pagato il conto. In treno, quando viaggio con il mio piccolissimo trolley, trovo sempre qualcuno che si offre di sistemarlo nel vano in alto. La galanteria è un balsamo per gli uomini. Vedo i loro volti, così fieri e soddisfatti.
Il fatto è che io ci provo sempre a farli sentire speciali perché sono uomini. Ma non ci riesco mai. Quando, di fronte ad un uomo che mi tiene la porta, insisto perché sia lui ad andare per primo o quando, in treno, chiedo ad un uomo se ha bisogno di una mano per sistemare la valigia, ricevo in risposta solo sguardi risentiti e contrariati. Mi guardano come se fossi aliena. E nonostante le mie insistenze, non cedono.
Da sempre ci hanno insegnato che noi donne siamo esseri meravigliosi, dotate di un quid in più. Ce l’ha ricordato per la ricorrenza dell’otto marzo scorso anche Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica: noi donne sappiamo “produrre senza distruggere”, siamo “il volto della coesione sociale, della solidarietà”, siamo “la radice sulla quale la nazione è costruita”, “provvediamo all’educazione dei figli, curiamo anziani e invalidi e lo facciamo in silenzio” .
Anche Woman for Expo ci ricorda quanto siamo speciali. Noi nutriamo il pianeta e ci prendiamo cura di tutto il mondo: “Ogni donna è depositaria di pratiche, conoscenze, tradizioni legate al cibo, alla capacità di nutrire e nutrirsi, di “prendersi cura”. Non solo di se stessi, ma anche degli altri”.
Verso la metà degli anni ’90 un gruppo di psicologi (Eagly, Mladinic, Otto) fece una ricerca su quale gruppo sociale, tra uomini e donne, venisse giudicato più positivamente. La risposta fu chiara: le donne erano viste in modo molto più positivo rispetto agli uomini, a causa di quello che viene chiamato “women are wonderful” effect, “l’effetto donne meravigliose”. Siamo meravigliose perché siamo accoglienti, solidali, empatiche e ci prendiamo cura degli altri. Nella rappresentazione sociale l’uomo è vincente ma duro, le donne sono deboli ma meravigliose.
Ma allora perché ci lamentiamo? C’è qualcosa di male nell’essere viste come esseri meravigliosi (a prescindere)?
Sì. Perché il maschilismo non ha solo una faccia, ma due: una cattiva, l’altra (apparentemente) buona. Quella cattiva, più facile da individuare, viene detta sessismo ostile e si estrinseca nell’astio verso le donne, soprattutto verso coloro che non si adeguano allo status quo, che richiedono parità e che mettono in discussione la presunta superiorità maschile.
Quella buona, detta sessismo benevolo, è più difficile da riconoscere ed è accettata a livello sociale, quindi può circolare maggiormente. Glick e Fiske, due psicologi che nel 1996 studiarono il sessismo ambivalente – cioè articolato in queste due componenti – ( “The ambivalent sexism inventory: differentiating hostile and benevolent sexism”), indicano come sessismo benevolo l’insieme degli atteggiamenti positivi di protezione, idealizzazione ed affezione rivolti alle donne in quanto donne, in quanto portatrici di valori stereotipati (e limitanti), collegati alla cura degli altri, alla maternità, all’accoglienza, etc…
Secondo Glik e Fiske tali atteggiamenti “sono sessisti in quanto stereotipizzano le donne in ruoli ristretti, ma sono soggettivamente positivi in quanto a tono (per il ricevente) e tendenti a sollecitare comportamenti tipicamente categorizzati come prosociali (ad esempio l’aiutare gli altri) o una maggiore intimità (ad esempio l’aprirsi agli altri).”
Il sessismo benevolo rinchiude le donne in gabbie dorate e luccicanti, da cui è difficile uscire. Ed è una componente fondamentale per il mantenimento del maschilismo e della società patriarcale.
La relazione uomo-donna è una forma molto particolare di rapporto tra oppressore ed oppresso, in quanto oltre ad esservi subalternità, dovuta ad una notevole differenza di potere economico – sociale, vi sono anche implicazioni emotive, sentimentali e/o sessuali.
Un sistema così complesso non potrebbe reggersi su modalità meramente oppressive e dominanti, ma è necessaria un’altra componente, che consenta di evitare o perlomeno di limitare il risentimento del gruppo dominato. Sono quindi necessarie gratificazioni paternalistiche, che fungano in qualche modo da ricompensa per l’accettazione del posto assegnato alle donne nella gerarchia sociale.
Questa ricompensa è il sessismo benevolo, l’attribuzione a priori alle donne di qualità positive, riconoscendole adorabili, preziose e bravissime (soprattutto a fare quello che gli uomini non vogliono fare) e per questo destinatarie di attenzioni e premure particolari, che normalmente non verrebbero riservate a un uomo nelle stesse condizioni.
La forza del sessismo benevolo risiede nella promessa di impiegare il potere del gruppo dominante a vantaggio del gruppo dominato (le donne), a patto che queste accettino il controllo sociale maschile. La visione dell’uomo come cavaliere romantico che lotta per difendere la famiglia ed assicurarle benessere ha contribuito per secoli a confinare le donne tra le mura domestiche e a contenerne le ambizioni
Il sessismo benevolo e il sessismo ostile sono complementari e necessitano l’uno dell’altro per sopravvivere. Sono le due facce della stessa medaglia patriarcale. In una ricerca del 2001, sempre ad opera di Glick e Fiske, è emerso che coloro che attuano forme di sessismo benevolo nei confronti delle donne che si conformano alle norme sociali di genere, attuano anche sessismo ostile nei confronti di chi trasgredisce quelle norme.
Mettere su un piedistallo le donne, avere nei loro confronti atteggiamenti cavallereschi e protettivi – considerandole quindi bisognose -, gratificarle per il fatto di essere altruiste e amorevoli per natura – facendo quindi gravare sulle loro spalle welfare e costi sociali e relegandole a ruoli di cura – è una forma (non troppo sottile) di discriminazione, che sottintende l’esistenza di un rapporto di subordinazione.
Perciò cari colleghi, amici, conoscenti e non, vi prego non offendetevi se non sgrano gli occhioni in segno di riconoscenza quando insistete per aprirmi la porta. Non pretendete di pagare il conto al ristorante per il solo fatto che sono una donna. Non sentitevi minati nella vostra mascolinità se mi offro di aiutarvi con i lavori manuali: non ho solo un cuore colmo di amore traboccante in quanto donna, ma ho anche due braccia. Non mi fate complimenti sull’aspetto fisico quando non sono opportuni: mi infastidiscono e mi relegano alla sfera sessuale. E soprattutto, io non nutro il pianeta come vorrebbe Expo e non sopporto in silenzio la mancanza di welfare, come dice Mattarella.


giovedì 26 marzo 2015

Pillola 5 giorni dopo, anche l'Italia ha deciso: obbligo di ricetta solo per le minorenni di Michele Bocci

L'anticoncezionale orale potrà essere richiesto in farmacia con il solo requisito della maggiore età e senza più test di gravidanza. L'Aifa ha adottato una linea parzialmente diversa da quella 'liberista' dell'Agenzia europea del farmaco ma ha ignorato il parere del Consiglio superiore di sanità che suggeriva la prescrizione obbligatoria generalizzata. Pabi: "Nostra posizione è più moderna di quella dell'Ema"
Pillola 5 giorni dopo, anche l'Italia ha deciso: obbligo di ricetta solo per le minorenni
Niente ricetta per la pillola dei cinque giorni dopo, tranne che per le minorenni. Le altre potranno ottenere il farmaco orale che impedisce l'inizio della gravidanza dopo un rapporto a rischio semplicemente richiedendolo in farmacia. Lo ha deciso la commissione tecnico scientifica dell'Aifa che ha approvato, per l'Italia, una disposizione che si discosta parzialmente dalle indicazioni dell'Agenzia europea del farmaco e del tutto dal parere espresso dal Consiglio superiore di sanità.
Scompare inoltre l'obbligo di eseguire il test di gravidanza per poter richiedere la pillola. "Il farmaco non ha grandi problematiche - ha detto il direttore dell'Aifa, Luca Pani dopo aver partecipato via teleconferenza alla riunione della Cts perché si trova negli Usa - ma sull'uso ripetuto e incontrollato non ci sono dati sufficienti per garantirne la sicurezza. Per tutelare le più giovani e visto che in Italia esiste la possibilità di prescrivere la pillola in ogni momento in ospedali e consultori, è stato deciso di lasciare il limite". A parere di Pani, quella dell'Aifa è "una decisione ancora più moderna di quella dell'Ema".
A battersi per l'obbligo generalizzato di ricetta erano stati soprattutto i medici cattolici che avevano parlato di "aborto mascherato", ma anche il Consiglio superiore di sanità, richiesto di parere dal ministro della Salute, beatrice Lorenzin, proprio paventando rischi legati a un possibile abuso del farmaco, si era espresso a favore della prescrizione obbligatoria per tutte, a prescindere dall'età. Ma per l'Aifa sarebbe stato difficile adottare una decisione opposta a quella dell'Autorità europea. Lo stesso Pani lo sapeva bene, tanto che già alcune settimane fa aveva aperto alla soluzione della ricetta solo per le minorenni e la Commissione tecnico scientifica (Cts) dell'Aifa già a gennaio aveva dato un primo parere in linea con quello preso oggi pomeriggio.
La EllaOne, nome commerciale con cui è venduto il principio attivo ulipristal acetato, è già entrata anni fa in commercio nel nostro paese. Permette di impedire la gravidanza anche cinque giorni dopo il rapporto, cioè per un periodo più lungo rispetto alla cosiddetta pillola del giorno dopo. Nel nostro Paese, sempre in imbarazzo quando si tratta di anticoncezionali, fino ad ora viene prescritta solo se c'è un test di gravidanza. Questo esame è stato escluso con la decisione dell'Aifa di oggi, che anche in questo caso ha seguito l'indicazione di Ema. L'unica differenza con l'Europa - ma non con la Germania che ha deciso un provvedimento simile all'Italia - è che da noi le minorenni devono avere la prescrizione del medico.

 "Sulla pillola dei 5 giorni dopo l'Italia si allinea all'Europa - ha commentato Laura Garavini, deputata del Pd - . "La decisione dell'Aifa di non richiedere più test di gravidanza per l'acquisto della pillola dei 5 giorni - aggiunge - è un successo per le donne italiane che vengono finalmente trattate come tutte le altre donne in Europa. Anche per le donne in Italia valgono finalmente standard europei. Mi auguro che il ministro Lorenzin non procrastini ulteriormente i tempi e confermi la scelta politica di allinearsi all'Europa seguendo le indicazioni suggerite dall'Aifa".

mercoledì 25 marzo 2015

A vent’anni da Pechino siamo ancora noi a dover cambiare le cose di Giovanna Martelli

È un incrocio di storie e di volti l’immagine che porto da New York, dove dal 9 al 20 marzo, presso la sede delle Nazioni Unite, si è tenuta la 59° sessione della Commissione sullo Status delle donne.
Sono le storie delle donne che raccolgono la sfida contemporanea e conducono da anni lotte per contrastare pratiche primitive di mutilazione e di compra-vendita delle ragazze. Pratiche che ci impediscono di vivere l’affettività con piacere pieno e completo in una relazione alla pari con i nostri compagni di vita. Sono i nostri volti che credono ancora nell’utopia dei racconti di Charlotte Perkins e delle nostre narrazioni di società ben coltivata e che cresce con una linfa femminile piena delle emozioni e delle caratteristiche delle donne.
Le tante donne che ho incontrato alle Nazioni Unite hanno scelto la Politica come spazio per farci avanzare nella vita pubblica e lo fanno con coraggio, emozione e determinazione riconoscendo nella resilienza lo strumento migliore per incidere anche là dove sembra impossibile.
Oggi queste storie e questi volti sono più importanti che mai: a vent’anni da Pechino quando il tema dell’empowerment all’insegna del gender mainstreaming si è arenato.
Dopo il secolo dell’emancipazionismo e dell’affermazione del valore della differenza di genere, occorre lanciare un nuovo femminismo, della terza ondata, capace di costruire una democrazia realmente paritaria.
Il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon, aprendo i lavori ha richiamato l’attenzione proprio su questo punto: non si tratta più solo di guardare con favore alle singole donne che accedono a posizioni apicali e di successo ma di costruire un percorso collettivo affinché tutte le donne possano accedere a ogni livello di una società che sempre più investa nelle “capacitazioni” di tutti, uomini e donne.
L’incontro di New York mi ha lasciato un’altra forte convinzione, quella per cui, nonostante gli importanti passi in avanti, molto lavoro ancora ci attende. Dal punto di vista teorico la Convenzione di Istanbul del 2011 è stata uno spartiacque decisivo, essa ha sancito che la violazione dei diritti delle donne si iscrive a pieno diritto all’interno della violazione dei diritti umani. Da qui dobbiamo proseguire: a livello internazionale e nella relazione tra Stati dobbiamo insistere affinché tutti i Paesi adeguino le loro politiche ai principi del rispetto della persona umana dotandosi e rafforzando apparati sanzionatori e repressivi rispetto alla violazione dei diritti individuali. Nelle politiche interne bisogna affiancare alle misure di contrasto ad ogni forma di violenza quelle sul rilancio del lavoro delle donne.
Ora serve un mutamento di paradigma: l’investimento nel lavoro delle donne è una misura anti-ciclica capace di rimettere in moto l’economia dopo anni di recessione e politiche di austerity, su questo ormai la maggior parte degli analisti concorda, non si tratta solo di giustizia sociale ma di prospettive di crescita perché più donne lavorano, più aumenta la natalità, più aumentano servizi e consumi connessi ad una crescita interna di comunità operose che riconoscono le capacità reali delle donne e degli uomini in una reale valorizzazione del fattore umano.
Il Fondo Monetario Internazionale, recentemente, sui danni del sessismo, è stato chiaro: in più di 40 nazioni, tra cui molte ricche e avanzate, per effetto delle discriminazioni contro le donne si perde molta ricchezza potenziale e se in Italia il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro fosse portato allo stesso livello di quella degli uomini, il Prodotto Interno Lordo guadagnerebbe oltre 10 punti percentuali.
Cosa aspettiamo allora?
Tocca a noi donne metterci al centro dell’agenda politica, raccogliere la sfida della contemporaneità, dare senso alla nostra presenza nella politica e nelle istituzioni, superare le barriere delle appartenenze e costruire proposte comuni dove l’educazione di genere è una responsabilità collettiva e la capacità di ognuna di noi contribuisca a cambiare questo Paese con la medesima misura, a prescindere dal ruolo che rivestiamo.
Il presente e il futuro possono essere nostri credendoci e riconoscendoci in quelle storie e in quei volti di donne emozionate, coraggiose e determinate.



martedì 24 marzo 2015

La parità di genere secondo l'ONU

Siamo tornate a Roma da New York ma non siamo tornate contente.

L’appuntamento annuale alle Nazioni Unite per la Csw (Commission on the Status of Women) quest’anno era molto importante, poiché sono trascorsi vent’anni dalla storica Conferenza delle donne di Pechino che delineò una Piattaforma d’azione per traghettare le donne e le ragazze di tutto il mondo verso il pieno godimento dei propri diritti.
Le organizzazioni e le migliaia di donne presenti, rappresentanti della società civile, si aspettavano molto da questo 59esimo incontro al Palazzo di vetro e invece…
Siamo tornate profondamente preoccupate per la debolezza della Dichiarazione politica adottata dalla Csw e del documento di accompagnamento sui Metodi di lavoro, ma anche per l’esclusione della società civile dai lavori per la Dichiarazione finale. Lavori che si sono svolti a porte chiuse.
Se infatti l’Onu ha dichiarato orgogliosamente che nel 2030 si raggiungerà la parità di genere, sono migliaia le Ong e le associazioni femministe che hanno denunciato come, per la prima volta, gli Stati Membri abbiano approvato la Dichiarazione politica fin dal primo giorno senza alcun confronto con le rappresentanti della società civile presenti a New York. Ma sopratutto, a questa mancata trasparenza, si aggiunge il contenuto debole del documento finale.
Nella Dichiarazione politica i governi “si impegnano a intraprendere ulteriori azioni concrete per assicurare la piena, effettiva, accelerata implementazione della Dichiarazione di Pechino e della Piattaforma di azione”. Ecco, diciamo che ci sembra molto poco, sopratutto pensando che venti anni fa la Conferenza di Pechino aveva aperto una nuova strada. La Dichiarazione finale del 1995, adottata da 189 paesi, era il primo impegno formale da parte di stati, governi, forze economiche, politiche, sociali e culturali per la valorizzazione del ruolo delle donne come agenti di trasformazione per lo sviluppo sostenibile.
Non mettiamo in dubbio che in questi due decenni siano stati fatti passi avanti, ma la strada verso una reale parità di genere è ancora lunga e faticosa. E non possiamo certo aspettare il 2030. Pensiamo solo alle questioni macroscopiche come il mancato raggiungimento della parità salariale, il numero di femminicidi e le varie forme di violenza che continuano ad essere praticate: matrimoni precoci e/o forzati, mutilazioni genitali femminili, il mancato accesso alla salute e ai diritti sessuali e riproduttivi.
Questo documento finale impiega un linguaggio fiacco e le omissioni sono più lampanti delle dichiarazioni: non si parla di diritti umani delle donne, di diritti sessuali e riproduttivi e neppure del concetto di uguaglianza di genere. La Dichiarazione non illustra chiaramente quali siano i meccanismi di trasparenza e responsabilità; non parla di impegni concreti per quanto riguarda le risorse destinate a superare gli ostacoli che impediscono la realizzazione della parità tra donne e uomini. Questo è un grave arretramento rispetto al lavoro fatto e alle Dichiarazioni adottate dalle passate Conferenze internazionali, che hanno invece dato ai governi una direzione per lavorare sui diritti politici, economici, sociali, ambientali e di genere.
La consueta tradizione delle Nazioni Unite che vedeva una consultazione e partecipazione aperta di organizzazioni della società civile è stata già di per sé un chiaro segnale. Partecipiamo alla Csw per monitorare che i nostri governi rispettino gli impegni assunti per garantire la parità di genere, eliminare ogni forma di discriminazione e di violenza contro le donne e perché si raggiunga la piena realizzazione di tutti i nostri diritti umani. Veniamo alla Csw per avanzare politiche progressiste perché facciano davvero la differenza nella nostra vita. Se la Csw non è più una agorà per il cambiamento e non ci coinvolge attivamente, non parteciperemo la prossima volta.
Le organizzazioni da sempre presenti e le femministe sono fondamentali nell’attuazione, il monitoraggio e l’applicazione della Piattaforma d’Azione di Pechino, pertanto, insieme a molte Ong internazionali, esortiamo Un Women, che si occupa per le Nazioni Unite della promozione della donna, a non usare più questa modalità di lavoro. Avviamo invece un processo condiviso che sfrutti la potenzialità di tutti i soggetti interessati per la piena realizzazione dei diritti umani delle donne. Che niente venga fatto per noi donne senza di noi!


mercoledì 18 marzo 2015

Ecco qualche notizia sulla mostra che oggi 19marzo alle ore 20.30 inauguriamo al Centro Foscolo,via Foscolo 3d Corsico

Zajczyk: “Il concorso fotografico è uno strumento importante per divulgare una cultura dell’immagine rispettosa dell’immagine femminile”

Le donne come possono conciliare lavoro, cura e tempo per sé? 
Questo il tema scelto quest’anno dal premio fotografico ‘Lo Sguardo di Giulia’, organizzato dall’associazione Giulia (Giornaliste Unite Libere Autonome). 
Su sedici fotografe selezionate, donne fra i 17 e i 61 anni, sono tre le donne premiate: 

nella categoria ‘professioniste’ ha vinto Jutka Csakanyi, una milanese nata a Budapest, per “la rappresentazione ‘teatrale’ e d’impatto felicemente ironica di una donna sulla quale si appoggia tutta la famiglia”; 

nella categoria ‘amatoriali’ ha vinto Elena Albano, medica fisiatra, per “la dimostrazione plastica di come la conciliazione sia equilibrio, armonico e mai statico”; 

per la categoria ‘under 18’ è stata premiata una giovanissima studentessa, Silvia Moia, che “è andata dritta al sodo con un’immagine di cronaca di familiare routine quotidiana ma ben ‘conciliata’”.

“L’associazione delle giornaliste Giulia – ha dichiarato la delegata del Sindaco alle Pari Opportunità Francesca Zajczyk - ha un ruolo di presidio fondamentale nell’uso della figura femminile nei media italiani. Proprio dall’associazione delle Giornaliste Unite Libere Autonome ieri è stato denunciato l’utilizzo scorretto delle immagini del ministro Madia da parte della rivista Chi. 
Il concorso fotografico è uno strumento importante per divulgare una cultura dell’immagine davvero rispettosa delle donne. 
Si tratta inoltre di un’operazione transgenerazionale che ha coinvolto sia ragazze ancora in cerca di un ruolo professionale, sia signore non più giovani che hanno concluso la loro attività lavorativa ma continuano a mettersi in gioco”.




martedì 17 marzo 2015

Cinzia, la camionista gentile che sfida la mafia| di Annalisa Vandelli

Viviamo strani giorni: la mafia è emiliana e chi ne denuncia da anni le infiltrazioni nel campo dell’autotrasporto è una donna bella, gentile e coraggiosa. Una camionista, insomma. Cinzia Franchini ha 43 anni, è di Modena, diploma magistrale. Inizia a guidare il camion per amore (il marito infatti ha un’azienda di autotrasporti), si interessa di questioni sindacali e in poco tempo diventa Presidente Nazionale della Cna-Fita.
Siamo nel 2011. Per Cinzia è evidente che si debba intervenire subito sulle infiltrazioni mafiose che storpiano il mercato e la vita degli onesti; l’Emilia Romagna non fa eccezione. Dunque comincia a denunciare, nomi e cognomi, partendo dagli Ercolano dei quali Angelo Ercolano, nipote del famoso boss Pippo, ricopre il ruolo di vicepresidente nella Federazione degli Autotrasportatori Italiani Sicilia.
Cinzia si rifiuta di sedere ai tavoli delle trattative con sospettati di mafia. Si rifiuta di aderire al fermo dei forconi attirando su di sé ire violente.
Dall’aprile del 2012 riceve lettere anonime di manaccia dal contenuto feroce e proiettili. Pur non avendo la delega alla legalità della sua Associazione di categoria, non si ferma e diventa ben presto reale punto di riferimento dei 26 mila associati Cna-Fita che vivono la fatica quotidiana sulle strade e vedono in quella che don Luigi Ciotti definisce «la nostra camionista gentile e coraggiosa» una reale rappresentante personale, non solo di categoria.
Sono così loro i primi a incoraggiarla, a sentirsi difesi da una donna.
E lei va avanti, depone il giorno 16 febbraio 2015 in commissione antimafia, quando ormai l’inchiesta Aemilia ha reso pubblico quello che in tanti sapevano ma, come affermava Silvano Ambrogi:
«… il mafioso è colui che dice di non esistere a coloro che dicono di non conoscerlo».
In commissione Cinzia parla anche di fondi pubblici per 200milioni di euro circa all’anno destinati agli autotrasportatori per gli sconti pedaggi o la formazione, ma per accedervi è necessario aderire a consorzi. Questo passaggio non viene ben controllato e dunque il risultato è che alla fine i fondi rischiano di arrivare anche a imprese che hanno al loro interno elementi malavitosi e che si trovano così a disporre liberamente di ingenti quantità di denaro erogato proprio dallo Stato, ovvero da ciascuno di noi.
Il 18 febbraio Cinzia Franchini riceve una richiesta di intervista dalla Gazzetta di Modena.
«Ad aprile – si legge sul giornale – ricorrerà il terzo anniversario dei primi proiettili che le furono recapitati e a cui seguirono un altro bossolo e varie lettere di minaccia, ma la presidente va avanti come un rullo, anche senza il sostegno dei vertici nazionali dell’associazione “che non hanno mai speso cinque minuti per parlare dei problemi dell’autotrasporto e delle pressioni che subiamo. Sì mi sento sola, ma almeno i miei associati sono al mio fianco anche quando qualcuno ha provato a mandarmi a casa. Se chiedo chiarezza nelle altre organizzazioni, devo farlo anche a casa mia e a qualcuno non sta bene, ma le evidenze ci sono tutte».
Questa dichiarazione scatena la reazione del Presidente Nazionale della Cna Daniele Vaccarino, che sente il buon nome dell’Associazione messo a rischio ed esprime la decisione all’unanimità di una direzione di prendere tutti i provvedimenti necessari per tutelare l’immagine della Cna. Una sibillina, ma neanche poi tanto, minaccia di sospensione dall’incarico?
Siamo ai giorni nostri, agli strani giorni che viviamo. Cinzia pubblica testualmente la dura presa di posizione del suo Presidente; i media ne raccolgono l’indignazione. Nasce così una pagina facebook di sostegno e l’opinione pubblica si manifesta anche attraverso i social; Cinzia riceve attestazioni di vicinanza pubbliche e private, tra le associazioni di categoria del settore, oltre ad esponenti Cna e Fita si sbilanciano Confetra e Agorà.
La mafia non uccide solo d’estate e non uccide solo fisicamente.
Ma inculca un modo di pensare, cambia un vocabolario capace di svilire perfino parole nobili come «onore»; abita una zona grigia della mente che si fa parola o silenzio. La mafia striscia sottilmente e in Emilia non si è inserita con la violenza, ma attraverso le pieghe dell’economia e della politica, prestando soldi e nomi, associandosi a imprese “sane” in crisi, strozzando come un parassita l’essere che lo nutre.
Proprio per questo la nostra camionista gentile e coraggiosa non va lasciata sola a nessun livello. Anzi, deve essere sostenuta a tutti i livelli, perché se questi sono strani giorni, sono anche quelli in cui il grigio non porta bene e si deve scegliere quale colore indossare.
Speriamo che, anche in considerazione di questo, il presidente Vaccarino abbia convocato Cinzia Franchini per uno «scambio di opinioni, poiché il compito del Presidente è anche quello di tentare di comporre i dissidi e tutelare il bene della Cna e della Fita».
Tutelare il bene, l’onorabilità, la verità per conto terzi è certo un’impresa perigliosa; richiama quel «lo faccio per il tuo bene» che solitamente precede azioni poco piacevoli, ma qualcuno le deve pur fare.
E a proposito di fare, Cinzia Franchini continua a fare e a parlare, instancabilmente.
Concludiamo con un aneddoto. A poco più di cento passi da Modena, a Sassuolo, risiedeva al confino il boss Tano Badalamenti, il quale, oltre a farsi arrivare il pesce fresco in aereo dalla Sicilia ogni venerdì mattina, nella capitale mondiale della piastrella già a metà degli anni ’70 pianificava di mettersi in affari proprio nei trasporti.


lunedì 16 marzo 2015

“Esiste un insidioso complotto contro le donne”, il monito del Fondo Monetario Internazionale

Queste le parole dure di Christine Lagarde, una tra le donne più influenti al mondo e simbolo dell’emancipazione femminile, ex Ministro dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego della Francia e attualmente Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la quale denuncia l’esistenza di insidioso complotto ai danni di tutte le donne che ne impedisce la piena e paritaria partecipazione economica e sociale.
Prendendo spunto da uno degli ultimi studi del Fondo Monetario Internazionale sugli effetti economici del sessismo sull’economia, la Lagarde commenta sul suo blog:
“In troppi Paesi le restrizioni legali cospirano contro le donne per impedirci di essere economicamente attive. In un mondo che ha tanto bisogno di crescita,le donne possono dare un contributo, se solo hanno di fronte a sé delle pari opportunità e non una insidiosa congiura”.
Christine Lagarde
Christine Lagarde, una tra le donne più influenti al mondo e simbolo dell’emancipazione femminile, ex Ministro dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego della Francia e attualmente Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale (FMI)
Lo studio indica come in più di 40 nazioni si perde circa 15% della ricchezza potenziale per effetto delle discriminazioni contro le donne, per un totale di oltre 9mila miliardi di dollari a livello mondiale a causa di ingiuste restrizioni sul lavoro femminile.
Nessun Paese è immune da questa problematica, continua Lagarde:
“Quasi il 90% dei Paesi prevede almeno una restrizione importante sul piano legislativo, e alcuni ne hanno molte. Queste restrizioni possono andare dal permesso del marito richiesto alle donne per poter lavorare, alle leggi che impediscono alle donne l’accesso a determinate professioni. Altre limitano la possibilità delle donne di possedere qualcosa, o di ereditare, o chiedere un prestito”.
I paesi che privano le donne di opportunità s’impoveriscono
Lo studio dimostra l’esistenza di una relazione forte tra restrizioni giuridico-legali e partecipazione femminile al mercato del lavoro. Nella metà dei paesi presi in esame, quando sono state intraprese azioni volte a promuovere l’uguaglianza si è notato come il tasso di partecipazione femminile al lavoro è aumentato di almeno il 5 per cento nei successivi cinque anni.

Conclude la Lagarde : “Certamente c’è ancora tantissimo lavoro da fare, ma avere leggi più eque e paritarie è un punto da cui partire. Aiutando le donne a sviluppare il pieno potenziale economico, come conseguenza favoriremo anche la crescita, la prosperità e la stabilità del mondo intero”.

domenica 15 marzo 2015

8 MARZO Donne e diritti: a che punto siamo in Italia?

Oggi nel nostro Paese le donne possono votare, si vedono riconosciuti diritti umani al pari degli uomini e godono di maggiori libertà. Ma la strada da percorrere per una reale uguaglianza tra i sessi è ancora lunga e richiede molti cambiamenti nella mentalità e nelle azioni. Il tema sarà al centro della 59esima sessione della Commissione sulla condizione femminile nel mondo in programma a New York. La Piattaforma italiana delle organizzazioni delle donne e sui diritti umani sarà lì con Fondazione onlus Pangea, organizzazione attiva in Italia sul fronte della sensibilizzazione alle questioni di genere, per fare il punto sulla situazione in Italia. Ne abbiamo parlato con la vicepresidente di Pangea, Simona Lanzoni
Donne e diritti: a che punto siamo in Italia? L’8 marzo per Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus, organizzazione attiva in Italia sul fronte della sensibilizzazione alle questioni di genere, è una data importante. Perché è doveroso ricordare il lavoro fatto dalle generazioni femminili venute prima di noi per permetterci, oggi, di godere di libertà e diritti che fino a un secolo fa non esistevano, che abbiamo e spesso ignoriamo, o che non facciamo abbastanza per far rispettare, in Italia e in Europa.
“Spesso questo giorno viene percepito come il momento per andare a mangiare la pizza con le amiche, e il clou della celebrazione sta nel fatto di ricevere la mimosa. Siamo noi stesse a svuotare di senso l’8 marzo”, spiega Lanzoni che dal 2002 lavora con la onlus per promuovere l’empowerment sociale ed economico delle donne nel nostro Paese e nel mondo. Eppure non possiamo dimenticare quanto ancora resta da fare, nel mondo, sul fronte dei diritti delle donne: “Penso alle mie amiche afghane, indiane, nepalesi, alle donne kurde, turche, siriane e libanesi, egiziane, libiche, tunisine, palestinesi, israeliane. Penso alle giovani nigeriane sfruttate nella tratta dei corpi”. Secondo la vicepresidente, dovremmo anche interrogarci sul perché esiste una giornata internazionale della donna e non dell'uomo, e su qual è lo svantaggio che paghiamo per vederci festeggiare ogni anno, un giorno solo e non 365 di fila. Di questo e altro si parlerà a New York da lunedì 9 al 20 marzo, in occasione della 59esima sessione della Commissione sulla condizione femminile nel mondo. Durante questa occasione la Piattaforma italiana per i diritti delle donne, coordinata da Pangea, farà il punto della situazione in Italia con un panel ricco di dati.
L’evento quest’anno riveste una particolare importanza. Venti anni fa migliaia di attivisti, diplomatici e leader mondiali, si sono ritrovati a Pechino in occasione della IV Conferenza mondiale sulle donne per articolare la visione di un mondo in cui tutta la popolazione potesse vivere una vita piena e alla pari. Il risultato è stato una dichiarazione che fa il punto su alcuni dei maggiori ostacoli alla parità di genere nel pianeta, con la creazione di una piattaforma d'azione (di Pechino) che fornisce le indicazioni e gli strumenti per superarli. Da allora, ogni cinque anni i Paesi di tutto il mondo redigono un rapporto per mostrare quali passi avanti hanno fatto su questi temi e questo è appunto l’anno in cui l’Italia dovrà tirare le somme. A giugno 2014, il Governo ha inviato il proprio rapporto ufficiale 2009-2014 all'Onu ma il quadro che ne emerge rappresenta, secondo la Piattaforma per i diritti delle donne, solo parzialmente la realtà della condizione femminile in Italia. Da qui la decisione di redigere un rapporto alternativo (per conoscere le organizzazioni che lo hanno stilato o leggerlo si può andare su www.pangeaonlus.org/2014/07/24/rapporto-sull-attuazione-della-piattaforma-azione-pechino-0rFgjTDWqfCFoUMvAebKaM/index.html). “Nel 2011 lo abbiamo fatto in occasione di un'altra scadenza, il rapporto ombra relativo alla Convenzione Onu sull'eliminazione di tutte le discriminazioni sulle donne (Cedaw). Si procede a piccoli passi, ma incessantemente”, spiega Lanzoni. Qualcosa di positivo dal governo italiano, grazie anche all’impegno delle associazioni, è arrivato. I rapporti ombra sono studi che possono essere utilizzati per far pressione su chi governa, riuscendo a ottenere risultati anche importanti (in Italia, uno per tutti, la ratifica e l'entrata in vigore della Convenzione di Istanbul, sulla violenza di genere).
Parità di genere. "Ultimamente si sono registrati passi in avanti, seguendo un trend internazionale e si è scelto di coinvolgere maggiormente le donne in politica. È cresciuta la percentuale femminile tra i parlamentari", conferma Lanzoni. "Sono state nominate diverse donne ai vertici di aziende pubbliche e parapubbliche anche importanti ed è aumentata la presenza femminile nei cda di aziende quotate in borsa. Tutto questo però non migliora le condizioni di vita delle donne in Italia". Ecco perché, sulla parità di genere, il nostro Paese negli ultimi cinque anni ha più volte attirato le critiche delle istituzioni internazionali. Per fare un esempio, secondo i dati dell'ultimo rapporto Istat sul benessere economico in Italia (2014), le disuguaglianze nell'accesso al lavoro tra donne e uomini negli ultimi anni si sono accentuate e il divario di genere resta molto elevato. A febbraio 2014 risultava occupato solo il 46,6% delle donne, contro il 64% degli uomini. Tutte devono affrontare la mancanza e la precarietà di lavoro e di welfare che si accompagna al retaggio culturale che le vede "responsabili" della cura dell'infanzia, degli anziani e della famiglia.
“Siamo un Paese in cui mancano vere politiche di welfare, a partire da asili nido, scuola a tempo pieno, cura di anziani e disabili. Mancano misure che favoriscano il mantenimento di un posto di lavoro con uno stipendio in grado di sostenere tutte le spese che una persona e una famiglia devono affrontare. Le giovani donne si trovano costrette a scegliere tra mantenere un lavoro o fare figli. Il nostro tasso di natalità è tra i più bassi in Europa perché non abbiamo scelta”.
Violenza di genere, media e carriera. Sul fronte dei maltrattamenti, non abbiamo ancora un piano antiviolenza concordato con le organizzazioni specializzate su questo tema, nonostante i media ci bombardino di notizie negative, con femminicidi ogni due, tre giorni. Ecco perché la onlus sta lavorando per attivare una campagna di raccolta fondi nazionale per contrastare la violenza domestica dal titolo "#maipiùinvisibili", finalizzata anche a sostenere cinque centri antiviolenza nel Sud del Paese, così da evitarne la chiusura.
Tornando a parlare di media e donne, l'immagine veicolata da pubblicità e programmi è fuorviante e non rispecchia la realtà: “Siamo ancora ipersessualizzate o presentate come donne-sante. Ma nella vita di tutti i giorni siamo ben altro”. Ossia persone che studiano, lavorano, pensano alla famiglia, fanno di tutto per essere, come si dice, “multitasking”. Nel 2012 la quota di giovani che ha interrotto precocemente gli studi è stata pari al 17,6%, il 20,5% tra gli uomini e il 14,5% tra le donne. Ma non sempre questi sforzi vengono premiati. Pur rappresentando il 58% dei laureati, le ricercatrici universitarie sono infatti 10mila su 24mila, le professoresse associate 5.600 su 16mila, le ordinarie 3mila su 14.457 e sono solo 5 le donne su 78 rettori in tutta Italia.
Salute. Mancanza di politiche adeguate sul fronte del welfare, dell’istruzione, dell’inserimento nel mondo del lavoro e della sanità: un campanello di allarme è rappresentato dalla diminuzione della speranza di vita delle donne (notoriamente superiore a quella degli uomini) che in Italia si sta allineando a quella maschile. “Per non parlare del mancato rispetto delle leggi che garantiscono i diritti sessuali e riproduttivi”, precisa Lanzoni. “L'Italia è un Paese con una specificità culturale e religiosa che a volte entra in collisione con il rispetto di leggi e convenzioni internazionali”. Il tema salute, inoltre, si collega automaticamente a quello dei disastri ambientali. Diversi studi hanno indagato, ad esempio, la connessione tra l'esposizione a composti diossina-simili e la crescente incidenza di endometriosi. “Da noi mancano il riconoscimento delle problematiche ambientali legate alle donne e una politica che garantisca sicurezza e risorse pulite e rinnovabili”. Altra questione che verrà presentata a New York è il trattamento che il nostro Paese riserva alle migranti, donne che vivono situazioni di precarietà e diritti non riconosciuti e non applicati: “Cosa stiamo facendo per riconoscere i loro bisogni e salvaguardare la loro dignità, dopo gli orrori che hanno vissuto? Perché invece di spedire armi non rafforziamo le risorse a disposizione di queste donne e delle loro organizzazioni?”, domanda Lanzoni.

Ma l’Italia non è l’unico Paese a indossare la maglia nera nel mal-trattamento della popolazione femminile e a livello mondiale le Nazioni Unite hanno detto di non aver raggiunto gli obiettivi di sviluppo che si erano poste nel 2000 (obiettivi del millennio - MDGs). “Se guardiamo l'andamento dei diritti delle donne in una prospettiva storica, partendo da 100 anni fa", conclude Lanzoni, "non possiamo dire che non ci siano stati miglioramenti. Oggi possiamo votare, ci sono riconosciuti i diritti umani al pari degli uomini, abbiamo convenzioni importanti che ci tutelano, godiamo di maggiori libertà”. Quello che rimane da fare è declinare quanto raggiunto sulla carta nella vita reale, nei linguaggi, nei pensieri, nelle azioni. Impresa ardua ma non impossibile.

venerdì 13 marzo 2015

Che genere di lavoro?
Una mostra e un seminario per discutere di conciliazione e condivisione 




Stampa e sessismo: perché intitolare la via ad una donna deve essere occasione di insulto? di Monica Lanfranco |

Ne La tribù del calcio Desmond Morris, nel 1981, descrisse una partita di calcio con gli occhi di un extraterreste: dall’astronave la creatura aliena avrebbe visto due gruppi ristetti (di un solo genere sessuato) in rappresentanza di due tribù avversarie mentre compivano un rituale legato ad un oggetto rotondo da spingere in un determinato luogo. Lo scienziato antropologo introduceva dunque il discorso sul senso del simbolico delle azioni, individuali e collettive.
Che penserebbe un extraterreste leggendo un articolo di giornale che racconta la proposta, da parte di diverse associazioni di donne, supportate da un lungo lavoro nelle scuole, di intitolare alcune strade e luoghi pubblici ancora senza nome a donne che hanno lasciato un segno nella società, articolo corredato con la foto del nome di una strada scelta con chiaro intento a doppio senso?
Che cosa racconta questa scelta, che a molti sembrerà divertente, arguta, dissacrante, persino una lezione di leggerezza a queste donne, così seriose e incapaci di pensare a questione più serie rispetto alla toponomastica?
Il movimento trasversale di toponomastica femminile, nato nel 2012 per volontà della studiosa Maria Pia Ercolini che lo lanciò su Facebook raccogliendo subito entusiasmo e consenso è un progetto culturale e sociale che ha coinvolto centinaia di associazioni e gruppi, ma anche scuole e istituzioni locali, nella consapevolezza che l’esclusione delle donne e del femminile passa anche attraverso la cancellazione dei nomi, delle storie e delle vite delle donne che raramente sono nominate nelle strade delle città, e che quindi non entrano nel quotidiano del nostro vivere i luoghi.
Quando Lidia Menapace, decana del femminismo, scrive nel 1990 che per esistere socialmente bisogna essere memorabili, e quindi nominate, anticipa l’intento del progetto: posto che nella storia le donne degne di memoria sono davvero un numero esiguo, dai testi scolastici alle strade, è necessaria una riparazione del danno causato dall’invisibilità.
Cominciare a chiamare le strade con nomi di donne è già un passo significativo.
Si tratta di una questione, mi pare, di buon senso e di civiltà, che non prevede manifestazioni, turbativa di traffico, urla e disturbo alcuno: in tutte le città le donne che hanno accolto il progetto hanno coinvolto istituzioni e scuole, quindi cosa c’è che non va?
Perché il giornale di Imola La voce correda l’articolo che racconta il percorso dell’associazione Perledonne per l’intitolazione di strade e luoghi pubblici a personalità femminili con l’immagine di Via della sega?
Una delle risposte possibili (oltre a quella che chi ha preso questa decisione sia un adolescente un po’ immaturo) è che se il direttore del settimanale che pubblica le foto di una ministra che mangia un gelato con commenti esplicitamente di allusione sessuale se la cava con le scuse, applaudite in una trasmissione tv a sfondo culturale (Che tempo che fa) e poi con una lunga intervista nella quale presenta il suo ultimo libro (Le invasione barbariche), ovvio che un piccolo giornale di provincia può farsi una grassa risata alla faccia della toponomastica femminile.
Un consiglio alla redazione, da collega: darsi una occhiata al video sulla responsabilità della categoria sull’uso delle parole, ideato dalle rete di giornaliste Gulia.
Magari la visione e la riflessione possono aiutare a migliorare il livello della comunicazione.


giovedì 12 marzo 2015

Gli stereotipi di genere e il rispetto di il ricciocorno schiattoso

Le compagnie più piacevoli sono quelle nelle quali regna, tra i componenti, un sereno rispetto reciproco. (Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive)
Quando mio figlio frequentava la scuola materna era iscritto ad un corso di nuoto.
Aveva forse 4, o 5 anni – non ricordo di preciso – quel giorno che entrando nello spogliatoio della piscina l’ho visto che si stava azzuffando con un altro bambino. Io e la mamma di questo bambino siamo corse a dividerli, quindi abbiamo cercato di capire perché se le stessero dando di santa ragione.
A causare la lite era stato il fatto che mio figlio, per tutto il tempo, si era rivolto a quel bambino al femminile, chiamandolo bambina; insisteva che il suo intento non era affatto prenderlo in giro, perché lui in realtà era una lei: ne era proprio convinto. Lo scambio di battute fra i due era più o meno questo: “Mi chiamo Michele e sono un maschio!”, “No, tu sei una bambina!”.
La mamma di Michele allora ha chiesto a mio figlio il perché di tanta sicumera, e mio figlio ha risposto: “I maschi non hanno le trecce!”
Il bambino in questione, infatti, aveva una lunga treccia che gli scendeva dietro la schiena.
Allora questa mamma ha sfilato il costume a Michele: “Visto? E’ un maschio.”
Quel pomeriggio io e mio figlio siamo andati a prenderci un gelato e, seduti ad un tavolino che dava sulla piazza, ci siamo messi ad osservare la gente che passeggiava. Gli ho indicato tutti gli uomini con i capelli lunghi che passavano, e anche le donne con i capelli corti, spiegandogli che non è da un simile dettaglio che si può definire “maschio” o “femmina” una persona. Gli ho anche spiegato che anche se prima di quel giorno non aveva mai incontrato un maschio con le trecce, questo non avrebbe dovuto farlo giungere alla conclusione che ai maschi la treccia è preclusa, perché ognuno è libero di pettinarsi come preferisce – o di indossare quello che preferisce – e in ogni caso non è educato attribuire a qualcuno un genere quando quella persona sostiene di appartenere ad un altro.
Quel giorno, in un modo credo appropriato alla sue età, ho affrontato con mio figlio il problema degli stereotipi di genere, cioè quell’insieme di caratteristiche che viene arbitrariamente attribuita alle donne e agli uomini sulla base del loro sesso biologico, che ci rimanda un’immagine semplicistica ed errata della realtà.
Vi racconto questa storia perché spero che aiuti a chiarire il nesso fra gli stereotipi di genere e il rispetto.
Premetto che con “rispetto” intendo quel sentimento che ci permette di astenerci da qualsiasi comportamento lesivo nei confronti degli altri.
Semplificare la realtà attraverso l’uso degli stereotipi è un processo cognitivo che gli individui adottano per mettere ordine, a fronte di un mondo fatto di differenze e di relazioni sociali complesse.
Produrre semplicità e ordine inevitabilmente produce la perdita di quei dettagli e la ricchezza di quelle sfumature che spesso sono capaci di fare la differenza nella valutazione delle cose.
Per mezzo degli stereotipi un certo numero di caratteristiche – anche di tipo psicologico o attinenti a qualità morali e a giudizi di valore – vengono attribuite a determinati gruppi sociali ed estese, indifferenziatamente, a tutti i loro membri. Questo comporta la creazione, sulla base di quelle caratteristiche, di una differenziazione tra Noi e Loro, ovvero il gruppo cui si sente di appartenere, e gli altri, quelli che non sono come Noi.
Noi, i maschi, Loro le femmine: una differenziazione che a volte si traduce in Noi – che siamo migliori – e Loro – che ci sono inferiori.
Spesso e volentieri, chi etichetta le persone sulla base degli stereotipi di genere finisce col fare del male a Loro, tutti quelli che non appartengono al gruppo Noi.
Spesso e volentieri, etichettare le persone sulla base degli stereotipi di genere comporta il fare del male a quelli che non sono “abbastanza Noi”, cioè non corrispondono all’immagine di cosa dovrebbe o non dovrebbe essere un maschio, e cosa dovrebbe o non dovrebbe essere una femmina.
Proprio come ha fatto mio figlio, quando si è messo a picchiare un bambino perché aveva i capelli lunghi.
Per tanto ritengo che chi se la prende con chi vuole aiutare i bambini ad andare oltre le semplificazioni, a comprendere che appartenere ad un Noi non implica il disprezzare Loro e che all’interno di ogni Noi ci sono molte differenze che gli stereotipi occultano, non sta “proteggendo” i bambini, ma sta negando loro l’opportunità di imparare a trattare l’altro da sé con rispetto.
A volte, per imparare a rispettare gli altri, è utile “mettersi nei loro panni”.
E se l’idea vi atterrisce e vi disgusta, forse dovreste chiedervi se non sono quei panni, o chi li indossa, a disgustarvi, e se il problema di fondo è che non avete rispetto per quelli che non sono come voi.


mercoledì 11 marzo 2015

Luci e ombre sull'approvazione della risoluzione Tarabella in tema di diritto all'aborto di Maddalena Robustelli, Zeroviolenza

Alle dodici di stamane (ndr 10 marzo) si è diffusa in rete la notizia dell'approvazione al Parlamento di Strasburgo della risoluzione Tarabella relativa alla "Relazione sulla Parità tra donne ed uomini nell'Unione europea per l'anno 2013". Al suo interno sono affrontati vari temi, il congedo parentale, il gap salariale di genere, il divario pensionistico e l'implementazione di politiche proattive per l'occupazione femminile.
C'è anche un esplicito riferimento al diritto delle donne di disporre del proprio corpo, allorchè il testo "insiste sul fatto che le donne debbano avere il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi,
segnatamente attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all'aborto; sostiene pertanto le misure e le azioni volte a migliorare l'accesso delle donne ai servizi di salute sessuale e riproduttiva e a meglio informarle sui loro diritti e sui servizi disponibili".
Certamente questa risoluzione è a carattere generale e non si focalizza esclusivamente sul diritto all’aborto, ma tant’è che molte donne europee ne auspicavano il voto favorevole perché, riconosciuto il diritto, ne sarebbe conseguito l’eliminazione dell’ odierno principio di sussidiarietà in materia di libertà riproduttiva. Un principio che consente ai singoli Stati membri della U.E. di legiferare a proprio piacimento, denegando di fatto la tutela dell’autodeterminazione delle donne, come in Italia per il tramite dell’alta percentuale di obiezione di coscienza degli operatori sanitari pubblici, o contrastandola di diritto,come in Polonia, Irlanda e Malta, dove l’aborto non è consentito.
Senonchè il tam tam di soddisfazione è cessato all’improvviso appena letto un tweet dell’europarlamentare Silvia Costa, dal quale si è compreso che il testo era stato emendato. Nello specifico, laddove è stata prevista che “l'elaborazione e l'applicazione delle politiche in materia di salute e diritti sessuali e riproduttivi nonché in materia di educazione sessuale sono di competenza degli Stati membri” Si sono allora incalzati di domande i rappresentanti istituzionali a Strasburgo, che hanno dovuto ammettere il sacrificio del diritto all’aborto sull’altare del rispetto del principio di sussidiarietà.
Un obiettivo fortemente perseguito dagli esponenti del Ppe e avallato dalla mediazione accettata dal Pse, con il voto favorevole all’emendamento suindicato. Lasciare ai singoli Stati la facoltà di decidere le politiche sanitarie in materia di diritto all’aborto consente di dire che il Parlamento di Strasburgo offre alle donne europee una scatola vuota. Riconoscere a livello comunitario un diritto e non consentirne la tutela laddove nella pratica è negato, potrà anche sembrare una vittoria parziale, ma sa tanto l’amaro sapore della beffa.
Ad una europarlamentare che mi ha sottolineato che “I trattati, come sai, sanciscono in questa materia la sovranità degli stati membri. E' a questo che si attaccano gli antiabortisti. La battaglia deve continuare a partire dai territori. Noi oggi abbiamo portato a casa un piccolo ma incoraggiante risultato”, ho risposto: “Non metto in dubbio che rispetto alla risoluzione Estrela il risultato sia favorevole, ma non potete da europarlamentari chiedere alle donne italiane di ripartire dai territori. Se in uno specifico ospedale 7 ginecologi su 7 sono obiettori e da anni si richiede invano l'intervento delle istituzioni pubbliche, come si possono ottenere risultati diversi?
Comprendete che speravamo tanto nell'Europa e nelle sue istituzioni, che con disposizioni specifiche consentisse multe agli Stati membri che non tutelassero il diritto delle donne alla salvaguardia della propria capacità riproduttiva? Certo la risoluzione Tarabella non è a carattere legislativo ma, ove non fosse rimasto il principio della sussidiarietà che avete salvato oggi, le donne europee avrebbero sperato in successive disposizioni cogenti al riguardo del riconoscimento della libertà di decidere in piena scienza e coscienza se divenire o no madri”.
La mediazione al ribasso messa in campo oggi, consistita nell'avere emendato il testo secondo i desiderata del Ppe, determinerà che l'Europa continuerà a negare alle donne polacche la tutela sovranazionale del diritto all'aborto negato in patria, come anche alle irlandesi e alle maltesi. Senza contare il fatto che se nel comunicato stampa successivo alla votazione odierna si legge che "I deputati ribadiscono che le donne dovrebbero avere il controllo sulla loro salute sessuale e riproduttiva, compreso un facile accesso alla contraccezione e all'aborto", vuol dire gli stessi parlamentari sono consapevoli del parziale risultato ottenuto.

Non ci resta, quindi, che constatare che i diritti delle donne in Europa sono declinati al condizionale e non all'indicativo, a differenza degli altri. Ingenue noi donne, di qualsiasi Stato appartenente alla U.E., ad avere pensato che non fosse così.  

martedì 10 marzo 2015

“Io non sono femminista, però penso che…” (la premessa delle più giovani)di Kibra Sebhat

Tutte le volte è la stessa sensazione. Tutte le volte che prima di dire la propria durante una conversazione sulla parità di genere sento una coetanea mettere le mani avanti così, «io non sono femminista, però penso che…», non posso fare a meno che pensare: che noia.
Pur di non scadere nella polemica, ma con l’aspirazione di far nascere anche un minimo di dibattito, vi chiedo: esattamente, a chi o che cosa pensate che la nostra generazione debba chiedere il permesso per avere una opinione sul proprio genere? 
Per quale motivo sentiamo il bisogno di giustificare le nostre posizioni e perchè assecondiamo la regola non scritta per cui, se vuoi dire qualcosa sulla tua femminilità, devi prendere le distanze da un movimento politico che è costato parecchia fatica ad altre donne, e non a te?
Mi sono sforzata di fare un passo indietro, o per meglio dire di fianco.
Non faccio fatica a ripercorrere un breve passato in cui anche io, come tutte, ho subito un sorta di opera di convincimento (anche qui, da parte di chi, non saprei spiegarlo bene) che mi ha fatto credere che le femministe fossero delle streghe brutte e cattive, che magari “mangiavano i bambini”.
Poi però sono cresciuta e penso di aver maturato un minimo di capacità critica per essere in grado di distinguere quella che è la mia storia da quella di altre donne: più consapevoli, prima di tutto. Ma soprattutto che quando è stato necessario hanno avuto il coraggio di formare un movimento che è stato in grado di scrivere un pezzo di storia.
Se penso a me, a noi, mi chiedo perché dovremmo perdere tempo sforzandoci di prendere le distanze da quel passato (che può testimoniare anche degli errori importanti) invece che concentrarci su quello che possiamo costruire noi, oggi.
Forse ci mancano i temi su cui ritrovarci?
Anche qui ho riflettuto molto: se il confronto sull’immagine pubblicitaria delle donne vi sembra ripetitiva; la difesa o meno della l.194 urta le vostre posizioni politiche; i problemi lavorativi pre e post maternità li sentite lontani e non avete bisogno di insegnare al vostro convivente cosa vuole dire condividere le faccende di casa, io ho una proposta.
Non vi sembra assurdo che molte di noi vengano pagate meno dei colleghi uomini? Non importa se le mansioni sono uguali, le responsabilità e il percorso per ottenere la posizione pure: il riconoscimento monetario per il lavoro è diverso. Approssimato per difetto. Questo risparmio discutibile ha coinvolto anche personalità di spicco come Christine Lagarde, Direttrice del Fondo Monetario Internazionale o Jill Abramson, ex direttrice del New York Times: bastano per giustificare la nostra richiesta di parità di trattamento?
Sono esempi sufficienti per unire una domanda trasversale, tra generi e generazioni? Se la risposta è ancora una volta no, cosa proponete?

Non sottovalutate l’importanza delle alternative.
Perché se anche una volta all’anno vi capita di pensare che ci sia una nota stonata nel racconto del rapporto tra i sessi, ma non vi ritrovate nelle rivendicazioni avanzate, contribuire con nuove voci e azioni è fondamentale.
In gioco c’è la nostra serenità e quella di chi ci circonda. Che siano costruttive però, non polemiche, perché nessuno ha tempo da perdere. E tempo sommato a tempo, speso male, equivale a giocarci il nostro futuro.
Perciò, tornando alla domanda del principio, cosa c’è di male nel ragionare sulle conquiste raggiunte fino ad ora e quelle invece da firmare con la “tag” della nostra generazione?
Io direi niente, anzi. Potremmo dire al mondo che ci osserva che nessuno è riuscito a rubarci il senso di responsabilità (da proteggere ancora prima del “nostro futuro”).
Responsabilità verso noi stessi, che ci permette di credere nelle nostre idee e nelle nostre argomentazioni.
Responsabilità verso gli altri: quella spinta ad agire per difendere le persone attorno a noi, sia quelle ancora più giovani, sia quelle più adulte. 
Spike Lee, nel lontano 1989, sintetizzava tutto questo in “Fà la cosa giusta”. Oggi, la cosa giusta da fare, è fare.

lunedì 9 marzo 2015

Giornata internazionale della donna: 8 marzo di Vittoria Latella

La Giornata Internazionale della Donna ha attraversato la storia del Novecento raccontando le conquiste delle donne. C'è il rischio che la perdita della profondità storica trasformi questa giornata solo nel giorno della mimosa e della festa della donna. 
E' importante, quindi, risalire alle sue origini e recuperare la memoria.
L'associazione “ventunesimodonna” di Corsico, in quest'ottica ha presentato i risultati di una ricerca e di una racconto che vanno alle origini dell'8 marzo.
Due donne entrambe siciliane, Ester Rizzo con un libro dal titolo “Camicette bianche” e Maria Rosa Cutrufelli con un racconto “Fuoco a Manhattan”, hanno fatto conoscere una pagine di storia, anche italiana le cui protagoniste sono donne mai raccontate... donne migranti alla ricerca di una vita migliore.
Il 25 marzo del 1911 a Manhattan in una fabbrica tessile, laTriangle Company, scoppia un terribile incendio.
Muoiono 146 persone, 136 erano donne, delle quali 38 italiane, 24 siciliane, alcune calabresi e qualche veneta.
Ester Rizzo ha avuto accesso agli archivi storici ed ha recuperato le piccole storie di quasi tutte le donne italiane, ricercando le loro tracce anche nei paesi d'origine.
Vera e documentata è la storia delle 136 donne morte nella Triangle di New York, su cui un'altra donna siciliana, la regista Costanza Quadriglio, ha prodotto un docufilm dal titolo “Triangle”.
Controverso e non documentato è ancora l'incendio del 1908 della fabbrica Cotton in cui avrebbero perso la vita più di 100 donne, a cui si è attribuita l'origine dell'8 marzo.
Questa data che ha rappresentato la presa di coscienza a livello internazionale delle rivendicazioni di diritti e di libertà delle donne del Novecento, dovrebbe oggi diventare un momento di incontro fra le voci plurali e globalizzate delle donne per rivendicare i nuovo diritti e le nuove libertà e valorizzare le diversità culturali.
E' questa l'ottica con la quale le donne corsichesi di “ventunesimodonna” hanno organizzato due incontri sul tema scottante del lavoro declinato al femminile.

Il 19 marzo alle ore 21 presso il Centro Foscolo in via Foscolo 3d una mostra “Concilia?” del gruppo GiULiA giornaliste

Il 21 marzo alle ore 15,30 preso il Centro Foscolo, via Foscolo 3d la seconda parte del “Laboratorio di discussione – Che genere di lavoro?” in cui si discuterà di donne e lavoro: a partire da conciliazione e condivisione, la ricerca di percorsi possibili da attivare.










domenica 8 marzo 2015

8 marzo: le mimose lasciatele sugli alberi. In casa, dopo un po’, fanno cattivo odore. Lea Melandri


Chissà perché la ricorrenza di un evento luttuoso – quale è stato storicamente l’8 marzo – è diventata, prima la “giornata” e poi “la festa della donna”.
Per anni ho costretto me stessa a darle un senso, più che altro per il rispetto dovuto a tutte le associazioni, gruppi femminili e femministi che avrebbero preso quell’occasione per incontri e dibattiti su temi di comune interesse.
Oggi, di fronte ai rimasugli penosi che escono dalle radio, dalle televisioni e dai giornali, di quella che pervicacemente, vergognosamente resta la “questione femminile” – le donne considerate alla stregua di un gruppo sociale svantaggiato o come un “genere” da uguagliare o tutelare sulla base dell’ordine creato dal sesso vincente – ho un desiderio forte e deciso:

- che non se ne parli più;

- che nessuna data venga d’ora innanzi a fare da velo a uno dei rapporti di potere che oggi, molto più che in passato, appare scopertamente come la base di tutte le forme di dominio che la storia ha conosciuto, nella nostra come nelle altre civiltà;

-che si dica con chiarezza che non di “cose di donne” stiamo parlando, ma dell’idea di virilità che ha deciso dei destini di un sesso e dell’altro, della cultura – e della storia che vi è stata costruita sopra, nel privato come nel pubblico;

-che gli uomini si prendano la responsabilità di interrogarsi sulla violenza di ogni genere perpetrata nei secoli dai loro simili, e che lo facciano, come hanno fatto le donne, partendo da se stessi, consapevoli che solo indagando a fondo nella singolarità delle vite e delle esperienze personali possiamo scoprire le radici di una visione del mondo che ci accomuna, al di là di spazi e tempi.

Non sono pregiudizialmente contraria alle ricorrenze ma vorrei che, senza storpiarne o banalizzarne il significato, diventassero per tutti un momento di riflessione: ossia di riconoscimento degli interrogativi che vi sono connessi e delle aspettative di cambiamento che da lì si possono aprire.
Non è stato così per l’8 marzo, che ha visto un tema di primaria importanza per la crisi che stanno attraversando la politica, l’economia e la civiltà stessa – la relazione tra i sessi, la divisione sessuale del lavoro, la dicotomia tra privato e pubblico, natura e cultura, eccetera – restringersi progressivamente a pochi scampoli rivendicativi dettati dall’endemica “miseria femminile”.

A quante mi obietteranno che così si toglie un’opportunità di portare allo scoperto, sia pure per un giorno solo, il faticoso lavoro carsico del movimento delle donne, rispondo che può essere, al contrario, la spinta per creare da noi stesse le occasioni di incontro che ci servono, senza attendere che ce le offrano altri, con un mazzetto di mimose.