martedì 24 dicembre 2019

auguri tanti tantissimi auguri da ventunesimodonna


grazie alle donne e agli uomini che hanno partecipato alle nostre iniziative e arrivederci al prossimo anno sempre con le donne e per le donne

giovedì 19 dicembre 2019

I libri di GiULiA: manuali di linguaggio

GiULiA ha prodotto diversi manuali sul linguaggio, in collaborazione con le migliori esperte di linguistica e di media gender degli atenei italiani. Ora li trovate qui
 
Riceviamo sempre molte richieste per i nostri manuali sul linguaggio nei media, per i quali ci siamo avvalse di volta in volta del contributo delle migliori esperte di linguistica e di media gender degli atenei italiani. Ora li mettiamo a disposizione delle nostre lettrici e dei nostri lettori (a fronte di un contributo per l'associazione).

Abbiamo prodotto negli anni:
"Donne, grammatica e media - suggerimenti per l'uso dell'italiano", a cura di Maria Teresa Manuelli, con il contributo di Cecilia Robustelli e la prefazione della presidente onoraria dell'Accademia della Crusca Nicoletta Maraschio (volume esaurito);

"Stop violenza: le parole per dirlo", a cura di Silvia Garambois, con il contributo di Graziella Priulla e di Elisa Giomi e Luisa Betti Dakli;

"Stereotipi - donne nei media", a cura di Marina Cosi, con i contributi di Monia Azzalini, Guido Besana, Stefania Cavagnoli, Mara Cinqueplami, Marina Cosi, Francesca Dragotto, Camilla Gaiaschi, Luigi Gariglio, Giovanna Pezzuoli, Paola Rizzi, Maria Silvia Sacchi, Luisella Seveso;

"Donne sport e media", a cura di Mara Cinquepalmi, con il contributo di Laura Moschini e di Manuela Claysset e Mimma Caligaris (fresco di stampa)



Chi fosse interessata (o interessato) può scrivere a "Ilibridigiulia@gmail.com", indicando il manuale desiderato, fornendo i dati di spedizione (nome e indirizzo) e accludendo ricevuta di versamento come donazione a GiULiA giornaliste, a partire da un minimo di 10euro a copia, comprensivi di spese di spedizione postale. (il versamento va intestato a "Giulia giornaliste", iban IT59B0200805075000104986745, causale "contributo per progetto libri").
https://giulia.globalist.it/documenti/2019/12/05/i-libri-di-giulia-manuali-di-linguaggio-2049986.html?fbclid=IwAR0PiLJ7E8nt-jmQighxNABxqdacVdNfkM8vh87-mkxagkCalimLKWN3Pz8

lunedì 16 dicembre 2019

LE MADRI CHE DALL’ITALIA SFIDANO LE POLITICHE DELLA GALASSIA SOVRANISTA di FEDERICA D'ALESSIO

In Italia le madri sono figura fra le più idealizzate; argomento di canzoni, pubblicitario più che letterario, non hanno mai costituito un vero e proprio soggetto politico. Anche per questo motivo, la lotta che alcune madri italiane hanno avviato nei confronti di quella che definiscono “violenza istituzionale” dei Tribunali rappresenta una novità tutta da cogliere. Sono donne come Laura Massaro a Ostia, Ginevra Amerighi a Roma, Imma Cusmai a Milano e altre, che nel corso di separazioni giudiziali si sono viste privare della potestà genitoriale perché accusate di “alienazione parentale”, cioè di comportamenti manipolatori verso i figli finalizzati a mettere in cattiva luce la figura paterna. Le perizie che spesso le accusano adducono, come unica prova, la difficoltà di relazione fra i bambini e i loro padri. Padri, in diversi casi, già denunciati per atti di violenza domestica, contro le partner o contro i bambini stessi.

Secondo le statistiche, fra le ragioni principali delle separazioni coniugali ci sono i maltrattamenti maschili violenti, che aumentano nei mesi appena successivi a una separazione, i più pericolosi per le donne. L’associazione Save the Children ha stimato nel 2018 che in Italia almeno 427mila bambini, nel solo periodo fra il 2009 e il 2014, hanno assistito dentro casa ad atti di violenza, nella quasi totalità dei casi compiuta dal padre nei confronti della madre. La violenza assistita, secondo gli studiosi, ingenera gli stessi traumi di quella direttamente subìta.

Per  la legge italiana ciò non è importante: si applica in ogni caso il principio di “bigenitorialità”. Una filosofia psico-giuridica in base alla quale l’interesse del minore, quando due genitori si separano, non è quello di crescere in un ambiente domestico sereno e ricevere le cure cui ha diritto per una crescita e uno sviluppo sani, bensì mantenere una relazione con entrambi i genitori, a tutti i costi in misura equivalente, a prescindere dal genere di legame che intercorreva prima della separazione. A prescindere persino da eventuali casi di violenza domestica, che nelle sentenze viene descritta quasi sempre come “conflittualità”.

La bigenitorialità e l’affido condiviso sono legge dal 2006, e sono centinaia, in tutta Italia, le sentenze che ogni anno vedono i tribunali deliberare sulla “conflittualità genitoriale”. Nelle separazioni consensuali, questioni anche minime che riguardano la vita dei figli devono essere comunque stabilite dai giudici e diventano il terreno per continui dispetti e microaggressioni; nei casi più gravi, la ratio dell’affido condiviso consente a padri violenti e abusanti di utilizzare il diritto paterno di relazione con il figlio come una forma di ricatto e vendetta nei confronti delle donne, che non possono allontanarli dalla loro vita. Come ha spiegato la neonatologa pediatra Serenella Pignotti nel libro “I nostri bambini meritano di più“, la bigenitorialità, più che un diritto dei bambini, si traduce nel diritto dei genitori a rivendicare il controllo – di fatto la proprietà – dei figli come ulteriore strumento di abuso e violenza di coppia. E sebbene la Cassazione sia intervenuta di recente per precisare l’applicazione legittima della bigenitorialità rimettendo al centro l’interesse dei minori, le storture nell’applicazione sono proseguite. Violando la Convenzione di Istanbul, i bambini vengono frequentemente obbligati contro la loro volontà a incontri con padri già riconosciuti come violenti, al fine di soddisfare il diritto di questi ultimi ad avere un rapporto con i figli.

Dieci anni fa fece scalpore, ma forse non abbastanza, la vicenda del piccolo Federico Barakat, ucciso dal padre che gli sparò e poi lo uccise a coltellate durante un incontro protetto, cui il piccolo fu obbligato nonostante le denunce della madre e nonostante si fosse più volte opposto a vederlo. Anche in quel caso la madre, Antonella Penati, era stata accusata di alienazione genitoriale da periti e assistenti che ne seguivano il caso. In seguito alla morte di Federico, Penati ha fondato l’associazione Federico nel cuore Onlus che offre sostegno e solidarietà alle madri e ai figli vittime di violenza domestica.

Da quando nella psicologia giuridica si è affermato il costrutto dell’alienazione parentale, le difficoltà di relazione dei bambini con i padri non vengono imputate a comportamenti negativi dei padri stessi, ma alle strategie – definite alienanti, manipolatorie o in altri modi fantasiosi – che la madre metterebbe in campo per allontanare il figlio dal padre. Una madre orca, o strega se vogliamo. Considerata responsabile delle violenze commesse dagli uomini: com’è da sempre nel senso comune, quando di una vittima di stupro si dice che “se l’è cercata”. O come ai tempi del delitto d’onore. O come secondo le teorie di Richard A. Gardner, il teorico della pedofilia che s’inventò l’alienazione parentale negli Stati Uniti decenni fa. Gardner, pur sconfessato da tutte le autorità accademiche e scientifiche, ebbe successo nel promuoverla come escamotage giudiziario per gli uomini accusati di aver abusato dei propri figli: se i bambini raccontano di aver subìto violenza, non è perché hanno subìto davvero violenza, ma perché le madri li hanno imbeccati e fanno loro credere di averla subìta. Secondo alcuni comitati di vittime di pedofilìa in Italia, come il comitato “Voci vere“, anche la strumentalizzazione della recente vicenda di Bibbiano va in questa direzione: far credere che la prassi abituale sia la manipolazione dei bambini è il modo migliore per privarli di credibilità nel momento in cui denunciano violenze realmente subite; e per farla passare liscia agli abusanti.

Con il suo disegno legislativo, Simone Pillon nel 2018 ha cercato di inasprire ulteriormente tutti i principi alla base della legge sull’affido condiviso, compresa la necessità di allontanare da casa i bambini figli di genitori separati, ritenuti dai giudici vittime di alienazione parentale, e di collocarli in strutture in cui possano essere “riprogrammati“, e preparati a una nuova relazione con il padre.

La sua azione è stata sostenuta da decine di associazioni dei Padri separati, gli stessi che negli anni 2000 chiesero la legge per la bigenitorialità e la ottennero nel 2006. Con poche eccezioni, come per esempio l’associazione italiana “Padri in movimento“, i Padri separati afferiscono in buona parte ai cosiddetti “Men’s Rights Movement”, i movimenti per i diritti maschili sorti negli anni ’70 come diretta reazione al femminismo. Per loro, il fine del femminismo sarebbe umiliare e soggiogare i maschi. Il web ha fornito a queste realtà, a lungo minoritarie, l’occasione per incontrarsi e moltiplicarsi, mettersi in rete e stringere alleanze. Si è trattato fin dal principio di un movimento transnazionale, con istanze politiche molto simili da un Paese all’altro.  L’estrema destra sovranista e internazionale che fa capo a Steve Bannon, cara a Vladimir Putin e a Donald Trump, ricava ampie sacche di consenso dai Movimenti per i diritti maschili. Vox, il partito di estrema destra spagnolo nato da appena quattro anni, che domenica scorsa è diventato il terzo partito nazionale, si fonda su un esplicito antifemminismo militante tanto quanto sul razzismo e sul nazionalismo, come ha scritto Flavia Perina su Linkiesta.

I movimenti maschili vanno quindi ben oltre l’hate speech online: hanno un’agenda politica e una rappresentanza politica. I Padri separati che fanno capo ai Men’s Rights Movement sono da sempre buoni alleati delle realtà cattoliche più reazionarie, quelle che si riconoscono nel Family Day e nel World Congress of Families. Organizzano convegni, giornate di studio, congressi, Festival della Bigenitorialità e della Paternità. Muovendosi con astuzia e approfittando dell’inconsapevolezza diffusa, hanno spacciato una legge dal tratto smaccatamente patriarcale come quella sull’affido condiviso (che fu promossa anche dai settori cattolici allora facenti capo alla Margherita/Ulivo, e a sinistra vide solo astensioni, ma non contrarietà) come una misura innovativa presso l’opinione pubblica, sfruttando l’ambiguità di un termine, come “bigenitorialità”, che nessuno all’epoca, né nel mondo dei media né tantomeno intellettuale ritenne di dover approfondire e venne superficialmente scambiato come sinonimo di paritarietà, pur significando tutt’altro.

Le realtà femministe che hanno protestato contro il DDL Pillon non hanno mai esteso l’oggetto del contendere anche alla legge 54/2006.  Nel testo di convocazione per la manifestazione contro il DDL Pillon inizialmente prevista per il 28 settembre scorso – genericamente indetta da “Movimenti Femministi, Associazioni di donne, Centri antiviolenza, Collettivi, Organizzazioni” – poi sospesa in seguito al cambio di governo, la legge 54/2006 che ha dato il via all’affermazione del principio della bigenitorialità e all’utilizzo del costrutto dell’alienazione parentale non viene neanche nominata. Se, cioè, la contrarietà al DDL Pillon ha visto le femministe genericamente tutte d’accordo sulla richiesta del ritiro del disegno di legge, manca una strategia unitaria per quanto riguarda la legge 54/2006. Tale mancanza è in parte dovuta anche agli approcci differenti, a volte distanti o contrapposti, che le varie realtà femministe adottano e hanno storicamente adottato nell’affrontare le istanze delle donne; strategie più istituzionali, o viceversa più sensibili alla lotta, che spesso faticano a incontrarsi fra loro per dare vita a un percorso unitario per quanto attraversato da diverse sensibilità.

Laura Massaro ha iniziato da oltre un anno, da sola, convinta fosse la cosa giusta da fare per proteggere suo figlio, un’opera di denuncia pubblica incessante delle perizie inesatte delle cosiddette Consulenti tecniche d’ufficio (CTU); pur riconoscendole il Tribunale di essere una brava madre, è stata privata della potestà genitoriale, dopo che aveva denunciato le violenze e gli abusi a opera del partner e per questa ragione è stato ritenuto facesse da ostacolo alla relazione fra il padre e il figlio. Ogni settimana, sostenuta dalla sua famiglia e da poche altre donne, Laura protesta davanti al Tribunale dei minori, a volte sotto Montecitorio. Le realtà del femminismo organizzato finora non si sono unite alla sua protesta mediatica, con poche eccezioni fra cui la rete “Giù le mani dai bambini e dalle donne“, l’associazione Maison Antigone; ma centinaia di donne nel corso degli ultimi mesi hanno cominciato ad appassionarsi al suo coraggio, a sostenerla e far circolare la sua storia sui social network. Lo scorso settembre Laura e altre madri hanno dato vita al Comitato “Madri unite contro la violenza istituzionale” e finalmente, anche la politica ha iniziato ad accorgersi di loro.

A ottobre il Tribunale dei minori ha decretato che il figlio di Laura venisse collocato presso il padre, nonostante il difficile rapporto di questo con il bambino, anzi proprio in virtù di questo difficile rapporto, perché possa essere riequilibrato. La scorsa settimana, le assistenti sociali recatesi a casa di Laura Massaro per una visita ispettiva – secondo Massaro finalizzata a prelevare finalmente il bambino, ad oggi ancora collocato presso di lei nonostante il decreto del Tribunale – hanno trovato ad accoglierle una rete di donne solidali, alcune arrivate anche da 500 km di distanza. Le assistenti hanno fatto dietro front senza neanche entrare dentro casa, e stigmatizzato la vicenda in un comunicato, dichiarando che tali presenze non avrebbero consentito lo svolgimento del loro incarico con la dovuta serenità.

Alcune deputate e senatrici nelle scorse settimane hanno espresso la loro solidarietà a Laura, organizzando rapidamente una Conferenza stampa alla Camera nel corso della quale Laura Boldrini, Veronica Giannone, Lucia Annibali, Valeria Valente Presidente della Commissione d’Inchiesta sul femminicidio e altre si sono impegnate a vario titolo a combattere l’applicazione del principio di alienazione parentale. Ma oltre la singola iniziativa di alcune personalità, contano le azioni politiche: nel contratto di governo fra M5s e Lega l’inasprimento della bigenitorialità era contemplato fra i punti da realizzare, e fu affidato a Pillon. Di contro, nell’intesa di governo fra M5s e PD non si parla della necessità di correggere gli abusi sulle donne e i bambini consentiti dalla legge sull’affido condiviso. Laura e le madri unite sono i primi soggetti politici ad aver trovato il coraggio di scontrarsi direttamente con l’agenda riconducibile al Men’s Rights Movement e all’estrema destra internazionale.
https://www.glistatigenerali.com/famiglia_questioni-di-genere/le-madri-che-dallitalia-sfidano-le-politiche-della-galassia-sovranista/?fbclid=IwAR28hxbk9uEzl9gDPN0S_X8Gy1ZPAzUDkSYQrR2PrhUzR98kv8g261nDXKA

mercoledì 11 dicembre 2019

Gli uomini possono diventare nostri alleati femministi?di PAOLA GIURA

Noi donne, grazie all'attivismo, stiamo cercando di trovare la nostra dimensione. Ma cosa dovrebbero fare i maschi mentre assistono, a volte inermi, a questi cambiamenti? Una piccola guida che ha stilato per noi il presidente di Ahige.
 
«Sii un vero uomo!» e «Non fare la femminuccia!» sono espressioni con cui devono ancora fare i conti gli uomini che ci circondano. La maggior parte dei rappresentanti del sesso maschile, fin dall’infanzia, fa colazione con «pane e mascolinità egemonica», ossia con un’educazione farcita di tutta una serie di stereotipi da rispettare, proprio come la controparte femminile. Le donne, grazie ai movimenti femministi, stanno cercando di trovare la loro dimensione, se non direttamente di abbattere il patriarcato dalle fondamenta: cosa dovrebbero fare gli uomini mentre assistono, a volte inermi, a questi cambiamenti?

ALLEATO O FEMMINISTI?
Ultimamente, molti uomini mostrano con autocompiacimento un grande cartello luminoso sulla propria testa con su scritto «femminista». Fra chi usa questa etichetta solamente per farsi bello agli occhi delle donne o per seguire, in modo superficiale, le direttrici della propria parte politica, la domanda che sorge spontanea è: gli uomini possono essere realmente femministi? Fra le femministe c’è chi dice che possono essere solamente «alleati». Txema Olleta Ormaetxebarria, presidente di Ahige, associazione maschile spagnola per l’uguaglianza di genere, si sente femminista, proprio perché, afferma, il femminismo difende l’uguaglianza tra uomo e donna. Partendo da questa presa di posizione, Olleta ci aiuta, attraverso la sua esperienza, a farci un’idea di cosa significhi essere un uomo femminista.

COME RICONOSCERE E DIVENTARE UN (ALLEATO) FEMMINISTA?
«L’uomo femminista è quello che si mette continuamente in discussione. Si tratta di un percorso che dura tutta la vita. Dev’essere cosciente dei rischi del maschilismo e le relazioni con le donne devono essere basate sulla gentilezza, sul rispetto della sua libertà e dei suoi spazi, sull’affetto e sugli accordi», spiega Olleta. Il compito degli alleati femministi, dunque, è quello di fare un percorso parallelo, senza cercare di trasformarsi nei protagonisti. Il rischio di mansplaining, infatti, è sempre dietro l’angolo. Facciamo lo sforzo, ora, di pensare agli uomini che conosciamo, dai partner, agli amici, passando per i familiari: continuano ad alimentare gli stereotipi di genere? «Aiutano» (solamente) in casa? Esprimono le loro emozioni? Fanno battute sessiste? Oltre a Olleta, viene in nostro aiuto anche il giurista e scrittore spagnolo Octavio Salazar con il suo libro «El hombre que no deberíamos ser» (L’uomo che non dovremmo essere) e il suo decalogo per mettere in moto una «rivoluzione maschile» e per ricercare altri modi per «essere uomini».

PRIMO PASSO: RICONOSCERE (E ABBANDONARE) I PRIVILEGI MASCHILI
Olleta chiarisce fin da subito che un uomo femminista deve «rinunciare a una serie di privilegi che si hanno per il semplice fatto di essere uomini». «Quali privilegi?» si chiederanno in molti, sorpresi. Se non è sufficiente sapere che gli uomini guadagnano di più rispetto alle donne per lo stesso lavoro, allora si può pensare, facendo una breve e incompleta lista, a:

• gli spazi politici che gli competono semplicemente perché gli uomini li hanno sempre occupati;

• la facilità con cui molti uomini credono che le faccende domestiche siano un compito naturalmente femminile;

• l’essere uno scapolo d’oro e non una triste zitella;

• la presenza di un tetto di cristallo che fa balzare gli uomini ai posti di comando senza dover lottare contro la concorrenza femminile;

• il non dover pensare a come tornare sani e salvi a casa di notte o a come vestirsi per non «suggerire» ai passanti eventuali abusi o violenze sessuali.

Queste e altre sono le cose a cui gli uomini hanno diritto (diritti non estesi alle donne), o che acquisiscono come privilegi per il semplice fatto di avere un organo sessuale diverso dal nostro.

SECONDO PASSO: CONDIVIDERE GLI SPAZI PUBBLICI
Se in Italia non sembra vicino il momento in cui una donna possa diventare presidente del Consiglio, quelle che sono riuscite a rendersi visibili in spazi pubblici importanti, spesso, hanno dovuto assumere dei comportamenti maschili per essere accettate dalla società. Basti pensare alla «figura mitologica», metà uomo e metà donna, secondo i pregiudizi di genere del patriarcato, delle cosiddette «donne in carriera» o delle «donne con le palle». Al resto, non resta che accontentarsi di commenti sul loro aspetto fisico più che sul ruolo politico, sociale o professionale. Un uomo femminista dovrebbe iniziare ad abbandonare l’idea che la società sia il suo palcoscenico i cui meccanismi sono stati creati su misura per lui. Ciò vuol dire imparare a condividerla con l’altra metà della popolazione, senza opporre resistenza e, in molti casi, facendo un passo indietro. Secondo Salazar, infatti, «Non è sufficiente che ci sia una presenza paritaria di donne e uomini nelle istituzioni, ma è urgente anche rivedere i metodi, i criteri di organizzazione e le priorità che, per secoli, hanno sostenuto gli interessi maschili».

TERZO PASSO: RIPARTIRE DAI RUOLI 'FEMMINILI'
«La differenza è visibile attraverso i fatti e non solo attraverso le parole. Non serve manifestare contro il maschilismo se poi, ad esempio, continui ad accettare battute maschiliste quando sei con i tuoi amici», ricorda Olleta. Il vero cambiamento degli uomini deve avvenire soprattutto nel privato. La casa e tutto ciò che contiene è, secondo il patriarcato, il «regno femminile», e, di conseguenza, zona off limits per gli uomini che devono essere solamente attivi a livello professionale o, facendo uno sforzo, preparando il barbecue in una domenica soleggiata. A livello privato, secondo Olleta, l’uomo deve lasciare da parte i suoi privilegi, occupandosi non solo delle faccende domestiche ma anche prendendosi cura degli altri, compresi i propri figli o i genitori in età avanzata. Non si tratta di conciliazione, insiste, ma di «corresponsabilità»: «Spesso gli uomini dicono 'Aiuto in casa'. Ciò vuol dire continuare a mantenere lo stereotipo secondo cui il peso della casa ricade sulla donna mentre noi abbiamo il ruolo di aiutante, per cui spesso vogliamo essere anche premiati».

QUARTO PASSO: RICOMINCIARE DALLE EMOZIONI
«Boys don’t cry», i ragazzi non piangono, cantavano The Cure alla fine degli Anni 70. Negli anni 2000, come ricorda Salazar, invece, ci hanno voluto ingannare con il «metrosessuale», un nuovo tipo di uomo che, in realtà, si distingueva dal «maschio alfa» solo per una riduzione considerevole della peluria corporea. Gli anni sono passati ma, per molti, essere uomini vuol dire ancora non mostrare le proprie emozioni e l’utilizzo, diretto o indiretto, della violenza. Non devono sembrare, insomma, delle donne, o rischiano di essere chiamati «omosessuali», una parola che per molti è ancora un insulto alla propria virilità. «Ogni essere umano ha quattro emozioni basilari: paura, ira, allegria e tristezza. Gli uomini hanno il permesso di utilizzare solamente ira e allegria», spiega Olleta, «Esistono molti altri motivi, però, una delle ragioni per cui gli uomini usano la violenza contro le donne è perché non sanno esprimere paura e tristezza. Esercitano violenza perché temono la libertà delle donne. Tuttavia, visto che la paura non è un sentimento che siamo liberi di esprimere, si trasforma in ira». Superare questo blocco è uno degli obiettivi di Ahige che aiuta gli uomini a esprimere tutti i sentimenti possibili: «Dopo il lavoro di gruppo cambiano le relazioni, non solo con le donne ma anche con gli altri uomini».

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https://www.letteradonna.it/it/articoli/conversazioni/2019/12/09/uomini-femministi/29451/?fbclid=IwAR2q-i193WgXRBeNWBfJjOymiV_qsH2e8j1LZInmtmNZ5zXpCuj9zonXPBY

lunedì 9 dicembre 2019

Denunciò uno stupro di gruppo e il paese la esiliò

È successo a Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria). La vittima all'epoca aveva 13 anni ed è stata abusata dal branco per due anni. Lei e il padre hanno dovuto ricostruirsi una vita altrove. La storia.
 
All'epoca pesava 40 chili, era alta un metro e 55 e aveva 13 anni. Era ancora una bambina. Una bambina che per due anni è stata violentata ripetutamente dal branco. Quando ha denunciato e la storia è diventata pubblica, il suo paese, Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria), le ha voltato le spalle. Tanto che lei e il padre si sono dovuti trasferire lontano da casa. Lo racconta La Stampa che spiega come l'adolescente venisse prelevata ogni giorno all'uscita da scuola, caricata in auto, portata al cimitero o in una casa in montagna e abusata. «Io e la mia ex moglie ce ne siamo accorti leggendo la brutta copia di un tema che nostra figlia aveva lasciato a casa», ha detto il padre al quotidiano.

AGUZZINI CONDANNATI IN PRIMO GRADO
Gli aguzzini ricattavano e minacciavano la vittima: «Attenta che facciamo del male a mamma e papà». Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto, Giovanni Iamonte, «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della'ndrangheta», Michele Nucera, Lorenzo Tripodi e Antonio Virduci, figlio di un maresciallo dell'esercito, sono i cinque dei sette responsabili (oggi tutti liberi o ai domiciliari) che sono stati condannati in primo grado con pene da sei a nove anni di carcere. Nonostante la condanna per gli abitanti di Melito Porto Salvo era tutta colpa della bambina. «Sono andato dal padre di uno di loro, il più giovane, quello che all'epoca aveva 17 anni. Mi ha detto che mia figlia si stava facendo una brutta nomina in paese. Altri sono venuti a dirmi che non dovevo denunciare. Era come se si fosse meritata quella violenza», ha continuato il papà nell'intervista a La Stampa.

UNA NUOVA VITA GRAZIE ALL'ASSOCIAZIONE LIBERA DI DON CIOTTI
Per questo motivo l'uomo e la ragazzina sono stati costretti ad abbandonare il paese. Prima sono andati in una grande città del Nord, in una casa messa a disposizione dall'associazione Libera di don Ciotti, poi si sono trasferiti altrove. «Ci hanno aiutato, adesso ho un nuovo lavoro. Siamo indipendenti. Ma a Melito ho dovuto lasciare quello che avevo di più caro. Noi siamo qua, mentre quei ragazzi sono stati scarcerati in attesa del processo d'appello (previsto a febbraio 2020, ndr)». Intanto la ragazzina è cresciuta, si è diplomata con il massimo dei voti in una scuola professionale per diventare truccatrice a teatro e al cinema e ha trovato nuovi amici.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2019/12/06/melito-di-porto-salvo-stupro/29467/?fbclid=IwAR2V6DKrbMISLPKnK2-As06lbBx1kx4zaW5KXSiEofAs4vPy4b3f38waGzA

venerdì 6 dicembre 2019

La stanza dello scirocco. Centroantiviolenza distrettuale, Cadmi se ne va

Con una serata sul tema “La violenza di  genere a partire dal nostro territorio”, si è concluso il percorso organizzato per il 25 novembre di quest'anno.
Dopo un veloce racconto dei recenti episodi di violenza sulle donne avvenuti a Corsico, viene ricordato che dopo secoli di invisibilità la violenza sulle donne è diventata visibile grazie al “ruolo importante svolto dal movimento delle donne e delle organizzazioni non governative di tutto il momdo” (Dichiarazione ONU ). La violenza sulle donne è oggi riconosciuta come violazione dei diritti mumani, non più emergenza, ma problema strutturale sociale e culturale. Da eliminare con azioni di informazione, sensibilizzazione, contrasto.
E' stato riconosciuto il valore dei Centri Antiviolenza come luoghi speciali nei quali “donne stanno accanto ad altre donne in un rapporto di relazione” per uscire dalla violenza. Le operatrici Cadmi che hanno gestito il Centro antiviolenza distrettuale “La Stanza dello Scirocco” hanno fatto  un'analisi della violenza emersa sul territorio.
Nei quattro anni di attivazione al Centro si sono rivolte 248 donne, 56 da gennaio a novembre di quest'anno. Numeri importanti...
L'attenzione si sposta poi sulla conclusione della gestione da parte di Cadmi del Centro “La Stanza dello Scirocco” dovuta alla scelta di Regione Lombardia, unica regione, di chiedere alle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza il codice fiscale. La richiesta del codice fiscale mette a rischio l'anonimato, e di conseguenza l'incolumità, delle donne pietra miliare di alcuni storici centri antiviolenza fra cui Cadmi che, ricordiamo, è stato il primo luogo di accoglienza delle donne maltrattate in Italia ed ha una lunga storia  di esperienza e di saperi. I Centri antiviolenza che non accettano di richiedere i codici fiscali alle donne vengono esclusi dalla partecipazione ai bandi per l'attribuzione dei fondi per la gestione dei centri. Cadmi è fuori, come molti altri soggetti che non accettano il dictat della Regione.
Molte le riflessioni politiche, culturali e sociali sulle reali motivazioni e sugli effetti di questa irremovibile scelta di Regione Lombardia. Resta l'amarezza di veder conclusa un'esperienza di azioni e di relazioni positive che si erano attivate sul territorio.
La serata si conclude ringraziando Cristina Carelli, Malvina Monti, Margherita Toresani e Ausonia Minniti e con la promessa di restare in relazione.

lunedì 2 dicembre 2019

Anarkikka: “La violenza sulle donne non è follia, ma un sistema di potere nelle relazioni”

ROMA – Si scrive Anarkikka, si legge “rinata determinata“. È così, con due aggettivi, che ama definirsi Stefania Spanò, napoletana di 54 anni all’anagrafe, rinata a 42 in una casa di campagna della provincia di Latina “dopo una vita segnata da storie pesanti dalla quale sono uscita in maniera catartica cominciando a raccontare” grazie alla passione per il disegno digitale con il mouse, che l’ha fatta diventare nel giro di meno di dieci anni una delle vignettiste più amate dalle femministe italiane.

Poche linee tratteggiano il caschetto nero quasi perfetto del suo personaggio, Anarkikka, fenomeno social da oltre 30mila follower, nato nel 2012 col soprannome di sua figlia, poi diventato il suo alter ego con blog su l’Espresso. Quasi, se non fosse per quella ciocca a forma di virgola che accompagna le emozioni di questa settenne, tutte racchiuse nei suoi occhi a volte tristi a volte stupiti, spesso indignati. Si indigna, Anarkikka, e prende posizione contro un sacco di cose. Soprattutto, contro la violenza maschile sulle donne e quella assistita dai bambini come lei, alla cui infanzia negata dà voce nelle sue tavole, nate sul web e diventate nel tempo mostre itineranti (Violenza assistita, Unchildren, E’ nata donna, Non chiamatelo raptus).

LA VIOLENZA SULLE DONNE “NON E’ FOLLIA, MA UN SISTEMA DI POTERE NELLE RELAZIONI” – “Quello che tento di raccontare è che la violenza maschile sulle donne non è una follia- spiega Stefania, intervistata dalla Dire in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne- Quella fisica o il femminicidio, le più visibili, sono il prodotto della cultura nella quale viviamo e cresciamo come donne e uomini. Il problema è il sistema di potere che esiste da sempre nella relazione uomo-donna, che va scardinato”. Il suo metodo per scardinarlo, Anarkikka, lo ha trovato. È il commento, pungente e diretto, l’opinione non richiesta, condivisa spesso con le sue anarchiche compagne di vignetta. Fatti di cronaca, agenda politica, poco importa: Anarkikka ha un’idea su tutto. E sopporta pochissimo la narrazione che della violenza di genere fa la stampa italiana.

“‘Uccisa, fermato il marito visibilmente distrutto’, ‘Ha pur sempre perso la moglie'”, dice con un’amica mentre sfoglia il giornale. Arrabiatissima, urla: “‘Le ha uccise perché le amava troppo’, ma vi sentite?”. Sarcastica, commenta: “‘In Italia hai solo sei mesi per denunciare uno stupro’. ‘I tempi veloci della giustizia’”. Poi sentenzia lapidaria: “Ddl Pillon: più che un disegno uno scarabocchio”. E si domanda: “Avete mai visto un uomo colto da raptus aggredirne un altro grande e grosso?”. Diritti negati, migranti morti in mare, odiatori di professione. Anarkikka è un fiume in piena e non fa sconti a nessuno. Ma il suo pallino sono e restano le donne.

“SÌ, SONO FEMMINISTA, PERCHÈ CE N’È BISOGNO” – “Ho scelto di raccontare l’universo femminile perché era il tema in cui mi sentivo più coinvolta, in quanto donna e sopravvissuta- sottolinea Stefania- Non faccio parte della generazione del femminismo storico, ma di quella che pensava di aver conquistato dei diritti. Poi mi sono resa conto vivendo, che questi diritti si rischiava di perderli e mi sono data molto da fare da quando ho avvertito che c’era stato un salto anche culturale da questo punto di vista”. Una cesura che l’ha fatta nascere all’attivismo da adulta, anche se Stefania fa fatica ancora oggi a definirsi femminista. “Ho talmente tanto rispetto di quella storia che non me la sento di appropriarmene”, dice. Ma poi precisa: “C’è un nuovo femminismo oggi necessario. E quindi sì, sono femminista, perché ce n’è bisogno”. E c’è bisogno, soprattutto, “di non dividersi- osserva la vignettista- Alcune femministe adulte non si aprono alle più giovani. Io cerco di parlare a loro, a tutte. A chi è femminista e non sa di esserlo o ha una vita molto distante dalla mia. Bisogna parlare a tutte le donne e dalle giovani dobbiamo imparare”.

DAL FENOMENO SOCIAL ALLE MOSTRE IN TUTTA ITALIA – Sul come, pochi dubbi. “Anarkikka nasce su Facebook quando sono andata a vivere in campagna sperduta tra gli ulivi e l’unico modo che avevo per relazionarmi col mondo era la rete- racconta- I social sono uno strumento potentissimo. Io ero timidissima e mi hanno aiutato tanto ad entrare in contatto con persone con cui pensavo di non essere all’altezza”.

Nel frattempo, Anarkikka, appesa con ‘Violenza assistita’ sui muri del centro antiviolenza ‘Donna Lilith’ di Latina, dove è di casa, porta la sua giovane irriverenza in giro per la penisola. “In questo momento ci sono mostre a Rimini, a Quarto Oggiaro, a Ogliastra in Sardegna, a Padova, in provincia di Bolzano, a Castelfiorentino”, racconta ancora Stefania, che per il 25 novembre lancia un triplo appello: “Al mio pubblico dico che bisogna crederci, anche se siamo un po’ scoraggiati dalla situazione politica. Dobbiamo sostenerci e non dividerci, capire cosa va scardinato. Alla politica- continua- chiedo un punto fermo sull’alienazione genitoriale. Va rivista la legge 54 sulla bigenitorialità perfetta che perfetta non è, e nei casi di violenza non può esserlo. Stanno avvenendo aberrazioni: bambini tolti a mamme che hanno già subito violenza e che poi sono costrette a subire un ricatto istituzionale, attraverso un costrutto ascientifico. È un crimine di Stato”.

E alle donne che vogliono uscire dalla violenza dice: “Quello che vi succede non succede solo a voi, non è colpa vostra. Ho qualche problema a dirvi di denunciare, perché non basta. Non affrontate tutto da sole, soprattutto quando ci sono i figli. La chiave è raccontarsi ad altre donne e, prima di denunciare, cercare una rete di sostegno”.
https://www.dire.it/25-11-2019/394716-anarkikka-la-violenza-sulle-donne-e-un-sistema-di-potere-nelle-relazioni/?fbclid=IwAR1K4iR2j7oi1DoIgWdnFEIdprwO3dL4WVjaTp5EkN56dAQ2RtoHEqUqpyk

domenica 1 dicembre 2019

Maschilismo dei giorni nostri: due ragazzine su tre subiscono scenate di gelosia dai loro fidanzatini Indagine Skuola.net-Osservatorio Nazionale Adolescenza. 1 su 3, dopo essere stata picchiata, dice di aver perdonato il partner, fidandosi delle sue parole

Quasi due ragazze su 10 ritengono che il proprio fidanzato sia eccessivamente possessivo e al 66% è capitato di subire una scenata di gelosia, spesso per futili motivi. Pochissimi, per fortuna, i casi di violenza. Ma, quando succede, anche le giovani donne tendono a perdonare. Sono questi i principali risultati di un’approfondita indagine di Skuola.net e Osservatorio Nazionale Adolescenza - in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri - nell’ambito del progetto “Don’t slap me now”.
Sono state oltre 7.500 le ragazze tra i 14 e i 20 anni intervistate per delineare i contorni del fenomeno tra le giovani donne. Sono proprio loro, infatti, ad essere spesso ‘vittime’ del partner. Circa 2 su 3, ad esempio, hanno subìto scenate di gelosia (quasi sempre senza motivo). E 1 su 10 ha confessato di aver paura delle reazioni del fidanzato. Ma questi sono soltanto alcuni dei dati che verranno presentati il 25 novembre a Binario F, il Centro per le competenze digitali allestito da Facebook a Roma.


Il morbo della gelosia e della volontà di possesso è molto più articolato e diffuso di quanto ci si possa aspettare, anche tra chi si approccia solo ora al sentimento per eccellenza: l’amore. Quasi 2 ragazze su 10, tra quelle raggiunte dalla ricerca, ritengono che il proprio fidanzato sia eccessivamente geloso. Una condizione che, lasciata ‘lavorare’ sottotraccia, in poco tempo potrebbe sfociare in una vera e propria ossessione. E così puntualmente avviene: al 66% delle ragazze è capitato almeno una volta di aver subito una scenata di gelosia (ciò vuol dire che molte non valutano esagerate queste manifestazioni); al 14% di essere stata addirittura offesa pesantemente; in molti casi (38%) anche di fronte agli altri. Con un’aggravante: il 50% dichiara che lo sfogo è avvenuto per motivi giudicati banali o futili. Già questo sarebbe sufficiente per alzare il livello di guardia. Ma il dato più preoccupante è che, dalle parole ai fatti, il passo è breve.
Per fortuna i casi di violenza fisica (almeno quelli riportati) messi in atto dai giovani partner sono molto limitati: si tratta comunque di 4 ragazze su cento, numeri che in questa fascia di età sono estremamente gravi. Ma sono molte di più le ragazze che vivono nella paura che possa capitare anche a loro: più di 1 ragazza su 10 dice di temere che il fidanzato, quando si arrabbia, prima o poi vada oltre. Paura che va ad intaccare il benessere psico-fisico diventando, di fatto, già una forma di violenza. E qui la copertura del campione è quasi totale: il 79% ha dichiarato di essersi, almeno una volta, limitata proprio per timore delle reazioni che avrebbe potuto avere il partner.
Nonostante ciò, così come avviene tra gli adulti, pure le adolescenti tendono a soprassedere quando il partner diventa violento. La chiave per far breccia nel loro cuore è sempre la stessa: il pentimento.


Il 63%, infatti, racconta che il fidanzato, dopo averle picchiate, ha chiesto scusa, ammettendo di aver esagerato e promettendo di non farlo mai più. Di fronte a questo atteggiamento solitamente le vittime finiscono per credere al proprio fidanzato, concedendogli un’altra possibilità: 1 ragazza su 3, infatti, dopo aver subito violenza, dice di aver perdonato il partner, fidandosi delle sue parole. Inoltre, il 75% non ne ha parlato con nessuno. Forse perchè, a livello familiare e sociale, c’è un vuoto comunicativo. Molto potrebbero fare le scuole, peccato che 3 giovani su 4 non abbiano mai affrontato questi argomenti in classe. Ma, trattandosi di nativi digitali, non si può non affrontare l’argomento ‘nuove tecnologie’. Visto che, la brama di controllo di tanti fidanzati, spesso allunga i suoi tentacoli anche nella dimensione digitale di chi gli sta a fianco. Una ‘violenza digitale’ che si manifesta attraverso un’ossessione verso smartphone, social network e chat del partner.


Al 68% delle giovani intervistate, ad esempio, è capitato almeno una volta che il ragazzo pretendesse di leggere le sue conversazioni su WhatsApp; al 37% di dare l’accesso ai propri profili social; mentre il 13% è stata costretta a cancellare alcuni amici dai social network. Tutte forme di cyber-violenza che, sommate alla gelosia e alla possessività, hanno un impatto ulteriormente negativo su benessere, autostima ed emotività delle giovani vittime.
Fenomeni, questi ultimi, che sono relativamente recenti e soggetti ad una continua evoluzione, dettata dai repentini cambiamenti delle piattaforme tecnologiche. Esiste, perciò, un solo antidoto per prevenire le molteplici estreme conseguenze della violenza di genere: la formazione di ragazzi e ragazze, nei luoghi da loro frequentati e con linguaggi che possano comprendere. “Don’t slap me now” ha fatto esattamente questo, toccando diverse scuole d’Italia, con gli esperti dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che si sono confrontati su questi temi direttamente con i ragazzi e arrivando a milioni di giovani grazie ai contenuti digitali informativo-educativi pubblicati sul portale Skuola.net, arricchiti da un video virale realizzato in collaborazione con Valeria Angione, influencer icona per gli studenti.
https://www.globalist.it/news/2019/11/24/maschilismo-dei-giorni-nostri-due-ragazzine-su-tre-subiscono-scenate-di-gelosia-dai-loro-fidanzatini-2049467.html?fbclid=IwAR2MGy2M5BDZoJDQVqJoC9eH2nnMQx3bjrqb69fY1RIM8-vYgO1-Vz_04dQ

4.12.2019 ore 21 La violenza di genere a partire dal nostro territorio

Mercoledì 4.12.2019 alle 21 presso il Bem Viver Cafè vi aspettiamo

mercoledì 27 novembre 2019

I risultati choc del report Istat sui ruoli di genere

Secondo un italiano su quattro, sono le donne a provocare le violenze sessuali, con il loro modo di vestire. E il 6,2% ritiene che quelle più 'serie' non vengano stuprate.
     Il cammino verso l’eliminazione degli abusi sulle donne sarà ancora piuttosto lungo e accidentato, stando alle informazioni raccolte dall’Istat e diffuse in occasione della Giornata mondiale contro la violenza di genere. Secondo questa indagine pubblicata il 25 novembre 2019, infatti, il 39,3% della popolazione ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole, mentre il 23,9% degli italiani pensa che le donne possano provocare una violenza sessuale con il loro modo di vestire. Non solo: il 15,1% crede che chi subisce uno stupro quando è ubriaca o sotto l'effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Pensieri e percentuali choc, soprattutto se consideriamo che del campione degli intervistati non facevano parte solo uomini, ma anche donne.

COLPEVOLIZZARE LA VITTIMA
Dunque, per una buona fetta di italiani (e italiane) sarebbero proprio errati comportamenti della donna e delle ragazze a ‘istigare’ l’uomo alla violenza sessuale. Onestamente, quella evidenziata dal report dell'Istat sui ruoli di genere è una forma di colpevolizzazione della vittima che alle soglie del 2020 ci pare assurda, ingiustificabile e insopportabile. Il brutto, è che non finisce con quanto sopra evidenziato: per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); mentre per il 7,2% di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì. Il 6,2% ritiene che le donne serie non siano violentate e quasi il 2% ritiene che non si possa parlare di violenza quando un uomo obbliga la propria compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

GLI SCHIAFFI? SONO NORMALI
Per quanto riguarda maltrattamenti e forme di controllo, il 7,4% degli intervistati crede che sia accettabile che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro uomo, mentre il 6,2% pensa che in una coppia possa ogni tanto scappare un ceffone. Per il 17,7% del campione è invece accettabile che un uomo controlli abitualmente il cellulare e/o l'attività sui social network della propria compagna.

ALLA BASE DELLA VIOLENZA
Alla domanda sul perché alcuni uomini sono violenti con le proprie compagne, il 77,7% degli intervistati ha risposto «perché le donne sono considerate oggetti di proprietà»: nello specifico, l’84,9% donne e il 70,4% degli uomini), mentre tre italiani su quattro danno la colpa (in ugual misura) a sostanze stupefacenti/alcol e bisogno di sentirsi superiori. In tanti hanno citato poi la difficoltà nel gestire la rabbia (70% uomini e 62% donne), mentre due intervistati su tre tirano in causa violenze sperimentate in famiglia durante l'infanzia e il fatto di non sopportare l’emancipazione femminile. Il 33,8%, poi, associa la violenza di genere alla religione.

RESISTONO I VECCHI STEREOTIPI
L’indagine ha evidenziato anche differenze regionali: Sardegna (15,2%) e Valle d'Aosta (17,4%) presentano i livelli più bassi di tolleranza verso la violenza, mentre in Abruzzo (38,1%) e Campania (35%) sono stati registrati quelli più alti. In Italia, spiega il rapporto, i vecchi stereotipi di genere sono duri a morire: il 32% degli intervistati pensa che «per l'uomo, più che per la donna, sia molto importante avere successo nel lavoro», il 31,5% che gli uomini siano «meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche» e il 27,9% che tocchi ancora all’uomo provvedere alle necessità economiche della famiglia. Questi stereotipi, spiega il rapporto, sono più diffusi al Sud che al Nord.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2019/11/25/istat-report-ruoli-genere/29408/?fbclid=IwAR0cBV8lh2ULEDtNYP7wVHbQJ89qLQSmlSmdmkjLIqZ2Ou6sXH793Ywzeps

lunedì 25 novembre 2019

UOMINI CHE HANNO UCCISO LE DONNE NEL 2019 Elenco e dati redatti da InQuantoDonna

1. Paolo Casolari, 80 anni, muratore in pensione, marito
2. Sergio Cini, 85 anni, pensionato, marito
3. Vincenzo Caradonna, 47 anni, disoccupato, convivente
4.Ezzedine Arjoun, 35 anni, disoccupato, ex marito
5. Andrea Landolfi Cudia, 30 anni, pugile, fidanzato, padre
6. Khalil Laamane, 49 anni, operaio, ex marito, padre
7. Casimiro De Lelli, 90 anni, postino in pensione, marito, padre
8. Gianfranco Duini, 43 anni, marito
9. Salvatore Tamburrino, 41 anni, marito, padre
10. Cristian Ioppolo, 26 anni, fidanzato
11. Vincenzo Lo Presto, 41, marito, padre
12. Carlo Piero Artusi, 48 anni, convivente
13. Ettore Sini, 49 anni, agente di polizia penitenziaria, ex marito, padre
14. Filippo Marraro, 51 anni, imprenditore, ex marito, padre
15. Leopoldo Scalici, 41 anni, disoccupato, cliente
16. Benito Lai, 87 anni, pensionato, marito, padre
17. Giancarlo Bedocchi, 84 anni, pensionato, marito, padre
18. Alberto Porazzo, 89 anni, pensionato, marito
19. Giovanni De Cicco, 40 anni, marito, in attesa
20. Naili Moncef, 54 anni, cuoco, marito, padre
21. Renato Berta, 85 anni, impiegato comunale in pensione, marito
22. Simone Cosentino, 42 anni, poliziotto, marito, padre
23. Luca Adamo, 55 anni, appuntato scelto della guardia di finanza,  marito, padre
24. Stefan Iulian Catoi, 27 anni, pretendente respinto
25. Antonio Brigida, 69 anni, autotrasportatore, marito
26. Abdelkrim Foukhai, 41 anni, disoccupato, marito, padre
27. Felice Romeo, 84 anni, marito, padre
28. Enrico Lanati, 47 anni, imprenditore, amante, padre
29. Luigi Segnini, 38 anni, autotrasportatore, ex convivente
30. Fabio Trabacchin, 35 anni, autotrasportatore, marito, padre
31. Domenico Raco, 39 anni, pretendente respinto
32. Marco Ricci, 41 anni, ex marito, padre
33. Domenico Gentile, 76 anni, avvocato in pensione, marito, padre
34. Francesco D’Angelo, 37 anni, fidanzato
35. Domenico Massari, 54 anni, ex marito
36. Vasco Bimbatti, 93 anni, marito, padre
37. Domenico Leonelli, 88 anni, marito, padre
38. Franco Valgimigli, 87 anni, marito, padre
39. Hicham Boukssid, 34 anni, pretendente respinto
40. Andrei Cegolea, 47 anni, operaio, marito, padre
41. Roberto Del Gaudio, 65 anni, marito
42. Saverio Cervellati, 52 anni, imprenditore, convivente, padre
43. Massimo Sebastiani, 48 anni, operaio, pretendente respinto
44. Aurelio Galluccio, 65 anni, marito
45. Attilio Di Rocco, 65 anni, pensionato, marito
46. M’hamed Chamek, 42 anni, ex
47. Marco Manfrini, 50 anni, marito
48. Carmelo Fiore, 46 anni, operaio, fidanzato, padre
49. Antonio Gozzini, 79 anni, insegnante in pensione, marito
50. Maurizio Quattrocchi, 47 anni, muratore, marito, padre
51. Cristian Daravoinea, 36 anni, autotrasportatore, marito, padre
52. Ciro Curcelli, 53 anni, assistente capo polizia penitenziaria, marito, padre
53. Roberto Lo Coco, 28 anni, disoccupato, marito, padre
54. Cristoforo Aghilar, 36 anni, ex genero
55. Carlo Carletti, 66 anni, pensionato, marito, padre
56. Domenico Horvat, 30 anni, disoccupato, marito
57. Antonino Borgia, 51 anni, impiegato, amante, padre

– sono 11 gli uomini con più di 80 anni che hanno ucciso le mogli con cui hanno condiviso una vita; 3 hanno meno di 30 anni

– il più anziano ha 93 anni; il più giovane 26

-36 sono mariti o conviventi; 4 sono fidanzati; 9 sono ex; 2 sono amanti; 4 sono pretendenti; 1 cliente

– 29 di loro sono padri; due di loro uccidono le figlie; 2 di loro commettono il delitto alla presenza dei figli; 2 di loro chiamano i figli dicendo di aver ucciso la loro madre; 2 uccidono le compagne incinte

– 15 di loro avevano precedenti

– 11 si suicidano
http://www.inquantodonna.it/femminicidi/uomini-che-hanno-ucciso-le-donne-nel-2019/?fbclid=IwAR0BPtRa3uUiAlYqSBfZdIMJfiRtwTOkJ9ZKTsdJRTWrD5Ieublrs-YUVlU

venerdì 22 novembre 2019

Emergenza femminicidio in Italia di: CRISTINA PEROZZI

In Italia è fra le più gravi, ancorché sottovalutate, emergenze sociali. Se è vero che il numero delle condanne è lievemente aumentato,  la violenza sulle donne è un fenomeno sempre più preoccupante e diffuso. Ed il numero dei femminicidi nel corrente anno 2019 torna a salire.

I dati del Rapporto Eures 2019 su “Femminicidio e violenza di genere”, pubblicato ieri sono allarmanti.
Nel 2018 sono state 142 le donne uccise in Italia, +0,7% rispetto all’anno precedente, il valore più alto mai censito in Italia, attestandosi sul 40,3% e 119 ammazzate in famiglia, con un incremento del 6,3% in un anno.
Nei primi dieci mesi del 2019 la situazione non cambia, anzi,  le vittime femminili di omicidi sono state già 94, di cui 80 all’interno di un ambito relazionale/familiare.
Il quadro nazionale quindi sta peggiorando.
In aumento  gli uxoricidi.
Anche nel 2018 la percentuale più alta dei femminicidi familiari è commessa all’interno della coppia, con 78 vittime pari al 65,6% del totale: nel 75,6% per mano del marito o del convivente, nel 24,4% uccise dall’ex partner. Nel 2019 il trend si conferma.
Le figlie uccise sono aumentate da 12 a 13.
Continua ad aumentare anche il numero delle donne anziane vittime di femminicidio: 48 le over 64, pari al 33,8% delle vittime totali, di cui 41 in ambito familiare.
Con il passare del tempo la donna anziana vede paradossalmente acuire la propria vulnerabilità, invece che aumentare il livello di protezione e tutela come dovrebbe essere in una società civile.
La più alta incidenza di donne uccise si conferma al Nord, con il 45% del totale; il 35.2% al Sud e il 18.3% al Centro. E la Lombardia è la regione col maggior numero in termini assoluti, 20, seguita dalla Campania, 19, dal Piemonte, 13, e dal Lazio, 12.
Quasi tutti gli assassini dichiarano di aver ucciso per “gelosia”, ed il movente, che spesso viene dai media impropriamente definito “passionale”,  si rinviene nel 33% dei femminicidi. Nel 2018 le armi da fuoco rappresentano il principale mezzo con cui gli aggressori cagionano la morte delle proprie compagne, con un aumento di tale uso anche in ambito familiare pari al 116%.
In definitiva, dal 2000 ad oggi le donne uccise in Italia sono 3.230, di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio coniuge/partner o ex partner : una mattanza.
Le donne vengono uccise nell’ambito familiare.
I dati Istat che abbiamo appena letto sono relativi a tutti gli omicidi che hanno come vittime le donne, ma quando si parla di “femminicidio”  si fa riferimento ad un omicidio che avviene nell’ambito familiare e affettivo della donna.
Il Ministero dell’Interno fornisce dati aggregati nel suo “Dossier Viminale”, con un criterio che analizza ogni anno l’arco temporale compreso tra il 1° agosto e il 31 luglio, e scorrendo l’ultima edizione che del periodo 2018/2019,  si legge che  in ambito familiare si sono registrate 92 vittime, ossia il 63,4 per cento dei 145 omicidi in ambito familiare totali. Ma per gli anni precedenti il Viminale non ha ancora raccolto tutti i dati, e non è dunque possibile ricostruire l’andamento nel tempo.
Un confronto internazionale.
Per operare un confronto internazionale si utilizzano i dati raccolti dal UNDOC, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine.
In questo report, i numeri relativi agli omicidi che in Italia vedono vittime le donne arrivano solo fino al 2016 e sono diversi da quelli Istat, a causa del diverso metodo di analisi utilizzato.
Ne consegue che per una comparazione precisa che non venga viziata dalla maggiore o minore popolosità dello Stato preso in considerazione, si valuta il tasso di omicidi rapportato alla popolazione e non il numero di omicidi in valore assoluto.
Nel  2016 dunque, l’Italia ha registrato un tasso di omicidi con vittime pari a 0,5 ogni 100 mila persone e tra i grandi Paesi europei è fra i contesti migliori, insieme alla Spagna. Nello stesso anno nel Regno Unito il tasso è stato pari a 0,9/100 mila, in Francia a 1/100 mila e in Germania a 1,1/100 mila.

Ma quali riflessioni inducono i dati sopra riprodotti?
La caratteristica principale dei femminicidi è la maturazione in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali, che pone in evidenza la posizione o il ruolo dell’autore: marito, compagno, ex o familiare.  Un primo commento pertanto va fatto sul contesto ambientale del femminicidio, sintomatico di una grave crisi, anche internazionale a quanto ci dicono le ricerche, dell’istituzione “famiglia”.
Nel documento vengono rilevati anche i dati relativi alle armi utilizzate: nella maggior parte dei casi si rispecchia la natura cd. “primitiva” del gesto. Una percentuale sintomatica è riservata alle armi da taglio, comunemente presenti nell’ambito domestico, mentre a seguire ci sono lo strangolamento e l’uso di oggetti contundenti, dimostrando come le aggressioni e le colluttazioni rappresentano la modalità più utilizzata per ostentare la forza fisica dell’uomo nei confronti della donna.
Anche a questi dati fenomenologici si ricollega la figura alquanto compromessa del pater familias, che non si sente più dotato di una propria auctoritas intrinseca e perde il controllo logico della situazione, ricorrendo alla forza fisica per prevaricare la compagna ed ottenere ad ogni costo le proprie ragioni.
Va poi rilevato che il femminicidio è un fenomeno trasversale dal punto di vista sociale: non esiste un modello familiare dove è più prevedibile o ricorre maggiormente, perché sono colpiti tutti i ceti ed i livelli culturali.
Solo un dato emerge come ricorrente: l’isolamento della vittima iniziato molto prima dell’evento finale, a riprova che la conseguenza letale è connessa ad una condizione di solitudine istituzionale che da tempo chi opera nel settore lamenta.
La maggior parte dei femminicidi si radica in zone di provincia o nei paesi, inducendo a riflettere sulle condizioni di abbandono sociale che spesso le donne subiscono in contesti ambientali più concentrati sul proprio habitat domestico, in apparenza più tranquillo, ma evidentemente meno solidale e più indifferente alle vulnerabilità altrui.
Ed in molti femminicidi le donne avevano già denunciato e spesso più di una volta.
Dunque le vittime vengono lasciate da sole ad affrontare un problema che evidentemente non riescono a risolvere, e nonostante chiedano aiuto, lo Stato dà prova quotidiana di non approntare i mezzi e mettere in atto le giuste misure per arginare questa emergenza.
Gli strumenti  normativi non sono efficaci  e si rivelano insufficienti, perché lasciano troppa discrezionalità, non garantiscono adeguata formazione agli operatori e non assicurano i necessari strumenti per soccorrere in tempo chi denuncia una situazione di violenza.
Basti guardare alla giurisprudenza disomogenea ed alle prassi operative imprecise dei singoli tribunali, spesso non regolate da appositi protocolli, che si rivelano tutte diverse nei contenuti dei provvedimenti giudiziari e nelle modalità di approccio e gestione del fenomeno.
E ancora: la poca efficienza dei centri antiviolenza, che spesso sono costretti a chiudere o sopravvivono privi di fondi e grazie all’esclusivo contributo di personale volontario.
Esiste un sistema centralizzato cd. SDI che raccoglie informazioni  sulle denunce dei cittadini agli uffici competenti (Commissariati di Polizia, Stazioni dei Carabinieri ecc.) e sui reati che le Forze di Polizia accertano autonomamente. I dati riguardano anche le segnalazioni di persone denunciate e/o arrestate che le Forze di Polizia trasmettono all’Autorità giudiziaria .
Ma il dato allarmante proviene dalla lettura delle denunce: una vittima italiana su tre dichiara che il personale sanitario a cui si è rivolta ha fatto finta di niente di fronte alla violenza subita. Indigna soprattutto che solo in un caso su 3 alle italiane è stato consigliato di sporgere denuncia, cosa che invece è stata consigliata solo al 63% delle straniere.
E se oggi il femminicidio rappresenta una costante della società contemporanea, il focus sulla situazione italiana rivela che attraverso i numeri è possibile solo effettuare formalistici confronti temporali. Si rischia così di cadere in un approccio emotivo, mentre una conoscenza approfondita sarebbe determinante per poter analizzare fattivamente il femminicidio.
Dal punto di vista legislativo, seguendo le direttive della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979), il Consiglio d’Europa ha intrapreso una serie di iniziative per promuovere la protezione delle donne vittime di violenza: l’apice, a livello legislativo, è arrivato nel 2011 con l’approvazione della Convenzione di Istanbul.
Questo atto rappresenta lo strumento internazionale, giuridicamente vincolante per gli stati, in cui per la prima volta si riconosce la violenza sulle donne come una forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione, includendo una serie di definizioni e obblighi che hanno tuttavia condotto all’adozione, in ogni paese europeo, a differenti disposizioni e norme.
In Italia, l’applicazione delle direttive dell’Unione europea si è materializzata con il decreto legge 93 del 2013, convertito poi nella legge 119/2013, in cui si prendono in considerazione maltrattamenti, violenze sessuali, atti persecutori, modifiche al codice penale, misure di prevenzione relative alla violenza domestica e azioni a favore dei centri antiviolenza e delle case rifugio. Tra questi si inserisce anche il protocollo EVA, Esame Violenze Agite, della Polizia di Stato: è una modalità operativa per il primo intervento in cui, attraverso una banca dati sempre aggiornata, si cerca di anticipare e limitare le esplosioni di violenza.
Nonostante i citati interventi legislativi, il fenomeno dei femminicidi rappresenta, come visto dalle statistiche sopra riportate, una tendenza che non accenna a diminuire, a differenza degli omicidi volontari in cui le vittime sono uomini.

Cosa manca allora?
Qualche giorno fa sulle pagine del Corriere della Sera è stata pubblicata la prima intervista della neoministra dell’interno  Luciana Lamorgese, che ha parlato della crisi siriana e dei migranti in aumento in concomitanza ai conflitti, ha menzionato la bozza di Malta sulla gestione europea dei flussi migratori e ha toccato temi connessi.
Quando la giornalista Fiorenza Sarzaninii le ha chiesto: “Al di là dell’immigrazione, quali problemi mette in cima alla lista delle priorità?”.
La Ministra ha elencato il terrorismo, la criminalità organizzata e quella comune, ma nulla ha detto sul contrasto ai femminicidi e sulla lotta alle violenze sulle donne.
In specie, nulla sulla disponibilità di fondi per arginare un’emergenza a quanto pare oltremodo sottovalutata, a tal punto che  il Presidente degli Avvocati Matrimonialisti, Gian Ettore Gassani, ha dichiarato in una sua nota che «Oggi la famiglia e la coppia, nella loro veste patologica, uccidono più della mafia. Da avvocato che ha visto tante tragedie, dico che questa è un’emergenza nazionale, trasversale da nord a sud».
È  proprio una vera e propria emergenza che richiede di essere proclamata e inserita tra le priorità politiche.
Una mattanza nei numeri e una tragedia sociale anche per i risvolti psicologici ed umani: si pensi a tutti i minori orfani di madre che restano soli, con un padre assassino in carcere. Un’emergenza che pretende attenzione ed educazione: a partire dallo sdoganamento della violenza nel linguaggio e dei rapporti con le donne.
Esige una formazione continua di medici, di forze di polizia, di organi giudiziari e forensi, ma anche la diffusione di una cultura civile diversa, non aggressiva e più solidale, a partire dalle scuole, per arrivare ai datori di lavoro, alle associazioni  ed alla cittadinanza intera.
Un’emergenza che necessita di azioni di contrasto, risposte concrete a partire da una comunicazione basta sul rispetto del genere fino all’adozione di efficaci misure di protezione e di assistenza,  allo stanziamento di fondi agli sportelli per le donne e alle comunità protette, alla previsione di luoghi appositi negli uffici pubblici dove si accolgono le vittime, con personale adeguato e con efficaci strumenti di intervento.
Solo impegnandosi in questo cambiamento sociale si potrà sperare di porre fine a questa strage annunciata.
https://www.articolo21.org/2019/11/emergenza-femminicidio-in-italia/?fbclid=IwAR1X2U5A1syGkXDSWRCe3axQybevJcXTeUXWR2CD_RMMM19IFjbfF_zm8FU&cn-reloaded=1

mercoledì 20 novembre 2019

PER IMPEDIRE LA VIOLENZA SULLE DONNE DOBBIAMO INTERVENIRE SUGLI UOMINI DI ILARIA DE BONIS

In Amore mio aiutami, commedia “romantica” del ’69 diretta da Alberto Sordi, Raffaella, interpretata da Monica Vitti, viene presa ripetutamente a schiaffi dal marito geloso sulle dune di Sabaudia. “Dillo ancora che lo ami!”, “Sì che lo amo” e giù botte sonore. E sangue.

Ci abbiamo messo tanto tempo, troppo, ad arrivare alla denuncia collettiva della violenza contro le donne, ma ci siamo finalmente arrivati. La narrazione mediatica del reato invece, è rimasta ferma. La cronaca nera che si dedica al femminicidio si concentra morbosamente sulla vittima, non entra nei dettagli delle dinamiche di coppia, e finisce per prendere in considerazione solo una metà: la donna– l’uomo no. Il racconto dominante cristallizza due ruoli: la donna abusata è la vittima, l’uomo è l’aggressore. Punto. Certo, l’uomo-lupo è un carnefice, merita pubblica condanna, ma anche di essere studiato meglio. Per curare, e prevenire.

“Io non penso affatto che l’uomo violento sia un mostro, né che sia un folle,” ci spiega Laura Storti, psicoterapeuta a capo del team “Il Cortile”, “però sono certa che il problema della violenza è il suo, non della donna. Dunque è lì che bisogna andare.” Questo centro d’ascolto per uomini maltrattanti nasce nel 2010 all’interno della Casa Internazionale delle Donne. La domanda di fondo è: la psicoanalisi è in grado di affrontare questo significativo disagio della civiltà? Sembra di sì. Il virus della violenza non è solo un disagio interpersonale, è politico, è sovranazionale, affonda le sue radici nella psiche.
"Da circa tre anni abbiamo iniziato a lavorare anche all’ottavo braccio di Rebibbia e da poco a Regina Coeli,” racconta Storti, “non facciamo rieducazione, ma ascoltiamo gli uomini violenti. Ed escono fuori le loro storie. All’inizio dicevano tutti d’essere innocenti, e ci credevano.” Il primo step per loro è realizzare che “colpire non è virile.” E non è neanche lecito. Successivamente qualcuno ha compreso talmente a fondo la sua colpa da proporre un progetto per il dopo-carcere, perché il rischio di ricascarci è enorme. La violenza di genere è una specie di buco nero, di dipendenza, di automatismo incastrato nella memoria collettiva. Uscire da questo tunnel è una sfida di civiltà per l’umanità intera.

In Italia, i centri che accolgono uomini violenti sono 44: dal “Training antiviolenza uomini” di Bolzano, al “Cerchio degli Uomini” di Brescia, al “Gruppo di ascolto maltrattanti in emersione” di Cagliari. Leggere il lungo elenco dà l’idea di quanto sia cresciuta in poco tempo la necessità di stare dalla parte del lupo. Tanto che a Bari il servizio di assistenza per uomini maltrattanti si chiama proprio così.

A fare da apripista è stato il CAM (Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti) di Firenze, nato nel 2009. Ma a livello internazionale siamo gli ultimi arrivati. I primi programmi antiviolenza oltreoceano ed europei nascono negli anni Settanta e Ottanta: è il caso di “Emerge” a Boston e di “Evolve” a Winnipeg. Però qualche progresso si vede anche da noi: gli uomini cominciano a rivolgersi ai centri sempre prima. “Soprattutto all’inizio sentiamo dire di continuo: ‘Se lei fosse stata zitta, se lei avesse obbedito, se lei non avesse detto o fatto,” spiega Storti, “però, sempre più uomini tra i 35 e i 50 anni, quando hanno reazioni eccessive, come scuotere, urlare o dare spinte alla compagna, adesso si interrogano sul perché lo fanno e vengono qui.” Sette o otto anni fa non era così. La differenza era che, solo poco tempo fa, scuotere, urlare o spintonare una donna non era considerato un comportamento deviante. Ed era giustificato dalla pretesa che la donna, in qualche modo, se lo fosse meritato – o avesse provocato.

La parola magica è “provocazione”. Secondo una ricerca Ipsos realizzata per We World Onlus nel 2017, per un italiano su sei è colpa della donna che “se la cerca”. Gli uomini si sentono provocati quando la partner inizia a dire no. Andrea Bernetti, direttore del CAM di Roma, ci dice che gli uomini, quando arrivano a picchiare, lo fanno perché si sentono minacciati nella loro stessa esistenza.

È come se percepissero un pericolo di morte. Un’aggressione fisica. Che non c’è mai stata. “Le relazioni violente nascono a monte, quando la donna viene percepita come un oggetto, e sono il frutto di un accordo o collusione implicita nella coppia,” aggiunge Bernetti, “l’uomo sentendosi inadeguato a stare al mondo, perché ha perso l’autorità e il potere, cerca una relazione che ha la funzione di compensarlo e rassicurarlo. Queste partner sono delle stampelle per uomini che non sanno camminare.” Prima che partano il pugno e lo schiaffo, i presupposti ci sono tutti: la donna viene disumanizzata, diventa un oggetto da colpire. Il parallelismo con le prove muscolari e violente a livello di Stati e di nazioni è lampante: inventare il nemico, manifestare psicosi aggressive è il germe dell’attacco bellico. Donald Trump e Matteo Salvini ne sanno qualcosa.

Quando le donne esprimono i propri desideri e bisogni, l’incantesimo si spezza. L’uomo si sente tradito, messo all’angolo, ferito a morte.

A quel punto è troppo tardi. “Inizialmente vengono da noi chiedendoci di ripristinare un ordine precedente,” spiega ancora Bernetti, “loro vorrebbero far tornare quella persona la stampella che era un tempo.” Quando realizzano che non si può, o cambiano loro o ne cercano un’altra. Ad un primo livello imparano a gestire la rabbia: quando sentono che monta si fermano e prendono tempo, la osservano. Allora per gli psicologi è fatta, gli uomini sono “agganciati”: spostando il focus dalla loro parte si inizia a scardinare una dinamica polarizzata, si avvia un processo di consapevolezza e cura che riguarda la società intera. Di più: riguarda un mondo in cui il potere è prevalentemente in mano a uomini in profonda crisi d’identità. Deboli.

La violenza in fondo cos’è? Un atteggiamento innato o un comportamento appreso? La psicanalisi ci dice che si apprende dall’infanzia. Non siamo animali che mettono in atto comportamenti istintivi, siamo essere umani che operano delle scelte. E queste scelte possono essere modificate. Ma è da bambini che conosciamo la violenza. A volte anche solo osservando.

Così, il fenomeno si riproduce. La famiglia, che dovrebbe essere il luogo della protezione e della sicurezza sociale per eccellenza, diventa la tana del lupo, dove si ripetono le dinamiche della violenza subita, osservata, riprodotta ed emulata.

Il ruolo dei bambini è importante: spesso sono loro che ci portano ad agganciare gli uomini violenti, ed è grazie a loro che i padri il più delle volte si avvicinano a un processo di cura ed entrano in un centro anti-violenza. I figli dei maltrattanti sono un’esca. Ma non sempre. I lupi violenti possono anche essere padri amorevoli. In ogni caso, purtroppo, i bambini vedono, sanno, tacciono. E apprendono. Gli psicologi parlano di violenza assistita da parte dei figli. In Italia un dossier da poco divulgato da Save the children dice che ammontano a 427mila i minori che in soli cinque anni hanno vissuto la violenza tra le mura domestiche. Che ne sarà di loro?

Questi bambini e le bambine potrebbero diventare gli uomini e le donne maltrattanti di domani. Nella loro testa si crea un equivoco mostruoso: da una parte difendono ossessivamente la mamma, ma dall’altra emuleranno i padri. “I ragazzi apprendono che la violenza è comportamento accettabile e allo stesso tempo virile,” spiega Giorgia Usai, psicologa e mediatrice familiare. Dunque è attorno a loro che ruota il processo di interruzione della catena degli abusi.

È necessario metterli al riparo, intervenire tempestivamente, proteggerli e rimuovere lo choc psichico.

Accade spesso che gli episodi di maltrattamento delle madri vengano rinnegati a voce, per poi riemergere nel tempo sotto forme diverse. È ad esempio altamente probabile che le bambine che hanno avuto un padre violento siano portate a cercare partner simili, e a subirne le azioni.

I bambini non sono né Cappuccetto rosso né Hansel e Gretel, ma dalle favole possiamo apprendere molto: sono loro che ci portano a scovare la falla, a individuare il lupo mascherato da nonna, ad attraversare boschi con le briciole di pane che fanno da sentiero. Sono le vittime, le esche e la via d’uscita.

https://thevision.com/cultura/violenza-genere/?fbclid=IwAR3Rvjh_AkPhTA5ftoHCg3krUeaVw5voEFLw6wJT4n8sBF8yTzS6zhFD3D8

giovedì 14 novembre 2019

Le ragazze di Bauhaus di Claudia Mattogno

Il 2019 ha celebrato i cento anni dalla fondazione della scuola Bauhaus. Nata e forzatamente conclusa nell’ambito politico e sociale del breve periodo della repubblica di Weimar, il suo portato ha presto travalicato i confini tedeschi e quelli europei per lasciare un’impronta rilevante negli insegnamenti progettuali di molte scuole di architettura. Ha declinato arte, design e architettura attraverso un’esperienza didattica innovativa in grado di far dialogare artigianato e industria, esperienze artistiche e produzione industriale, innovazione tecnologica e elaborazione teorica.

La sua risonanza fu immediata. Gli obiettivi della grande apertura furono coinvolgenti e il tipo di formazione del tutto innovativo. Lo slogan “apprendere facendo” ne rappresenta bene la specificità: unire attività pratiche, artistiche e teoriche, con una visione ampia, integrata e interdisciplinare. La formazione prevedeva l’affiancamento di un artista e di un maestro artigiano e si articolava con un insegnamento di base propedeutico della durata di un semestre e quindi l’indirizzo verso laboratori quali la ceramica, l’arredamento, l’uso del metallo, la decorazione murale, la scultura, la grafica, la tessitura, l’architettura.

Si diventava così dapprima apprendisti di primo livello, dopo tre anni apprendista di secondo livello e dopo sei anni si diventaClaudia Mattognova giovane maestro.

In quattordici anni la scuola Bauhaus è costretta a spostarsi in tre sedi, Weimar, Dessau e Berlino, conosce tre diversi direttori, Walter Gropius, Hannes Mayer e Ludwig Mies van der Rohe, accoglie più di mille studenti. Tra questi 462 sono donne: una presenza dirompente in anni in cui l’accesso delle donne all’istruzione superiore era ancora limitato, se non addirittura negato in più di un paese europeo.

Tutti hanno ben impresso i nomi di grandi maestri come Gropius o Mies van der Rohe o apprezzano l’operato di artisti quali Albers, Kandisky o Klee. Qualcuno comincia a ricordare anche il nome di alcune insegnanti: Marianne Brandt nel laboratorio di metallurgia, Lilly Reich in quello di architettura e arredo, Anni Albers e Gunta Stölzl in quello di tessitura. Altre sono meno conosciute pur avendo ricoperto ruoli importanti: Gertrude Grunow nell’insegnamento della musica, Karla Grosch in quello della ginnastica e della coreografa, Otti Berger assistente al laboratorio di tessitura. Ben pochi conoscono però nomi quali Lotte Beese, forse la prima ad iscriversi nel 1927 al laboratorio di architettura appena aperto, la maggior parte pensa a Lucia Moholy solo come moglie di Laslo e non come fotografa.

Come mai questo cono d’ombra su una presenza che, invece, è stata molto rilevante?

All’apertura del Bauhaus, che per statuto ammetteva studenti di entrambi i sessi, le iscritte sono ben 84 mentre la presenza maschile raggiunge solo i 79 iscritti. Possiamo immaginare la sorpresa del corpo docente e le difficoltà nel superare i pregiudizi che ancora permeavano gran parte della società, anche quella che si voleva culturalmente più aperta, al punto che lo stesso direttore, davanti a questa massiccia affluenza femminile, si prodiga per attuare forme di selezione molto rigide.

Le studentesse erano numerose. Anche se la loro presenza negli anni è andata diminuendo, sia per i criteri di severa selezione, sia per quella sorta di “confinamento” attuata nei loro confronti, quando sono state progressivamente indirizzate verso ambiti ritenuti più consoni alle innate capacità domestiche femminili. Il laboratorio di tessitura era considerato una forma di artigianato artistico, relegata alle posizioni più basse nella gerarchia dell’arte e del design. Pur rappresentando una forma di confinamento, per molte divenne comunque uno spazio di autonomia che lasciava libertà di campo e di azione e che, per ironia della sorte, si rivelò anche in grado di realizzare rilevanti profitti, andando quindi a co-finanziare le digressioni artistiche delle sezioni di dominio maschile.

La storiografia femminista, la maggiore attenzione della storia agli aspetti del quotidiano assieme alla più recente tendenza ad analizzare anche le figure sullo sfondo e non solo i cosiddetti 'maestri', hanno portato sempre più studiose, e anche qualche studioso, a indagare su quelle cosiddette 'figure minori' che sono rimaste troppo a lungo nell’ombra di un marito o di un collega più famoso, o la cui opera è andata dimenticata nel tempo.

Chi sono dunque queste donne che hanno animato le aule della scuola? Non le conosciamo ancora tutte, ma il sito 100 Years of Bauhaus ha cominciato a ricostruirne i percorsi, favorendo così l'emersione dal passato, di figure, storie di vita e famiglie di appartenenza. L’elenco è ancora incompleto e sono evidenti le difficoltà nel condurre la ricerca, a cominciare da un aspetto quasi banale ma irto di difficoltà come quello di rintracciare i cognomi da nubili.

I volti e le biografie di queste donne che popolano le stanze del Bauhaus mostrano che sono giovani. Molte si iscrivono intorno ai 18-20 anni e sono già colte. Hanno tutte ricevuto un’educazione in una scuola, spesso pubblica, e molte di loro dispongono di una formazione artistica: l’americana Irene Bayer aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Berlino e frequentato l’Ecole des Beaux Arts a Parigi, Florence Henri aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Berlino e frequentato l’Accademia Moderna di Parigi, dove insegnavano Fernand Leger e Amedeo Ozenfant.

Sono donne creative e hanno voglia di mettere in atto nuovi stili di vita e di apprendimento. Molte di loro si dedicheranno alla fotografia: una disciplina nuova che è meno “incrostata” di retaggi culturali preconfezionati e che schiude ampie possibilità di sperimentazione. Nuovi linguaggi e nuovi materiali vengono sondati anche da chi viene “indirizzata” verso la tessitura, come ha fatto ad esempio Anni Albers che lavorava con materiali innovativi, tra cui i tessuti fono-assorbenti, utilizzando materiali industriali a fini artistici, e mettendo insieme il filato tradizionale della lana con il nuovo cellophane.
Claudia MattognoClaudia MattognoClaudia Mattogno
Sono donne che adottano stili di vita anticonvenzionali. Le foto che le ritraggono sono spesso opera di Lucia Moholy e ci mostrano ragazze sorridenti, che guardano dritto nell’obiettivo, che vestono abiti di grande modernità e hanno i capelli corti.

Molte rimangono nubili per dedicarsi completamente alla produzione artistica; altre sposano compagni di Bauhaus ma spesso ne rimangono all’ombra. Qualcuna di esse avrà un matrimonio duraturo, molte divorzieranno presto.

Sono viaggiatrici e si muovono agevolmente all’interno di quello che era stato il perimetro dell’impero prussiano, spesso superano questi confini e visitano Parigi, importante centro di produzione artistica e culturale. L’artista Ida Kerkovius attraverserà l’Europa settentrionale, l’architetta Lotte Beese lavorerà in Siberia con Max Stam, che in seguito sposerà ad Amsterdam. Alcune di esse compiranno viaggi di studio in Italia: Florence Henri frequenta l’ambiente futurista italiano mentre studia al conservatorio, la scultrice e scenografa teatrale Ilse Fehling riceve nel 1932 il Prix de Rome con una consistente borsa di studio.

Sono donne con vite complesse e non di rado tragiche. La chiusura del Bauhaus da parte dei nazisti nel 1933 fu seguita da anni caotici e anche drammatici per molte di loro. Numerose moriranno nei campi di concentramento, spesso rifiutando un visto di espatrio per restare accanto alle loro famiglie, come fece Otti Berger. Alma Siedhoff-Buscher muore nel bombardamento di Francoforte, altre perdono la loro produzione artistica nei bombardamenti di Berlino. Alcune fuggono in esilio ed emigrano negli Stati Uniti con i mariti come Grit Kallin Fischer, grande talento della fotografia, o come Anni Albers, che insegnerà presso Black Mountain College nel North Carolina a partire dal 1933. Altre ancora partiranno per il Sud America, qualcuna a Tel Aviv, qualcun’altra in Sud Africa come la fotografa e grafica Etel Fodor-Mittag.

Sono donne che lavorano. Aprono studi professionali autonomi e fondano aziende di tessitura a mano, come farà Gunta Stolzl nel 1931 a Zurigo. Lavorano in grandi imprese legate alla produzione tessile, come Otti Berger o alla carta da parati come Maria Rach. Fondano atelier di produzione, come Friedl Dicker, che disegna e produce giocattoli, gioielli, tessuti e scenografie, grafica.

In molte si trasferiranno a Berlino, la capitale culturale, città aperta e cosmopolita, effervescente, ma che sarà anche la loro rovina perché qui perderClaudia Mattognoanno le loro opere durante i bombardamenti. Altre si trasferiranno all’estero. Lucia Moholy, dopo aver divorziato dal marito nel 1929, dapprima si sposta a Parigi e poi raggiunge Londra, da dove collaborerà attivamente a creare il patrimonio di documentazione dell’Unesco, mentre Lotte Stam-Beese si stabilirà in Olanda dove realizzerà interventi di scala urbanistica.

Sono in gran parte donne attive socialmente e politicamente. E spesso manifesteranno il loro impegno attraverso la fotografia sociale di denuncia: Irena Blühova fu anche un’attiva antifascista durante la Seconda Guerra Mondiale, Judith Karasz fu espulsa per questo dalla scuola nel marzo 1932.

Sono donne a lungo rimaste nell’ombra. Per alcune di esse le uniche citazioni sono state quelle di “moglie di…”, Ise Gropius veniva chiamata MClaudia Mattognors. Bauhaus, ma è stata fotografa, autrice di testi, redattrice, organizzatrice di eventi, segretaria della scuola. Altre, come Lilly Reich, a lungo collaboratrice di Mies van der Rohe e già con una relativa notorietà prima di arrivare al Bauhaus, sono state oggetto solo di recente di un’attenzione specifica che ne ha ricostruito con pienezza il ruolo. Ne costituisce un esempio la figura di Judith Karasz rimasta a lungo sconosciuta pur lavorando dal 1949 al 1968 come responsabile degli archivi presso il Museo di Arti Decorative di Budapest per il quale ha fotografato centinaia di opere.

Sono donne che hanno contribuito a sedimentare memoria. Hanno svolto un prezioso lavoro di documentazione, hanno scattato ritratti, hanno ripreso momenti di vita all’interno della scuola. Lo testimoniano le numerose foto di Lucia Moholy e i premi di Margarete Reichardt nel 1937 a Parigi, nel 1939 alla Triennale di Milano, nel 1951Claudia Mattogno il diploma d’Oro e a cui nel 1970 fu affidato l’incarico di curare l’eredità Bauhaus. Un’eredità che finalmente sembra ritrovare le sue filiazioni femminili.
http://www.ingenere.it/articoli/le-ragazze-di-bauhaus?fbclid=IwAR3NlCvUKaYoOLt8og8bCMf3xPugdZgfujuelwIT-f9D_p2JTGLhP0x6qWM

martedì 12 novembre 2019

Pillon sale in cattedra per un seminario sull'affido condiviso a Parma

Il coordinamento dei centri antiviolenza dell'Emilia-Romagna insorge e chiede di sospendere l'evento: «Ricordiamo che il suo ddl prevede l'obbligatorietà della mediazione familiare, applicabile anche ai casi di violenza».
 
Il leghista Simone Pillon sale in cattedra. Per aggiornare altri avvocati sull'affido condiviso, tema centrale del suo discusso disegno di legge archiviato (a settembre la neo ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti aveva assicurato sarebbe rimasto nel cassetto). E allora perché chiamarlo a tenere una lezione? Il coordinamento dei centri antiviolenza dell'Emilia-Romagna non ci sta, e ha espresso «sconcerto» di fronte al seminario organizzato per venerdì 15 novembre dalla Camera civile di Parma che vedrà come «relatore e professore in cattedra Simone Pillon, il senatore leghista autore dell'omonimo ddl che abbiamo definito più volte come un attacco alla libertà delle persone, ai diritti delle donne ed adultocentrico, un progetto oscurantista che, se diventasse legge, penalizzerebbe ulteriormente le donne che subiscono violenza».

Per questo i centri, oltre a sottolineare come la scelta arrivi «a ridosso della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne» si uniscono all'Unione donne italiane di Bologna «e alla richiesta di sospendere l'evento». Per il coordinamento «è motivo di indignazione che tale seminario sia inserito nel percorso formativo rivolto agli avvocati. Ricordiamo che il ddl Pillon, per citarne solo un aspetto, prevede l'obbligatorietà della mediazione familiare, applicabile anche ai casi di violenza, e che tale imposizione viola la Convenzione di Istanbul che è legge in Italia dal giugno 2013».
https://www.letteradonna.it/it/articoli/politica/2019/11/11/pillon-seminario-parma-affido-condiviso/29324/?fbclid=IwAR1Hs9tj-qypGUQVU1-j9uRqlAg7VroYMEh2JuWSYilfpdLI3xavGzP7-w4

lunedì 11 novembre 2019

Femminicidio. Donne e violenza, un'altra beffa: «Mai ripartiti i fondi del 2019» Viviana Daloiso

Parla la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio Valeria Valente: «Non basta l’inasprimento delle pene, per fermare i maltrattamenti serve un cambio di rotta culturale»
 
La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio è stata istituita per la prima volta nel 2017, con una delibera del Senato. Obiettivo: svolgere indagini sulla reale dimensione del fenomeno del femminicidio e sulla violenza di genere in Italia. La prima Commissione, presieduta da Francesca Puglisi (anche lei dem), ha svolto 37 audizioni di ministri, esperti, docenti universitari, associazioni di donne, giudici, esponenti di enti locali, associazioni di avvocati, mass media. Numerose le indagini nelle procure e nei tribunali per raccogliere dati sul fenomeno, pubblicate poi in un report finale di oltre 400 pagine (disponibile online sul sito del Senato). La seconda Commissione è stata istituita a febbraio del 2019, con Valeria Valente come presidente. Sono ripresi immediatamente i cicli di audizioni ed è cominciato anche un giro di visite istituzionali nei Centri antiviolenza: le prime tappe sono state Potenza, Trento, Palermo. Il prossimo mese sarà a Napoli.

Non basta l’umiliazione dei 12 milioni di euro stanziati ai Centri antiviolenza nel 2017 (che divisi per il numero di donne accolte e sostenute in un percorso di recupero, come ha denunciato Avvenire, fanno poco più di 70 centesimi a vittima). C’è anche la vergogna dei fondi stanziati per l’anno in corso, il 2019, «fondi per cui non è ancora nemmeno iniziato il riparto tra le Regioni» spiega Valeria Valente, senatrice del Pd e da febbraio presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Un ritardo di 10 mesi, «a cui si deve sommare quello medio di altri 8 o 9 delle Regioni per la procedura di effettiva assegnazione»

Concretamente questo cosa significa, onorevole?
Che da un anno gli stessi Centri antiviolenza – l’unico baluardo di difesa delle donne vittime di abusi e maltrattamenti nel nostro Paese – non solo non hanno fondi per procedere con le proprie attività, ma non sanno nemmeno se li riceveranno. Un’incertezza che di fatto impedisce la programmazione degli interventi e la stesura di nuovi progetti, oltre che penalizzare (quando non azzerare del tutto) quelli già in corso.

A cosa si deve questo ritardo?
Banalmente, ai tempi della burocrazia. Nonostante più volte, come Commissione, ci siamo mossi per sollecitare il governo precedente sul Piano di riparto, nulla è stato fatto. E siamo a novembre, quando negli anni precedenti – pur già con un enorme ritardo – si procedeva appena dopo l’estate.

E il nuovo governo?
Si sta muovendo. Proprio questa settimana abbiamo incontrato il premier Conte, che ci ha rassicurati sulla priorità di questo punto. E il ministro per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, che ha insediato mercoledì a Palazzo Chigi la cabina di regia interministeriale sulla violenza contro le donne, ha promesso che in tempi brevi arriveranno i 30 milioni di euro da destinare alla Regioni per finanziare i centri. Sono segnali di un impegno che ci rincuora, ma che va mantenuto.

I reati contro le donne sono gli unici che continuano a non diminuire, nonostante l’Italia negli ultimi anni si sia dotata di norme fortemente punitive nei confronti di chi li commette. Perché?
È vero, il quadro normativo italiano si è arricchito di interventi volti a un inasprimento delle pene sul fronte delle violenze di genere. Dalla legge contro lo stalking fino al recente Codice rosso, abbiamo assistito al tentativo “aggredire” il fenomeno dal punto di vista del diritto penale, coi risultati positivi di un aumento degli arresti e delle denunce. La tutela delle donne, però, non è aumentata. Troppi i casi di violenza, troppi i femminicidi a cui quotidianamente assistiamo quasi inermi. Questo ci dice che pene più aspre non bastano. Serve un cambio di passo, a cominciare da una presa di coscienza culturale di quello che sta accadendo.

Da dove si comincia?
Dalle università, tanto per fare un esempio. Chi si occupa di violenza sulle donne, nel nostro Paese, ancora non ha la formazione e la specializzazione necessarie per farlo. Penso agli avvocati, ai medici di base, agli psicologi, agli ufficiali di polizia: quando, in un percorso di studi standard, si incontrano moduli specifici pensati perché questi professionisti sappiano trattare il caso di una donna vittima di violenza? Chi si sta occupando di arricchire i percorsi curriculari in tal senso? Scopriamo, anzi, che sono sempre gli stessi Centri antiviolenza nella maggior parte dei casi a offrire questo tipo di formazione. Come Commissione d’inchiesta siamo impegnati su questo punto costantemente: proprio con gli atenei stiamo approntando piani di collaborazione e sensibilizzazione in tal senso. E poi siamo al lavoro coi tribunali.

Come?
Stiamo svolgendo una prima indagine, attraverso la distribuzione capillare di questionari, su come vengono affrontate le separazioni civili. Ci siamo resi conto, infatti, che l’area al di fuori del penale resta del tutto scoperta a livello di controlli e attenzioni, quando invece moltissime vittime di violenza continuata in famiglia, per paura di denunciare, intraprendono proprio la via della separazione civile per mettere al sicuro se stesse e i propri figli. Ecco, a quel livello le situazioni a rischio dovrebbero essere intercettate e accompagnate con molta più frequenza di quel che avviene. Sempre coi tribunali, poi, abbiamo avviato una serie di verifiche su alcuni casi di denunce archiviate, e poi sfociate in femminicidi. Serve che certi segnali vadano intercettati prima che le donne muoiano.

LA PRIMA PUNTATA Violenza sulle donne. Lo Stato e quei 76 centesimi al giorno per le vittime

IL CASO DI MILANO: ABUSI E MALTRATTAMENTI. IL CORAGGIO DELLA FIGLIA 14ENNE, CHE DENUNCIA

Il “copione” sembra sempre lo stesso: un uomo violenta la compagna e la figlia di lei ma la donna non se la sente di andare dai carabinieri a denunciarlo perché ha paura. Ma stavolta, a far arrestare il bruto raccontando tutto al giudice, è stata la ragazzina. È accaduto a Milano. Le aggressioni nei confronti della mamma andavano avanti dal 2015 e l’ultima risale a una decina di giorni fa, quando, dopo essere finita in ospedale con costole e naso rotti, si è finalmente decisa a denunciare il compagno dal quale a giugno ha avuto un bimbo.

Ma a dire ai pm quello che accadeva nella loro casa, a descrivere le scene a cui ha assistito terrorizzata più volte, è stata la figlia maggiore della donna, una 14enne, a sua volta vittima di abusi. Ora il responsabile delle violenze, 44 anni, è in carcere con l’accusa di maltrattamenti in famiglia, lesioni e atti sessuali nei confronti della minore: con precedenti per spaccio, finito a San Vittore, nel 2018 l’uomo era stato assolto dal reato di maltrattamenti e lesioni perché le accuse erano state ritenute inattendibili a causa della reticenza della sua compagna che, nonostante le botte, lo ha sempre riaccolto in casa. A squarciare il velo sulla tremenda realtà è stata la ragazzina, stanca di vivere quell’incubo: ha ricostruito con gli agenti e il pm le vessazioni in famiglia, in particolare quelle a partire dallo scorso aprile, ovvero da quando è ritornata a casa dopo un periodo trascorso dalla nonna e poi in una comunità. La giovane, che è incinta, da quanto si è appreso, dopo aver assistito all’ultima aggressione, in ottobre, era stata ospitata dalla famiglia del suo fidanzatino.
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/donne-e-violenza-unaltra-beffa-mai-ripartiti-i-fondi-del-2019?fbclid=IwAR10prUnvlVFYcRGBVVNvM5O1Ee5hhUd89iGeI60jfsVlhEMxbCOKeelIu0

domenica 10 novembre 2019

Allarghiamo la consapevolezza sulla violenza maschile contro le donne DI SIMONASFORZA

Quante volte abbiamo detto che dobbiamo moltiplicare le occasioni per conoscere più da vicino ciò che ciascuna donna sperimenta nel corso della sua vita, con una frequenza elevata e pervasiva, come le statistiche continuano a registrare. Ma noi tutte lo sappiamo come si vive in questo sistema culturale e comportamentale che da secoli ci schiaccia e cerca in tutti i modi di ricondurci al nostro posto, al nostro ruolo, a ciò che un uomo prescrive come corretto e cosa buona per una donna. Il femminismo ci ha permesso di guardare in faccia tutto ciò che da secoli ci accadeva e di analizzarlo nel profondo, fino ad arrivare alle radici di questo costrutto sociale e culturale patriarcale.

Violenza maschile sulle donne, declinata in tante variabili, alcune sottili e invisibili, abilmente celate o minimizzate, anche da noi stesse donne, educate e cresciute nella medesima broda culturale, che ci fa attendere tanto troppo prima di capire cosa sta realmente accadendo e ribellarci, che ci inculca sensi di colpa e mille strategie di negazione. Sessismo, violenza sessuale, economica, stalking, pressioni dentro e fuori casa. Non siamo esagerate, non siamo paranoiche, non ingigantiamo ciò che sperimentiamo sulla nostra pelle, non siamo isteriche, non siamo misandriche, non odiamo gli uomini, non giochiamo a fare le vittime. Se troviamo un varco per riuscire finalmente a parlarne, ascoltateci, sul serio però, senza rivittimizzarci e senza minimizzare. Tutto questo, dicevamo, parte da una società, che in tutti i suoi contesti e luoghi, sia capace e intenda cambiare la sua cultura in modo radicale, a partire da come si considera una donna, iniziando a rimuovere stereotipi, pregiudizi, etichette, insomma tutta quella polvere patriarcale che si è abilmente insediata nelle nostre relazioni, nella nostra mentalità, nelle nostre aspettative. Ecco, perché credo che sia un’occasione importante quella offerta dal progetto SFERA – Sviluppo della Formazione per Reti Antiviolenza, che nasce da un accordo fra l’Università degli Studi di Milano-Bicocca (Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale) e PoliS-Lombardia, grazie ad un finanziamento della Regione Lombardia, Direzione Generale Famiglia e Pari opportunità, per la formazione di reti territoriali, volti alla prevenzione e al contrasto della violenza di genere.

Un percorso di formazione gratuita, fino a esaurimento posti, costruito per moduli, laboratori ed eventi, articolato seguendo le “4P” previste nella Convenzione di Istanbul (Prevenire la violenza; Proteggere e sostenere le vittime; Perseguire i colpevoli di violenza sessuale e domestica; Promuovere politiche integrate).

I percorsi sono rivolti agli ordini degli assistenti sociali, degli psicologi, dei giornalisti, al personale dei centri anti-violenza, al terzo settore e a chi opera nel mondo dello sport, all’associazionismo, con un interessante modulo rivolto a chi lavora nei consultori pubblici e privati, “L‘accoglienza e la presa in carico delle vittime: servizi territoriali + servizi ospedalieri”, previsto per il 19 novembre 2019, dalle 14:00 alle 18:30.

Sapere, essere consapevoli di cosa siano certi fenomeni e di quanto di frequente accadano episodi della sfera della violenza maschile contro le donne fondata sul genere e spesso occultata, come ci ha perfettamente illustrato la professoressa Patrizia Romito, ne Un silenzio assordante, è il primo passo per guardare in faccia questi atti di violenza e assolutamente non consentire più che nemmeno un singolo episodio subisca una forma di silenziamento. Parliamone, affrontiamo questo fenomeno, cogliamo ogni più piccolo segnale nei nostri ambienti quotidiani, lavorativi, relazionali, familiari. Partiamo da noi. Penso che ogni occasione, specialmente se accompagnata da professionisti e da esperti che operano quotidianamente su questi aspetti, sia utile a costruire quel terreno fertile di consapevolezza e possa costituire un importante leva per scardinare la cultura che è alla base della violenza maschile contro le donne. Una missione di cui tutti e tutte noi possiamo farcene portatrici/portatori. Qualcosa che dobbiamo raccontare (come da Il male che si deve raccontare, di Simonetta Agnello Hornby e Marina Calloni), che dobbiamo affrontare e disvelare, portarlo sempre più davanti agli occhi di chi ancora oggi nega, ridimensiona, sminuisce la sua gravità e diffusione, non ha gli strumenti per riconoscerlo sin dai suoi primi segnali. Succede, non è qualcosa lontano da noi. Prendiamo consapevolezza e allarghiamo la consapevolezza. A 360°, come una sfera.

Tutte le informazioni per le iscrizioni e le date degli incontri le potete trovare qui.
https://simonasforza.wordpress.com/2019/11/09/allarghiamo-la-consapevolezza-sulla-violenza-maschile-contro-le-donne/?fbclid=IwAR1c1G5X8BirZWb6QJ092OoJnqnZlM5EYnx16vIyOvj5XEYt-YHDngxWbtA