giovedì 31 ottobre 2019

Violenza sulle donne. Lo Stato e quei 76 centesimi al giorno per le vittime Viviana Daloiso

Risorse al lumicino, interi territori scoperti. Nel primo rapporto Istat sui Centri antiviolenza le contraddizioni nella gestione di un fenomeno definito “emergenza” solo quando di violenza si muore
 
Segregata in casa, insultata e abusata quotidianamente, costretta ad abortire. L’ultimo caso, nella lista dell’orrore che tocca alle donne in Italia, arriva da Bologna. Vittima, una giovane originari del Marocco, che aveva trovato già quest’estate la forza di denunciare quello che subiva dal marito. Era stata accolta in un una struttura protetta, ma poi aveva ritrattato tutto, probabilmente indotta dall’uomo e dai suoi familiari, ed era tornata a casa.

Come lei, nel nostro Paese, ci sono altre 44mila vittime. Eccolo, il conto fatto per la prima volta dall’Istat, che ieri ha divulgato i dati relativi alle violenze subite dalle donne e una fotografia della trincea dei centri antiviolenza che ogni giorno se ne fanno carico, nel deserto – o quasi – di aiuti pubblici, di risorse e di attenzione istituzionale. Talmente poca che, fatti due conti, per il sostegno e l’accoglienza che ogni giorno riceve una vittima di violenza lo Stato paga meno di un euro: 76 centesimi, per l’esattezza.

Nel 2017 alla rete di aiuto che sconta ancora troppe diseguaglianze territoriali (con regioni, specialmente al Sud, ancora del tutto prive di strutture) si sono rivolte per l’esattezza 43.467 donne, ovvero 15,5 ogni 10mila, il 67,2% delle quali ha iniziato un percorso di uscita da una vita di soprusi e maltrattamenti. Drammatico l’identikit delle vittime: il 63,7% ha figli, minorenni nel 72,8% dei casi, e 27 volte su cento la persona presa in carico è di nazionalità straniera. Di fronte a questi numeri è lampante come l’offerta di centri sia ancora del tutto insufficiente. La legge di ratifica della Convenzione di Istanbul del 2013 individua come obiettivo quello di avere un Cav ogni 10mila abitanti: al 31 dicembre 2017 erano invece attivi nel nostro Paese 281 centri antiviolenza, pari a 0,05 centri per 10mila abitanti. Un abisso drammatico.

Quello che si fa (e si potrebbe fare meglio)
Pensare che invece queste strutture sono un fiore all’occhiello del nostro sistema di welfare: ottima la reperibilità offerta (mediamente 5 giorni a settimana per circa 7 ore al giorno), con la quasi totalità che ha attivato diverse modalità per esserlo in modo continuativo, dal numero verde alla segreteria telefonica. Molti, inoltre, i servizi offerti in risposta all’esigenza di personalizzazione dei percorsi per superare abusi e sopraffazioni subite e bene anche l’attività di educazione nelle scuole, svolta da nove centri su dieci. Con un valore aggiunto impagabile: l’informazione e la formazione all’esterno rivolta agli operatori sociali (la svolgono il 71,7% dei centri), agli operatori sanitari (il 60,5%), alle forze dell’ordine (il 49,8%) e agli avvocati (il 43,4%). Senza contare che per gestire le situazioni di emergenza l’85,8% dei Centri antiviolenza è collegato con una casa rifugio, dove le donne possono concretamente – e da subito – trovare protezione per se stesse e per i propri bambini.

Fa specie allora che più della metà delle professioniste che lavora in un Cav lo faccia senza essere retribuita: è volontario il 56,1% del personale specializzato (che nel totale – tra pagato e gratuito – raggiunge le 4.403 unità), con la maggiore quota di volontarie tra le operatrici e le avvocate. Ma volontariamente, spesso, per aiutare le altre donne si offrono anche infermiere, psicologhe, educatrici, mediatrici culturali. Un vero e proprio “esercito del bene”, quasi completamente dimenticato dalle istituzioni. L’ente promotore delle strutture – cioè la persona giuridica pubblica o privata che ha la titolarità del servizio in quanto lo finanzia – è infatti prevalentemente un soggetto privato, e in quasi tutte le regioni (61,3%).

I soldi e l'attenzione che mancano
E nel 2017, sembra incredibile, i fondi pubblici per i Centri antiviolenza sono stati 12 milioni di euro, che – se divisi per il numero delle donne accolte secondo l’Istat – fa appunti meno di 1 euro al giorno, 76 centesimi per la precisione secondo i conti di Donne in rete contro la violenza (D.i.Re), che nel 2017 ha accolto la metà delle 44mila donne rivelate dall’Istat. «Il quadro che emerge dalla rilevazione conferma le criticità che da sempre e continuamente mettiamo in evidenza – è il commento della presidente, Lella Palladino –. I centri antiviolenza sono troppo pochi, con interi territori scoperti, il personale solo parzialmente retribuito, le risorse assolutamente al di sotto del bisogno».
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lo-stato-e-quei-76-centesimi-al-giorno-per-le-donne-vittime-di-violenza?fbclid=IwAR2RJ49q9gzk7fk8SoSBA42d7nkvCd1oirwkF0AU-o2QQlxIgv1a9eb68LE

mercoledì 30 ottobre 2019

La nostra riflessione sul documento finale del Sinodo per la Regione Panamazzonica

Come Donne per la Chiesa abbiamo seguito il Sinodo appena concluso con grande attenzione, nella preghiera e nella mobilitazione, grate che la Chiesa abbia scelto l’Amazzonia e la sinodalità per rispondere alle sfide del nostro tempo, anche se convinte che l’impossibilità per le madri sinodali di partecipare alle votazioni abbia rappresentato un vulnus nell’intero processo. Il documento finale che è stato reso noto nei giorni scorsi parla di una Chiesa che vuole con tutte le sue forze porsi dietro ai passi del Maestro, scegliendo i poveri e facendo proprio il loro volto: volto indigeno, campesino, afrodiscendente, migrante.

Ci lasciamo toccare profondamente dall’ammissione che “spesso l'annuncio di Cristo è stato fatto in collusione con i poteri che hanno sfruttato le risorse e oppresso le popolazioni. Attualmente, la Chiesa ha l'opportunità storica di differenziarsi dai nuovi poteri colonizzanti ascoltando i popoli amazzonici per poter esercitare la loro attività profetica con trasparenza” e ci sentiamo chiamate anche individualmente, come madri, mogli, amiche, educatrici, docenti, professioniste ad “agire di fronte a una crisi socio-ambientale senza precedenti” con “una conversione ecologica”. Nella gratitudine per il cammino sinodale compiuto, un solo punto ci lascia amareggiate e riguarda proprio le donne. Ancora una volta a grandi proclami sulla necessità che la donna “assuma più fortemente la sua leadership all'interno della Chiesa” e al riconoscimento della “ministerialità che Gesù ha riservato alle donne” non fanno seguito passi concreti. Da un lato si chiede esplicitamente che uomini sposati di provata fede ed esperienza, in particolare gli attuali diaconi permanenti, possano accedere all’ordinazione presbiterale; invece per le donne si domanda l’invenzione di un ministero “ad hoc”, quello delle leader di comunità, che non fa che enfatizzare una discriminazione. I ministeri ordinati e in particolare il diaconato restano inaccessibili alle donne, senza considerare che se è vero che lo Spirito soffia dove vuole, la vocazione al servizio ministeriale può e di fatto raggiunge anche le battezzate. L’instrumentum laboris conteneva una coraggiosa proposta di cambiamento nella visione dell’evangelizzazione, ma il documento finale sembra più connotato da calcoli di necessità (riguardo ai viri probati) e prudenza (riguardo alle donne). Ora si rimanda a ulteriori lavori della commissione sul diaconato istituita nel 2016 e questo nonostante molti vescovi e almeno un circolo minore si fossero espressi chiaramente per la sua restituzione. Parliamo di restituzione perché le evidenze storiche del diaconato delle donne sono molteplici e altrettante sono le esigenze concrete da parte delle comunità, soprattutto in Amazzonia. Eppure non basta. Quando si tratta delle donne sembra che non ci siano mai abbastanza ragioni per rompere il muro della diseguaglianza, come se il comune Battesimo non fosse sufficiente. Non si riesce a credere che la dignità delle donne stia davvero a cuore alla Chiesa, quando si teme di condividere il ministero, facendone di fatto un privilegio maschile.

È di pochi giorni fa la notizia che in Italia ormai le donne stanno lasciando la pratica religiosa più degli uomini, così avviene anche in altri paesi dell’occidente, e questo in gran parte per il mancato riconoscimento di uno status paritario. Speravamo che “dalla fine del mondo” e grazie alle nostre coraggiose sorelle dell’Amazzonia, arrivasse un vento nuovo anche per noi, il vento fresco della corresponsabilità e del camminare insieme, le une accanto agli altri. Così non è stato, una ennesima occasione mancata. E a quanti ci dicono che occorre pazientare rispondiamo che etimologicamente la pazienza rimanda a una situazione patologica, malata, che provoca sofferenza. Una situazione dalla quale è legittimo desiderare di uscire.

Amando la Chiesa, continuiamo anche a interrogarla: perché una Chiesa che non riconosce uguale dignità ai propri figli e figlie, inesorabilmente perde di credibilità quando si appella al riconoscimento della dignità dei popoli e del creato.
http://www.donneperlachiesa.it/2019/10/30/la-nostra-riflessione-sul-documento-finale-del-sinodo-per-la-regione-panamazzonica/?fbclid=IwAR14gGndqiqZX5XLO_QYFiA5ilAVCN9AIfLRwu8_XAwcSJxYGRiUjfPZbEk

martedì 29 ottobre 2019

«Serve una sorellanza globale contro sessismo, nazionalismo, xenofobia»: l’appello della scrittrice turca Elif Shafak

«Viviamo in un’epoca in cui siamo sempre più gli uni contro gl altri. Ma per la letteratura gli altri non esistono, esistono gli uomini»
di La.Ri.

«I diritti delle donne sono sotto attacco in molte parti del mondo, stanno subendo un forte contraccolpo. C’è un grande bisogno di sorellanza, di solidarietà a livello globale». Elif Shafak, la scrittrice turca che ha aperto Festivaletteratura di Mantova, parlava del suo ultimo libro ma il discorso l’ha portata lontana. I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo (Rizzoli) è il racconto di quel che l’autrice pensa possa passare nella testa di una prostituta uccisa in quel breve lasso di tempo in cui il cervello continua a funzionare anche se il cuore si è fermato.

«Ho immaginato che la mia protagonista ricordasse il suo passato, e attraverso questo, la storia della Turchia, che volevo fosse raccontata da una persona che è stata spinta ai margini della società - spiega -. Non sono partita da un’idea astratta, ma di qualcosa di ben presente nella mia vita. Sono stata cresciuta da due donne, mia nonna e mia madre, una giovane divorziata, e sono stata testimone della fatica che faceva per far fronte ai pregiudizi di una società patriarcale. Ma ho anche visto la solidarietà delle altre donne e per questo sono cresciuta con la fede nella sorellanza e nella solidarietà». Il rafforzarsi dei nazionalismi e della xenofobia, secondo l’autrice turca, va di pari passo con quello del sessismo, della misoginia, dell’omofobia. E contro questo le donne devono unirsi.

Ma anche la letteratura ha un ruolo centrale che l’intellettuale rivendica come necessario. «Viviamo in un’epoca in cui siamo sempre più suddivisi in tribù, ci viene detto continuamente “stai con noi”, sempre più gli uni contro gli altri. Ma per la letteratura gli altri non esistono, esistono gli uomini. La letteratura crea ponti. Io voglio costruire ponti. La letteratura può aiutare a “reumanizzare” ciò che è stato disumanizzato». «Penso - continua l’autrice, che vive a Londra - che siamo in un periodo in cui abbiamo troppa informazione e poco sapere, e ancor meno saggezza. Conoscere è un processo, un percorso. Siamo sommersi da informazioni da elaborare e questo genera ansia e ben poco sapere. E ben poca saggezza, che è, secondo me, l’incontro di cuore e mente, l’intelligenza emozionale». Sahfak sottolinea l’importanza delle emozioni e come sia importante riuscire a portarle anche nel dibattito pubblico, per non lasciarle nella mani dei populisti, che ne fanno un uso improprio .

L’informazione contro cui parla non è quella preziosissima dei giornalisti liberi, «il cui compito è mettere i governanti di fronte alle loro responsabilità» e che nel suo Paese sono imprigionati, minacciati, esiliati, a volte uccisi- «La Turchia è diventata la prima prigione al mondo per giornalisti, scrittori, studiosi» - ma quella che «consumiamo distrattamente sui social media senza lasciarci il tempo di elaborarla davvero».

Gli intellettuali che vivono in «democrazie ferite» - e Shafak cita la Turchia naturalmente, il Venezuela, il Brasile, la Nigeria, la Russia - «non si possono permettere di ignorare quel che accade». «Se non occupiamo lo spazio con il nostro sapere, questo sarà occupato dagli estremisti, dagli integralisti». Responsabilità degli scrittori è anche ricordare: «non per restare nel passato, ma per andare avanti. Un Paese che non sa parlare della sua storia in modo equilibrato e sfumato non può crescere» dice l’autrice sottolineando come in Turchia e per esempio in Medio Oriente il passato viva ancora nel presente a causa di un’amnesia collettiva che rifiuta di ricordare il passato come è veramente stato.
https://www.ilsole24ore.com/art/serve-sorellanza-globale-contro-sessismo-nazionalismo-xenofobia-l-appello-scrittrice-turca-elif-shafak-ACbKo9h?fbclid=IwAR33ICZwqAVI7H2Ewjryeu3ZPzxON6qImb_AvBKz_1_a_wrMTkQWwuvqZGI&refresh_ce=1

lunedì 28 ottobre 2019

Le donne cilene e le combattenti curde: il prezzo di chi lotta per i diritti Nascere donna è già da solo un grande atto di coraggio in un mondo così spietatamente violento e maschilista. Claudia Sarritzu

Ieri pubblicavamo un altro video dell’orrore che testimonia una volta di più l’abominio delle milizie jihadiste mandate da Erdogan per massacrare i curdi.
Fondamentalisti islamici in tutto e per tutto uguali allo Stato Islamico, con la differenza che invece di obbedire al Califfo obbediscono e sono pagati dal Sultano.
Nel filmato (uno dei tanti crimini di guerra) si vedono i miliziani che si identificano come i "Mujahideen di Faylaq al-Majd", ”Jihadisti del Majid corps”’ che urlano "Allah u Akbar" (Dio è grande) davanti ai cadaveri di combattenti curdi appena uccisi.
E poi una sequela di parole volgari dette mentre qualcuno urlava che i morti erano dei ‘senza Dio”.
Urlava un miliziano barbuto nella città di Tel Abyad: "I cadaveri dei maiali del Pkk e Pyd (Il braccio politico dei curdo-siriani, ndr)) sono sotto i piedi dei Mujahideen di Faylaq .
Poi il video mostra il corpo di una combattente curda delle Unità di protezione femminile (Ypj), che faceva parte delle forze democratiche siriane (Sdf).
“Questa è una delle vostre puttane che ci avete inviato. Questa è una delle puttane sotto i nostri piedi ” dicono ridendo in maniera volgare. In un altro video si mostra una combattente curda fatta prigioniera. E il miliziano dopo aver ringraziato Allah prosegue: “Abbiamo preso una prigioniera del Pkk è nelle nostre mani”. Il tutto mentre dietro un jihadista si vanta: “Ho fatto io questa scrofa prigioniera”.
Mercenari jihadisti pagati dalla Turchia che fa parte della Nato. Quindi anche nostri alleati.
Pochi giorni fa veniva massacrata e uccisa Hevrin Khalaf, 35 anni, impegnata politicamente per un Kurdistan libero fucina di democrazia e parità di genere. Non era una guerrigliera. Era disarmata e non si sono fermati. Perché uccidere una donna libera e l'idea di libertà che questa porta con se sembra dare più soddisfazione ai miliziani turchi.
E' così in tutte le parti del mondo.
Il sito in lingua spagnola Diario Digital Femenino ieri ha raccolto la testimonianza di Sumargui Vergara, una sociologa cilena che sta testimoniando che la polizia cilena, impegnata in questi giorni nella repressione della protesta civile che ha messo a ferro e fuoco il paese, si sarebbe macchiata di crimini orribili tra cui anche la violenza sessuale delle donne detenute.
"Stanno succedendo molte cose" ha detto Vergara, "le donne detenute hanno dichiarato di essere state violentate. Ma non ci sono registri, non possono difendersi perché è tutto irregolare. Con la scusa del coprifuoco arrestano chiunque, a qualsiasi ora".
Come già confermato da altre fonti, il governo cileno sta facendo di tutto per non far trapelare le immagini delle violenze contro la popolazione civile: "La tv mostra solo i saccheggi nei supermercati, sta succedendo molto di più. È una campagna di terrore. Ma stiamo cercando di diffondere queste informazioni via Internet" ha detto Vergara.
Nascere donna è già da solo un grande atto di coraggio in un mondo così spietatamente violento e maschilista.
https://www.globalist.it/intelligence/2019/10/24/le-donne-cilene-e-le-combattenti-curde-il-prezzo-di-chi-lotta-per-i-diritti-2048081.html?fbclid=IwAR2zLWxuFGotob3cPIluYBEHGltfLJZzJIy0kxrT_LMezDt0jFgcHGK8BeI

mercoledì 23 ottobre 2019

UN RESOCONTO DI QUANTO STA ACCADENDO IN ROJAVA

Oggi ci è arrivato dal villaggio delle donne libere di Jinwar,   “Jinwar è proprio vicino a Serekaniye, ormai invasa totalmente dai turchi e da dove anche le SDF si sono ritirate”.

Jinwar – Free Women’s Village Rojava [Villaggio delle donne libere di Jinwar, Rojava] venerdì 18 ottobre 2019, ore 11:17

Care amiche e cari amici di JINWAR!
Grazie della vostra solidarietà e del vostro sostegno!
Le vostre voci le sentiamo dentro, veramente, e ciò significa molto per noi tutte. La situazione nel nostro paese è davvero gravissima. Lo Stato turco continua ad attaccarci senza sosta, ricorrendo ai mezzi d’annientamento più subdoli come il napalm e le armi chimiche a base di fosforo, che sono proibiti, e dispiegando poi tutta la propria potenza per attaccare le nostre zone. All’aggressione hanno preso parte, al fianco della Turchia, decine di migliaia di mercenari del Daesh e brandelli rimasti di Al-Nusra. Gli attacchi sfociano in massacri di civili.
Le nostre forze di difesa continuano valorosamente a infliggere duri colpi alle forze d’occupazione; molti hanno già dato la vita in questa eroica battaglia.
In quanto donne di Jinwar, a causa di tale situazione di pericolo ci siamo viste costrette ad abbandonare le nostre case.
Lo Stato turco bombarda la nostra regione, ogni giorno il cielo sopra Jinwar è solcato da aerei e droni militari. Anche questo fa parte della strategia d’occupazione turca: vogliono costringere la popolazione ad andarsene per facilitare i loro attacchi.
La situazione ha pesanti ripercussioni su tutte noi donne e bambine/-i di Jinwar, siamo preoccupate per il futuro nostro e dei nostri figli e figlie. Il nostro sforzo vitale quotidiano è stato interrotto, il nostro lavoro, tutto ciò che abbiamo costruito insieme finora, tutto è a rischio immediato di venire distrutto.
La nostra terra viene depredata, i nostri alberi vanno seccandosi – ma la nostra volontà, speranza, convinzione e fede in una società fondata su valori democratici e comunitari, la nostra forza di donne che si battono per la libertà, sono più forti che mai.
Siamo consapevoli che il nostro cammino è quello giusto: resisteremo e combatteremo, per tener vivo il fiume della nazione democratica.
Per tutte le donne, le madri e le/i bambine/-i del nostro villaggio la situazione è difficile: abbiamo dovuto lasciare le nostre case, le/i piccole/-i hanno paura, non sappiamo che cosa accadrà ora. Comunque, non abbiamo subìto lesioni personali e finora stiamo tutte/-i bene; ma s’avvicina l’inverno e la situazione si fa sempre più dura.
In questa situazione di dispersione abbiamo bisogno di sostegno e aiuto in qualunque forma, e questo vale per l’intera popolazione del Rojava.
Abbiamo bisogno del sostegno di tutte e tutti coloro che condividono i nostri princìpi: date appoggio all’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale, attivatevi contro l’occupazione turca.
Il morale rimane alto, la motivazione forte; continuiamo a vivere secondo i nostri valori, giorno dopo giorno, in ogni circostanza.
Rimaniamo unite e crediamo nel nostro popolo e nella nostra società ispirata ai suoi princìpi originali.
Soltanto l’unità e la lotta condivisa ci porteranno alla vittoria.
JIN JIYAN AZADÎ‼‼ DONNE VITA LIBERTÀ‼‼

https://www.casadonnemilano.it/un-resoconto-di-quanto-sta-accadendo-in-rojava/?fbclid=IwAR0YpQWHTWVdThqLqBiJAcsfuySwnMctBfiV7k6JxNkzLW-U8dmdNYazy5Y

martedì 22 ottobre 2019

Elena Linari, la calciatrice fa coming out: “L’Italia non è ancora pronta all’omosessualità”

La giocatrice della nazione femminile di calcio e dell'Atletico Madrid ai microfoni di RaiSpot precisa: "Qui in Spagna non ho nessun problema, anzi. In Italia sono io la prima ad aver paura di affrontare l'argomento perché non so come la gente potrebbe reagire"

“Nella mia vita privata devo essere libera di fare quello che voglio”. Parla della sua omosessualità la calciatrice della nazionale di calcio femminile e difensore dell’Atletico Madrid Elena Linari ai microfoni di RaiSport in un’intervista per Dribbling. Fa coming out, almeno in Italia: “A Madrid non ho nessun problema, anzi. In Italia sono io la prima ad aver paura di affrontare l’argomento perché non so come la gente potrebbe reagire. Ho paura del giudizio della gente”.

Calcio femminile, la ct della nazionale Bertolini: “Coming out di Elena Linari? Brava e coraggiosa, aiuta altri ragazzi che hanno paura a esprimersi”
Poi continua: “Tante volte si evita di mettere un post o cose del genere per evitare di coinvolgere altre persone perché ancora in Italia non siamo pronti. Ma poi diciamolo non è che nel calcio femminile fioccano le omosessuali, no proprio no. Gli omosessuali ci sono anche nel calcio maschile, negli altri sport e nella vita quotidiana”.

La giocatrice nell’intervista parla della sua famiglia: “È stato toccante quello che mi ha detto mia nonna quando lo ha saputo della mia omosessualità. Era contenta ma in lacrime mi ha detto: ‘Ho tanta paura per te perché non siete tutelate’. Sono scoppiata a piangere, ma di gioia perché a pronunciare queste parole è stata una nonna, una persona di 80 anni“. E conclude: “Quando si ha un figlio la cosa più importante è che sia felice. Se è felice con una relazione omosessuale non vedo dove sia il problema. È ovvio, ci potranno essere delle difficoltà, ma nella vita in generale le difficoltà ci sono”.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/18/elena-linari-la-calciatrice-fa-coming-out-litalia-non-e-ancora-pronta-allomosessualita/5522572/

lunedì 21 ottobre 2019

Dimenticare le curde rende fragile la nostra libertà di donne Livia Turco

No, non possiamo lasciare massacrare le donne e gli uomini del popolo curdo. Hevrin Khalef, la sua storia il suo impegno e la sua barbara uccisione ci appartengono.

E insieme a lei ci appartengono le migliaia di combattenti per la libertà, la democrazia, la dignità femminile. Dimenticarle o sentirle lontane rende fragile la nostra libertà di donne. L’appello lanciato qui dal gruppo “Se non ora quando libere” va raccolto.

Non solo per partecipare doverosamente alle mobilitazioni in corso ma per guardare più in profondità e capire che la lotta delle donne curde per la loro libertà è la conferma drammatica e concreta che la lotta per la libertà femminile non ha confini e deve nutrirsi del riconoscimento e della pratica della pluralità di culture e religioni. Perché in ciascuna di esse agisce da tempo la libertà femminile.

La battaglia accanto alle donne curde per la libertà, l’indipendenza, la democrazia e in particolare la lotta contro l’Isis dice a noi donne europee che l’orizzonte della nostra libertà e della nostra dignità passa attraverso questa pratica di relazione con donne di culture e religioni diverse, passa attraverso la scoperta dei luoghi nel mondo in cui agisce la libertà femminile per conoscerla e sostenerla.

Dobbiamo imparare a praticare nella nostra vita quotidiana questo allargamento del confine e il rapporto con la pluralità di culture e religioni. A partire dalle nuove italiane che vivono con noi e che nonostante tanti anni di convivenza restano a noi invisibili come le persone della porta accanto con le quali non ci siamo neanche poste il problema di costruire una relazione di conoscenza e di condivisione di gesti, parole e pensieri.

Ci sono obiettivi immediati che dobbiamo perseguire attraverso una azione europea come il cessate il fuoco, la sospensione immediata della fornitura di armi e l’embargo verso la Turchia, una efficace azione umanitaria.

Ma c’è un orizzonte nuovo da praticare ed entro cui scandire la nostra libertà di donne europee. Partendo dalla consapevolezza che il mito del confine, del guscio, della omogeneità culturale diventati paradigmi del pensiero e ingredienti del sentimento comune in questo nostro tempo sono veleno mortale per la libertà femminile.

Con le donne curde perché quel popolo abbia una patria e sia riconosciuto nella sua identità culturale e nella sua storia, perché sia sconfitto l’estremismo islamico, per la democrazia, la pace e la libertà.

Con le donne curde per costruire da donne un mondo nuovo, dai confini porosi, dal volto plurale, scandito dalla democrazia inclusiva e della convivenza.
https://www.huffingtonpost.it/entry/dimenticare-le-curde-rende-fragile-la-nostra-liberta-di-donne_it_5da5737fe4b08f3654901e5d?fbclid=IwAR2DgEwuMx3gTDTl3c8aGAn5rWgL9hI72tpQ-u1Jph9WA24Psr5o-xG1NeI

venerdì 18 ottobre 2019

Tutte le donne si uniscano contro la guerra turca in Siria Non basta dichiararci accanto alle curde. Ognuna di noi può fare la differenza. Non dimentichiamoci che «la storia del femminismo è intrecciata con il pacifismo». L'appello di Rosangela Pesenti.

L’attivista per i diritti delle donne Hevrin Khalaf è stata violentata e lapidata dai miliziani filo-turchi nel nord-est della Siria. Un nome tra i tanti ignoti e ignorati delle storie che ci sfuggono, tolte alla vita e alla civiltà da un attacco che mina anche la nostra vita e la nostra civiltà, soprattutto se non ce ne accorgiamo, se continuiamo a fare la nostra vita come se niente fosse. Non c’è parola per la miopia ipocrita dei nostri governi, l’insipienza collusa con i mercanti d’armi. Mentre Hevrin muore in modo atroce i profitti delle nostre economie vivono e noi con loro.

È cominciata l’ennesima guerra accanto a noi.Mentre le altre continuano ovunque. Osserviamo con sgomento l’insipienza dei governi democratici e temiamo l’ignavia del cosiddetto popolo sovrano. La storia del femminismo è profondamente intrecciata con il pacifismo e non basta dire che nessun conflitto è in nostro nome, non basta dichiararci accanto alle sorelle curde. Una dichiarazione ha valore quando è azione. Noi dobbiamo agire. L’emancipazione imitativa, alla quale siamo state indotte da scuola e società ha cancellato la lunga lotta dei movimenti femministi per la pace, la testimonianza delle donne che con le armi e senza armi hanno saputo salvare vite e territori inventando una democrazia dalla quale erano state originariamente escluse e una società civile in cui i diritti umani devono essere esigibili da tutte e tutti, di qualsiasi età e condizione. Assente dai programmi scolastici, censurato dalla grande informazione, reso sospetto alla pubblica opinione, il femminismo è comunque una grande cultura politica che sa trasmettersi di generazione in generazione. Perciò, forti della nostra esperienza politica quotidiana e orizzontale, dei cambiamenti che abbiamo determinato nelle nostre vite e in ciò che ci circonda, delle lotte combattute e vinte per il bene comune, noi donne, noi femministe, possiamo muoverci contro la guerra.

«La storia del femminismo è profondamente intrecciata con il pacifismo e non basta dire che nessun conflitto è in nostro nome, non basta dichiararci accanto alle sorelle curde».
Siamo la maggioranza della popolazione, conosciamo difficoltà e fatiche ma sappiamo come agire in ogni contesto perché ci sono stati momenti in cui ci siamo date la mano, donne diverse per età, provenienza, condizione sociale, sappiamo come ci si può mettere insieme ed essere determinanti. Invito tutte le donne che hanno un potere politico, economico, mediatico, sociale a fare un passo avanti insieme a tutte noi, moltitudini femminili che siamo farina e lievito della società civile, per trovare il modo di fermare questa guerra. Possiamo costringere i governi alla trattativa, le diplomazie ad un impegno inedito e innovativo, siamo minoranza negli organismi di potere ma possiamo contare su una maggioranza che sa agire in ogni luogo. Non è tempo di ritrosia o modestia o supponenza, non lasciamoci afferrare dallo scetticismo, dai dubbi, dal disincanto: la guerra, ogni guerra, chiama in causa tutta la nostra intelligenza politica perché riguarda la nostra stessa esistenza. Dal tempo di Lisistrata ad oggi possiamo ricordare e usare il patrimonio della nostra memoria storica per trovare il coraggio di mettere in campo le azioni più diverse ovunque siamo. Le donne consapevoli della propria storia di genere, che conoscono la storia politica di conquista invenzione ed esercizio dei diritti umani, civili e democratici, possono fare la differenza. Per questo le donne curde hanno fatto la differenza nel Rojava. Accogliamo gli uomini che vogliono agire per la pace come fratelli e compagni, ma sappiamo che la politica tradizionale non basta, non ci basta. Il tempo per mostrare la nostra forza collettiva è adesso. Appendiamo alle nostre finestre la bandiera della pace con un drappo rosa in onore delle sorelle curde, che ci hanno ricordato il nostro passato testimoniando con il loro sacrificio il valore del nostro comune futuro, oggi, nel presente.

Ecco, queste sono le parole della mia anima di vecchia femminista, scritte di getto dopo l’attacco turco in Siria. Parole che nascono da sentimenti autentici e diventano pura retorica, perché la lingua ci tradisce se diventa maschera che imbelletta la realtà e non riesce a cambiarla. I governi sospendono la vendita di armi a Erdogan. Bene, e prima dov’erano? Se non si sono resi conto dove portava la vendita di armi i nostri governanti europei, italiani compresi, sono stupidi, incapaci oppure falsi e ipocriti. Le donne curde stanno facendo quello che hanno fatto, in modi e tempi diversi, moltissime donne italiane tra il ’43 e il ’45 per salvare vite e territori e dopo, per più di 40 anni per conquistare la democrazia, eppure noi le abbiamo dimenticate, la scuola le ha ignorate, l’università rimosse, i media censurate, perfino alcune donne oggi preferiscono evitarne la memoria. Nel dopoguerra dell’Italia povera e devastata migliaia di bambini affamati si spostarono in case sicure e accoglienti, dal sud al nord, per sopravvivere a un difficile inverno. Sono stati chiamati 'treni della felicità' organizzati soprattutto dalle donne dell’UDI che hanno prontamente risposto all’idea lanciata a Milano da una delle nostre madri costituenti: Teresa Noce. Il tempo che viviamo è diverso: abiti, abitudini, abitazioni, tecnologia, comunicazione, tutto è cambiato, ma le armi uccidono sempre nello stesso modo e le case sventrate, le popolazioni in fuga, le donne stuprate, bambine e bambini morti si assomigliano sempre.

Noi oggi non abbiamo bisogno di prendere le armi, noi viviamo in case sicure e confortevoli, possiamo fare molto di più mettendo a disposizione molto meno di quanto ci serve per vivere, molto meno del nostro quotidiano superfluo. Mentre chiediamo il massimo impegno da parte della Comunità internazionale per interrompere il conflitto, far cessare gli attacchi militari e ogni disegno di persecuzione delle popolazioni che hanno diritto alla pace nei luoghi in cui sono nate e da cui hanno respinto l’Isis, possiamo ottenere prima di tutto e subito un corridoio umanitario per salvare bambine e bambini: sottrarli alla guerra significa togliere agli aggressori almeno l’arma della paura perché se i piccoli sono minacciati un popolo è più indifeso. Serve una grande organizzazione ma non più onerosa di quanto sia la guerra e noi europei abbiamo esperienza sia di guerra che di pace. Ne siamo anche capaci? Intanto che i governi decidono e le donne importanti cominciano a pensare come muoversi, noi donne che siamo più della metà del popolo sovrano possiamo organizzarci, coordinarci con tutte le associazioni possibili e senza nemmeno mettere il bollino identitario, solo per restare umane e umani, solo per il piacere di inventare il presente e aspettare con speranza il futuro, che comunque verrà. C’è un appello, di amministratori e amministratrici locali, facciamolo diventare piattaforma d’azione, opportunità di coordinamento: i governi devono fare la loro parte e noi, popolo della Repubblica nata dalla Resistenza, società civile variamente organizzata, possiamo fare la nostra. Riprendiamo e aggiorniamo le nostre affermazioni storiche: tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere e far vivere; fuori la guerra dalla storia, dai bilanci statali e dai profitti privati.
https://www.letteradonna.it/it/articoli/punti-di-vista/2019/10/14/guerra-in-siria-turchia-curdi/29177/?fbclid=IwAR3-B2wpSYgKbqCN5W3QQe2G0uWvIsomKpDCNMozJcaTxnQxbsa3w_GZE-U

giovedì 17 ottobre 2019

Le soldatesse dell'YPJ e il femminismo in Kurdistan Hanno combattuto l'Isis e adesso affrontano l'offensiva dell'esercito turco. In tutto questo, in quanto donne non hanno mai smesso di lottare contro il patriarcato.

Dopo aver lottato coraggiosamente contro l’Isis (poi sconfitto), ed essere diventate il simbolo della resistenza curda nel nord della Siria, le soldatesse dell’YPJ devono adesso fronteggiare l’offensiva dell’esercito turco, che ha invaso i territori del Rojava, abbandonati ormai dalle truppe statunitensi per decisione di Donald Trump. Il mondo sta seguendo la vicenda con il fiato sospeso: mentre già si contano morti e feriti, sono decine di migliaia i civili in fuga dalle zone di combattimento. Tra le tendenze di Twitter c’è #iostoconicurdi, e sono diversi i volti noti che hanno preso posizione.

COMBATTENTI PER LA LIBERTÀ
«Sono piena di ammirazione per queste ragazze, per queste donne curde che combattono non solo per difendere un territorio, ma per difendere la libertà del loro popolo e per i diritti che come donne hanno conquistato», ha detto Dacia Maraini intervistata dall’Huffington Post: «Loro sì che rappresentano un esempio, una speranza. Per questo chiunque di noi abbia una coscienza democratica, soprattutto noi donne, non possiamo non dirci ‘curde’ ed essere a fianco di queste straordinarie combattenti per la libertà». Nel corso degli anni, abbiamo anche conosciuto i nomi e i volti di queste donne, come Asia Ramazan Antar, Jihan Cheikh Ahmad e Ayse Deniz Karacagil. Erano pronte a morire, e in alcuni casi le abbiamo piante. Ieri come oggi, le soldatesse curde fanno parte della Yekîneyên Parastina Jin (YPJ), organizzazione militare fondata nel 2013 come brigata femminile dell'YPG, la principale forza armata del territorio autonomo de facto del Rojava.

GLI EFFETTI DEL FEMMINISMO CURDO
Le soldatesse curde, che combattono al fianco degli uomini e, addirittura, in autonomia, sono una diretta espressione del movimento femminista del Kurdistan o, meglio, dell’area desertica del Rojava. In questa striscia di terra nel nord della Siria, infatti, si è formata una società in cui regna la parità tra i generi, fondata sugli ideali del Pkk, da sempre a favore dell’eliminazione del patriarcato. Nell’area di Baghuz, che è stata l’ultima roccaforte dell’Isis in Siria, è stato emanato un decreto che equipara uomini e donne, «uguali in tutte le sfere della vita pubblica e privata», abolendo al contempo delitti d’onore e nozze forzate. Sempre nel Rojava sorge il villaggio di Jinwar, dove è nata una comunità autogestita di sole donne yazide, mentre a Qamishli, capitale non ufficiale del territorio, c’è un’università aperta a uomini e donne. Tutto ciò nel nord della Siria, dove i diritti delle donne sono tutt’altro che garantiti, al pari di ciò che accade in Turchia, dove vive la maggioranza (48%) del popolo curdo. Le quote rosa nell’YPG si aggirano attorno al 35%: quando osserviamo queste soldatesse, ricordiamoci che la guerra con i fucili non è l’unica che stanno combattendo.
www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2019/10/10/soldatesse-curde-siria-turchia/29171/?fbclid=IwAR3HtY6gAYhxyuojztLVwvzLYNL6v2WbWoHEPetW3ONVI3CP_8_0sGSY6oE

mercoledì 16 ottobre 2019

Noi donne europee non lasciamo massacrare le curde La lapidazione di Hevrin è un barbaro messaggio a tutte le donne, orientali e occidentali

Contributo inviato da SE NON ORA QUANDO-LIBERE

Violentata e lapidata. Ecco come ha concluso la sua giovane vita Hevrin Khalaf segretaria generale del Partito siriano del Futuro e attivista dei diritti delle donne. Nella guerra scatenata da Erdogan contro i curdi - per sradicarli definitivamente dalla loro terra e disperderli come i nuovi “palestinesi” del Medio Oriente - se ne combatte un’altra: contro le donne che osano affermare i loro diritti e la loro libertà. Il feroce, barbaro assassinio è un messaggio inviato a noi tutte: alle donne che vivono in quella zona martoriata e anche a noi, donne occidentali. A loro intima di abbassare la testa e scomparire dentro un burka, a noi dice che siamo politicamente insignificanti e inutili. Sì, da decenni in Occidente non si fa che parlare dei diritti delle donne, di volerli affermare, anche a costo di imporli con la forza, là dove vengono negati e violati, di farli valere qui, anche a costo di colpire e criminalizzare in modo indiscriminato religione e cultura islamica. Ma quando delle donne prendono in mano il loro destino e si battono per la loro libertà come hanno fatto e stanno facendo le donne curde allora l’Occidente, terra di diritti e libertà, gira la faccia dall’altro lato e le lascia massacrare, oggi dalle milizie di Erdogan e domani chissà da altri difensori dell’ordine patriarcale. Impunemente?

Ecco, noi donne occidentali, donne europee, le lasciamo massacrare impunemente? Lasciamo che quella fiammella di libertà femminile venga spenta e cancellata? Cosa possiamo dire e fare, qui e ora, perché nei giochi cruenti della geopolitica sia compreso anche il destino delle donne? Innanzitutto chiediamo ai governi europei e in particolare alle donne che ne fanno parte di adoperarsi per imporre il cessate il fuoco, chiedere l’immediato intervento dell’ Onu a salvaguardia delle popolazioni, di bloccare la vendita delle armi alla Turchia, e l’istituzione di un tribunale internazionale per crimini come quello consumato contro Hevrin. Chiediamo alle donne italiane ed europee di mobilitarsi in vista di una forte azione comune.


https://www-facebook.com/senonoraquandofanpage

www.cheliberta.it
https://www.huffingtonpost.it/entry/per-le-donne-curde-tutte-le-donne-europee_it_5da4aefae4b0400ea60f3f56?fbclid=IwAR13J7jViR01At1G57rjqqRp3jeQWJk4-yTHK_NeTBzhHcasbhFuY-BqbAA

martedì 15 ottobre 2019

Di amare non si decide, accade

VENERDÌ 18 OTTOBRE 2019 ORE 20.30 
 CENTRO CIVICO GIORGELLA
CORSICO
CON  CRISTINA OBBER E AGEDO 















La lettera delle donne curde al mondo: “A tutti i popoli che amano la libertà”La lettera delle donne curde al mondo: “A tutti i popoli che amano la libertà”

Il Consiglio delle donne curde della Siria del Nord e dell’Est ha fatto un appello a tutte le donne del mondo contro l’offensiva della Turchia nella loro regione, attraverso una lettera aperta che riportiamo di seguito

La lettera
Il titolo è: “A tutte le donne e ai popoli del mondo che amano la liberà”

“Come donne di varie culture e fedi delle terre antiche della Mesopotamia vi mandiamo i più calorosi saluti. Vi stiamo scrivendo nel bel mezzo della guerra nella Siria del Nord-Est, forzata dallo Stato turco nella nostra terra natale. Stiamo resistendo da tre giorni sotto i bombardamenti degli aerei da combattimento e dei carri armati turchi.
Abbiamo assistito a come le madri nei loro quartieri sono prese di mira dai bombardamenti quando escono di casa per prendere il pane per le loro famiglie. Abbiamo visto come l’esplosione di una granata Nato ha ridotto a brandelli la gamba di Sara di sette anni, e ha ucciso suo fratello Mohammed di dodici anni.
Stiamo assistendo a come quartieri e chiese cristiane vengono bombardate e a come i nostri fratelli e sorelle cristiani, i cui antenati erano sopravvissuti al genocidio del 1915, vengono adesso uccisi dall’esercito del nuovo impero Ottomano di Erdogan. Due anni fa, abbiamo assistito allo Stato turco che ha costruito un muro di confine lungo 620 chilometri, attraverso fondi Ue e Onu, per rafforzare la divisione del nostro Paese e per impedire a molti rifugiati di raggiungere l’Europa.
Adesso stiamo assistendo alla rimozione di parti del muro da parte di carri armati, di soldati dello Stato turco e jihadisti per invadere le nostre città ed i nostri villaggi. Stiamo assistendo ad attacchi militari. Stiamo assistendo a come quartieri, villaggi, scuole, ospedali, il patrimonio culturale dei curdi, degli yazidi, degli arabi, dei siriaci, degli armeni, dei ceceni, dei circassi e dei turcomanni e di altre culture che qui vivono comunitariamente, vengono presi di mira dagli attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria. Stiamo assistendo a come migliaia di famiglie sono costrette a fuggire dalle loro case per cercare rifugio senza avere un luogo sicuro dove andare.
Oltre a questo, stiamo assistendo a nuovi attacchi di squadroni di assassini di Isis in città come Raqqa, che era stata liberata dal terrore del regime dello Stato Islamico due anni fa con una lotta comune della nostra gente. Ancora una volta stiamo assistendo ad attacchi congiunti dell’esercito turco e dei loro mercenari jihadisti contro Serêkani, Girêsipi e Kobane. Questi sono solo alcuni degli incidenti che abbiamo affrontato da quando Erdogan ha dichiarato guerra il 9 ottobre 2019.
Mentre stiamo assistendo al primo passo dell’attuazione dell’operazione di pulizia etnica genocida della Turchia, assistiamo anche all’eroica resistenza delle donne, degli uomini e dei giovani che alzano la loro voce e difendono la loro terra e la loro dignità. Per tre giorni i combattenti delle Forze siriane democratiche, insieme alle YPG e alle JPY hanno combattuto con successo in prima fila per impedire l’invasione della Turchia e dei massacri. Donne e uomini di tutte le età sono parte di tutti gli ambiti di questa resistenza per difendere l’umanità , le acquisizioni e i valori della rivoluzione delle donne in Rojava. Come donne siamo determinate a combattere fino a quando otterremo la vittoria della pace, della libertà e e della giustizia. Per ottenere il nostro obiettivo contiamo sulla solidarietà internazionale e la lotta comune di tutte le donne e gente che ama la libertà.”
Richieste delle donne
- Fine dell’invasione e dell’occupazione della Turchia nella Siria del nord
- Istituzione di una No-Fly zone per la protezione della vita della popolazione nella Siria del nord e dell’est
- Prevenire ulteriori crimini di guerra e la pulizia etnica da parte delle forze armate turche
- Garantire la condanna di tutti i criminali di guerra secondo il diritto internazionale
- Fermare la vendita di armi in Turchia
- Attuare sanzioni economiche e politiche contro la Turchia
- Adottare provvedimenti immediati per una soluzione della crisi politica in Siria con la partecipazione e la rappresentanza di tutte le differenti comunità nazionali, culturali e religiose in Siria.

https://www.repubblica.it/esteri/2019/10/13/news/la_lettera_delle_curde_al_mondo_a_tutte_le_donne_e_ai_popoli_del_mondo_che_amano_la_libera_-238475465/?fbclid=IwAR05HF8S2RFUPe7jfCKHsH5UXPAs_WQNd5Zsuk-xesEovjDE1MwLVfH_V6w&refresh_ce

domenica 6 ottobre 2019

Sono una madre. Ho 3 figli. Sono andata dal dottore perché avevo perdita di memoria e difficoltà a concentrarmi. by geto

Il dottore mi dice che devo dormire 8 ore su 24.
Ho mal di schiena. L’ ortopedico dice che devo fare attività fisica regolare e pilates 2-3 volte a settimana.

L’ insegnante di mio figlio maggiore dice che il bambino ha bisogno che lo segua mentre fa i compiti.

Mio figlio minore  ha anche lui molti impegni,  compiti, riunioni scolastiche, incontri settimanali a scuola ed entrambi svolgono attività sportive  (aspettano ardentemente che li guardi, seduta sulle gradinate).

Il medico  di mio figlio più piccolo, l’allergologo,  dice che per la sua salute è necessario che io cucini cibi  freschi. Che devo comprare tutto fresco, cucinare in casa e al momento.  Ci vuole il doppio del tempo, per preparare tutto.  Mio marito e mio figlio maggiore dicono che il cibo del piccolo è poco gustoso e loro non vogliono quel pasto per cui devo cucinare altro per loro.

Gli esperti di istruzione e gli psicologi dicono che bisogna trascorrere  30 minuti al giorno con ogni bambini per uno sviluppo più armonioso.

Il pediatra ha detto che i due dovrebbero prendere il sole e passare quotidianamente un’ora nel parco all’aperto e che fa bene al cervello e al corpo intero.

Le fatture mensili dicono che devo lavorare tutto il tempo.

L’ esperto di istruzione e sviluppo dice che la cosa migliore è lasciare che i bambini giochino ed esplorino il mondo e che possono sporcarsi, anche quando questo significa lavare vestiti ogni giorno.

Lo specialista in terapia di coppia dice che i due coniugi devono uscire per un appuntamento romantico o che passino del tempo insieme 1-2 volte a settimana. La scienza dice che il sesso è vita è che le coppie armoniche lo praticano da 2 a 3 volte a settimana.

Le donne di carriera di successo dicono che una donna deve investire nelle proprie capacità, devono essere aggiornata e fare corsi e anche ritagliare del tempo per occuparsi del proprio aspetto, che si deve curare.

Lo psicologo dice che ho bisogno di tempo solo per me.

Quindi ora sto cercando un esperto di stregoneria che mi mostri come fa tutto in 24 ore.
http://www.tuttorete.info/2018/03/02/e-mi-dovrai-passare-anche-gli-alimentila-risposta-di-lui-e-davvero-incredibile/

giovedì 3 ottobre 2019

In Svezia arriva lo stipendio per i nonni

In Svezia i nonni vengono “stipendiati” dallo Stato, come incentivo ad occuparsi dei nipotini permettendo alla mamma di tornare al lavoro a tempo pieno. Un approccio opposto a quello italiano, che permette alle madri di allungare il periodo di maternità con salario ridotto al 30%.
Secondo quanto riportato dai media, lo stipendio che i nonni percepiranno sarà di circa 700€ mensili.
Da noi, i nonni non ricevono alcun sussidio e la proposta di introdurre un’agevolazione che permettesse ai nonni di detrarre le spese sostenute per i nipoti non è stata approvata. Anche il bonus baby-sitter, attivo fino al 2018 (che permetteva alle madri che rinunciavano alla maternità facoltativa di ottenere fino a 600€ mensili per sostenere i servizi di baby sitting, con la possibilità di assumere i nonni come baby-sitter) è stato abrogato.
L’approccio svedese parte dal presupposto che i nonni sono figure determinanti per l’educazione dei loro nipoti. I nonni – ma anche gli zii – sono alleati eccezionali per mamma e papà, non solo per dare una mano con l’accudimento dei bambini.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che non sempre i nonni ci sono e non è detto che siano disponibili: per questo, un bonus a spettro più ampio (proprio come il bonus baby-sitter abrogato quest’anno) sarebbe preferibile. Allo stesso modo, le madri che decidono di rimanere a casa e di accudire personalmente i propri bambini dovrebbero avere la possibilità di riscattare personalmente il bonus.
https://portalebambini.it/in-svezia-arriva-lo-stipendio-per-i-nonni/?fbclid=IwAR0Vt6LJHCmAzhMiGBXw4pASUd94Yv47xvQ_JbgKl0LJAYzYmSfOt3lIF5Q