mercoledì 30 luglio 2014

NOA Lettera aperta al vento Saluti dal nostro angolo del Medio Oriente, dove ultimamente si è scatenato l’inferno.

Terrorizzata, angosciata e depressa, frustrata, arrabbiata …. Ciascun’ondata emotiva concorre con l’altra per dominare sul mio cuore e sulla mia mente … nessuna ha la meglio, e io annego nell’oceano in ebollizione creato dal loro connubio.
C’è un allarme missili ogni ora da qualche parte vicino casa mia. A Tel Aviv, è anche peggio. Mio figlio e io oggi abbiamo fermato la nostra auto in mezzo alla strada e ci siamo precipitati in un vicolo vicino fino a che la sirena penetrante non ha smesso di suonare … alcuni minuti dopo abbiamo sentito tre fragorose esplosioni che hanno fatto tremare i muri. Nel Sud la situazione è insostenibile. Le loro vite laggiù sono giunte alla paralisi,  la loro sopravvivenza annientata; trascorrono la maggior parte del loro tempo nei rifugi anti bombe. In gran parte i missili sono intercettati dal nostro sistema di difesa, ma non tutti. Ogni civile è un obiettivo, i nostri bambini sono traumatizzati, le loro ferite emotive sono irreversibili.E i tunnel, scavati sottoterra, che raggiungono la soglia delle case di alcuni abitanti dei Kibbutz al confine di Gaza … negli oscuri meandri dei miei incubi immagino a cosa sono destinati: contrabbando, rapimenti, torture, omicidi …! I nostri soldati sono in prima linea. Vi sono nostri figli, figli di nostri amici e vicini, giovani uomini e donne dei questo paese chiamati al dovere dal nostro governo … e già, bare avvolte nella bandiera, funerali inondati dalle lacrime, vite distrutte, il Kadish, la sconvolgente ben nota routine.
E la gente di Gaza … oh Dio, la gente di Gaza … Cosa può esservi di più miserabile e orribile rispetto a quello che queste persone devono sopportare? Il loro destino sarà per sempre quello di soffrire per mano di crudeli tiranni? Le immagini dei bambini sanguinanti, le madri che piangono negli abiti macchiati di sangue, le macerie e la devastazione, il terrore nei loro occhi, cinque minuti al massimo per uscire dalle loro case, correre per sopravvivere perchè stanno cadendo le bombe .. nessun rifugio … la tattica dei talebani di Hamas da un lato e i bombardieri F16 dell'esercito israeliano dall’altro, queste persone sono tenute nella morsa come noci, schiacciate dalle spesse ganasce di metallo della cecità e stupidità umana! … il bilancio delle vittime continua a crescere … per amor di Dio .. per quanto tempo dovrà continuare tutto questo?
Gli uomini di Hamas sono estremisti, sono Jihadisti, sono pericolosi, il loro scopo è di uccidere ogni Ebreo, me e i miei figli compresi. Non riconoscono Israele, hanno intenzione di trasformare tutti gli abitanti di Gaza in martiri usandoli come scudi umani ... abbiamo sentito tutto. Abbiamo sentito Hannia e i suoi seguaci, ed è probabilmente tutto vero, per quanto possa esserci alcuna verità …
Ma ogni uomo, donna e bambino è da condannare per l’amara, orribile follia di entrambe le parti??
Io ascolto Naftali Bennet che parla alla CNN e spiega freddamente come quelli di Hamas sono terroristi e noi abbiamo tutto il diritto di difenderci, il che è vero … Aspetto, pazientemente, una sua espressione di dolore, un suo rammarico per la perdita di vite innocenti … ma non arriva alcuno di questi segni. E mi dico: hai dimenticato che rappresenti un’intera nazione? Hai dimenticato gli insegnamenti fondamentali della tua religione? Vergognati! Per te sono morte persone innocenti, uomini donne e così tanti bambini...anche se non intendevi farlo! E sì, quelli di Hamas continuano con la loro orribile retorica intrisa di sangue, la loro crudele spavalderia a spese dell’infelice gente di Gaza … loro non nascondono il loro piano scellerato! Loro INTENDONO portare alla morte gente innocente! Non vi è dubbio che c’è un posto speciale all’inferno per gente del genere, e la storia ne è piena. Ma questo non ci esime dall’obbligo di comportarci come esseri umani, a meno che il nostro scopo non sia quello di una metamorfosi che ci trasformi nella terrificante identica imagine dei nostri più pericolosi nemici.
Noi , Palestinesi e Israeliani allo stesso modo, non abbiamo “mai perso l’opportunità  di perdere un’opportunità di fare pace”. Abbiamo creato questo disastro con le nostre mani e stiamo pagando il terribile prezzo per la nostra arroganza e sorda stupidità.
È facile puntare il dito e diventare estremamente auto-difensivi quando le bombe cadono... ogni parte si rifugia nel proprio cantuccio, restando vicina alla propria gente, incolpando l'altra...
Il mio cuore va alle famiglie delle vittime dovunque esse siano. Sono felice di avere un esercito israeliano forte che mi difende da quelli che affermano chiaramente che il loro scopo è quello di tagliare la gola ai miei figli … MA non voglio usare la mia tristezza e paura come uno scudo che mi separi dall’empatia umana e dal ragionamento lucido. Al contrario, voglio fare l’opposto.
Voglio stare nell’arena e pronunciare la mia verità.
Vi sono solo due parti, e queste non sono Israeliani e Palestinesi, Ebrei e Arabi. Sono moderati ed estremisti. Io appartengo ai moderati, dovunque essi siano. Sono loro la mia fazione. E questa fazione ha bisogno di essere unita!! Io non ho niente di niente in comune con gli estremisti Ebrei che bruciano vivi I bambini, avvelenano pozzi e sradicano alberi, che scagliano pietre ai bambini della scuola, che sono motivati da un odio frutto del lavaggio del cervello, e da acuta arroganza. Voglio nascondere la testa nelle mie mani e scomparire, sulla luna se è possible, quando leggo I sermoni dei Rabbini Ginsburg e Lior, che mitizzano la morte e l’uccisione in nome di Dio così come fece Baruch Goldstein, il loro sacro martire, che ha ucciso 29 Arabi a sangue freddo mentre stavano pregando!... Quando leggo le incredibili parole di razzismo e di odio scritte da qualche mio concittadino israeliano, i pianti di gioia quando vengono uccisi bambini palestinesi, il disprezzo per la vita umana!!... Il fatto di condividere lo stesso passaporto e la stessa religione non significa nulla per me. Non voglio avere niente a che fare con queste persone.
Allo stesso modo, gli estremisti sull’altro fronte sono pure i miei acerrimi nemici. Ma la loro collera è rivolta non solo contro di me ma contro i moderati della loro stessa società  … ciò ci rende tutti fratelli armati!
Così come esorto I moderati arabi, dovunque siano, a fare tutto ciò che è in loro potere per respingere l’estremismo, non ho alcuna intenzione di chiudere gli occhi di fronte alle responsabilità che devono essere assunte dalla mia parte per il disastro che si sta verificando. L’Islam radicale è un fenomeno pericoloso che deve essere affrontato non solo da Israele, ma dal mondo intero. Ma vi sono nel mondo musulmano voci più liberali, vi sono partner per il dialogo! Abbiamo davvero fatto tutto ciò che è in nostro potere per aprire un dialogo con loro?
La risposta è NO, abbiamo fatto il contrario. Il governo attuale guidato da Netanyahu ha fatto tutto ciò che era in suo potere per reprimere qualunque tentativo di riconciliazione. Ha indebolito e offeso Abu Mazen, leader della più moderata OLP, che ha affermato più volte di essere interessato alla pace. Quando Abu Mazen ha fatto delle dichiarazioni sull’Olocausto, definendolo la più grande tragedia della storia umana, l’hanno schernito e screditato. Non hanno rispettato accordi che loro stessi avevano sottoscritto, rifiutando di rilasciare prigioneri che avevano già pattuito di rilasciare, preferendo continuare l’oltraggiosa ed esasperante costruzione degli insediamenti come se non vi fossero stati negoziati. È come schiaffeggiare qualcuno, ripetutamente, mentre nello stesso tempo innocentemente gli si dice: “Facciamo pace! Non vedi quanto voglio la pace? Perchè non stai collaborando?”
E cosa dire dell’iniziativa di pace della Lega Araba? Perchè è stata sempre costantemente ignorata dal governo israeliano? Proprio di recente, in un gesto di buona fede senza precedenti, un ufficiale illustre dell’Arabia Saudita ha scritto un articolo su di un quotidiano israeliano, che esprimeva il suo desiderio di pace!! È rimasto inosservato! Questo comportamento può essere solo descritto come riprovevole e arrogante.
Quali folli forze messianiche accecano questi politici e il loro elettorato? Quale sindrome biblica di Joshua? Cosa stanno pensando, che pian piano domineranno i territori occupati sino a quando non vi sarà alcun modo di creare lo Stato palestinese? Che cosa sarà di tutti i palestinesi che vivono lì, delle loro aspirazioni, della loro storia? Che cosa sarà del loro benessere, dei loro sogni, delle loro speranze, del loro futuro? Vivranno semplicemente, come un lieto fine, come cittadini di seconda classe, o forse si convertiranno in massa al giudaismo? Qual è il piano?
Non c’è alcun piano, alcuna visione moralmente compatibile con valori universali, un desiderio di creare coesistenza: o almeno niente del genere è stato presentato in modo coerente alla nostra gente. Al suo posto, siamo nutriti di paura costante e paranoia, e si stanno alimentando le fiamme del nazionalismo, coltivando xenofobia e razzismo. Di fatto questi politici stanno deteriorando Israele a un ideologico e strategico punto di non ritorno.
Solo il dialogo da una posizione di rispetto e di empatia può salvarci.
Solo uno sforzo concertato per  rafforzare i moderati e, di conseguenza, marginalizzare quanto più è possibile gli estremisti può procurarci un po' di speranza.
Per quanto noi in Israele disprezziamo giustamente Hamas, non sembra che si vada da nessuna parte. Abbiamo seriamente preso in considerazione le loro condizioni per un cessate il fuoco? Molte di esse hanno un senso!
Perché non cercare di alleviare le sofferenze degli abitanti di Gaza, consentire loro di svilupparsi economicamente, restituire dignità alle loro vite ed ottenere un cessate il fuoco di dieci anni? Dieci anni è un sacco di tempo!
Le menti giovani possono aprirsi. Persino una modesta prosperità economica può fare da catalizzatore per il cambiamento! Perché diamo per scontato che questi anni verranno usati solo per rafforzare il potere militare di Hamas? Le condizioni includono una supervisione internazionale. Forse gli anni creeranno una situazione in cui Hamas, con una generazione di leader più giovani che vedono un orizzonte diverso, verrà trascinata all'interno del circolo della politica in un modo che consentirà, finalmente, di aprire un dialogo?
Io chiedo a me stessa ed a Netanyahu: perché non sorprendiamo noi stessi?! Netanyahu, si dice che tu sia un uomo intelligente: perché non fai un'inversione a 180 gradi, cambi le regole del gioco, pensi fuori dagli schemi? Da' il benvenuto ad Abu Mazen, smetti di costruire gli insediamenti, sostieni il governo di unità, apri Gaza e consenti il commercio con la supervisione internazionale. Abbraccia le aspirazioni palestinesi unitamente alle nostre, accogli l'intervento internazionale e guadagna un vero alleato contro l'estremismo? Scacco matto!
Abbiamo davvero compiuto tutti questi sforzi, prima di mandare a morire i nostri soldati? E' triste, ma la risposta è no.
Nessuno sta smantellando l'esercito israeliano, che resterà forte. Ma allora perché ci rifiutiamo testardamente di correre questo rischio calcolato, preferendo piuttosto il sacrificio dei nostri figli? E' una cosa che va oltre ogni mia comprensione.
Ad Akedat Yitzchak, Dio è intervenuto salvando il bambino. Dov'è Dio, adesso? E' forse divenuto indifferente a causa dell'abominio che è stato fatto dei suoi sacri insegnamenti dagli estremisti di ambo le parti?
Se ci rifiutiamo di riconoscere i diritti di entrambe le parti e di farci carico dei nostri obblighi, se ciascuno di noi rimane aggrappato alla propria versione, con disprezzo e inosservanza di quella dell'altro, se continuiamo a preferire le spade alle parole, se santifichiamo la terra e non le vite dei nostri figli, saremo presto tutti costretti a cercare una colonia sulla Luna, perché la nostra terra sarà così zuppa di sangue e così intasata di lapidi che non vi resterà più niente per vivere.
Io ho scritto queste parole e le ho cantate insieme alla mia amica Mira Awad. Oggi sono più vere che mai:

“When I cry I cry for both of us, 
("Quando piango, piango per tutti e due)
My pain has no name. 
(Il mio dolore non ha nome.)
When I cry, I cry to the merciless sky and say: 
(Quando piango, piango rivolta al cielo spietato e dico:)
There must be another way” 
 (Dev'esserci un'altra via)

martedì 29 luglio 2014

"Basta femminismo" la sfida delle ragazze Ma le madri insorgono "La vostra è ignoranza" FEDERICO RAMPINI

COME la campagna Why we need feminism, «Perché abbiamo bosogno del femminismo». Tra i primi a capire l'importanza del fenomeno, sono due superblog creati da donne, The Daily Beast fondato da Tina Brown e The Huffington Post di Arianna Huffington.
 Il primo reagisce con un titolo sferzante rivolto alle giovani: «Voi non odiate il femminismo. Semplicemente non lo capite».
 La Huffington affida uno dei commenti di punta a Lynsi Freitag, scrittrice e militante per i diritti umani: «Quello che sta accadendo è importante. È frutto dell'ignoranza. È anche colpa nostra, se non abbiamo spiegato cos'è il femminismo… alle donne!». Prosegue spiegando perché lo slogan "anti—" è un errore grave. L'eguaglianza resta una battaglia attuale, anche in America. Che si tratti delle retribuzioni sul lavoro, della rappresentanza politica, del peso imprenditoriale, «è davvero terribile se passa l'idea che il femminismo è superato, obsoleto».
Ma questa è l'America di Hillary Clinton, Michelle Obama, Sheryl Sandberg (Facebook), quarantenni, cinquantenni, sessantenni all'apice del successo professionale. Qui sono concepibili traguardi impensabili ai tempi delle femministe storiche come Betty Friedan, Germaine Greer.
Tra le giovani, pesano anche degli scandali che fanno male,

 Time ricorda i casi di studentesse che in preda all'alcol hanno rapporti sessuali con compagni di università poi si pentono da sobrie, denunciano lo stupro, e la giustizia è sempre dalla loro parte.
 Ci sono i "club delle seconde mogli" che attirano l'attenzione sui pochi diritti dei padri divorziati, spesso privati di ogni rapporto con i figli.
Scatta anche un fastidio verso quegli stereotipi che descrivono forme di lotta violente, un femminismo irato, acido o rancoroso. Proprio in questi giorni riemergono sulle pagine del New York Times le foto "Wanted" che la polizia di New York pubblicava per indicare le suffraggette ricercate, accusate di reati in occasione delle manifestazioni del primo Novecento per il diritto di voto. Curiosamente, è come se quelle foto di un secolo fa s'incollassero alle immagini successive, quelle delle manifestanti per l'aborto negli anni Sessanta. Quasi che certe ragazze di oggi ricordino solo l'aspetto sgradevole di quelle battaglie, sorvolando sui risultati.
Il movimento "donne contro il femminismo" è stato preceduto, da altre fratture. Da tempo le chiese evangeliche, i cristiani rinati, i fondamentalisti della destra religiosa americana hanno fatto breccia anche tra giovani donne, esiste un filone anti-abortista tra le ragazze che attaccano il femminismo. Altre forme di ripensamento sono più sottili perché vengono dalle punte avanzate dell'emancipazione femminile. Ha creato uno shock il saggio di Anne-Marie Slaughter pubblicato sulla rivista progressista The Atlantic con il titolo «Perché le donne non possono avere tutto ». La Slaughter è una femminista-realista, brillante intellettuale, docente universitaria, collaboratrice della Clinton al Dipartimento di Stato, in quell'articolo ha consegnato una descrizione sofferta di quelle donne in carriera che cercano di unire al successo professionale il matrimonio perfetto, la maternità esemplare, l'educazione impeccabile dei figli, la cura estetica del proprio corpo. Poi c'è stato il "caso Mayer", quando la chief executive di Yahoo Marissa Mayer dopo il parto decise di accorciarsi la maternità a poche settimane. Caso pubblicizzato a oltranza, da lei stessa. Creando un precedente tremendo, una pressione inaudita sulle sue dipendenti. Se vuoi essere una donna appagata devi trasformarti in Superwoman? La giornalista Cathy Young su Time dà il giudizio più accurato su questo nuovo movimento. È sempre esistito un anti-femminismo al femminile: ricorda la Young, veniva dalle donne che difendevano un ruolo tradizionale, "casa e Chiesa". Ma nel fenomeno Women Against Feminism la Young vede «tante ragazze che fanno le domande giuste, non sopportano gli stereotipi che riducono tutti gli uomini a predatori e tutte le donne a vittime». «Un vero movimento per l'eguaglianza — conclude l'analisi su Time — dovrebbe proteggere le vittime della violenza domestica anche quando sono uomini. Dovrebbe sostenere sia le donne che gli uomini nei loro diritti come lavoratori, e come genitori».

domenica 27 luglio 2014

Non scherzate col fuoco, i diritti vanno difesi. E molto resta da fare Articolo di Nadia Urbinati

Non da oggi, la diaspora è una caratteristica dei movimenti di emancipazione soprattutto quando le loro lotte hanno registrato successi.
 «Il femminismo non serve più», è «una cultura tossica», dicono le giovanissime che hanno dato vita a Women Against Feminism . Vogliono essere «individui e basta ».
 Possono dirlo perché c’è stato il femminismo e i giudici e le corti sono molto sensibili ai temi della discriminazione di genere. Per questo nelle facoltà di legge le diplomate hanno sorpassato i diplomati. È comprensibile che le ragazze sentano insopportabile il peso della differenza; ma c’è il rischio che anche qui succeda quel che è successo per le classi lavoratrici, che hanno visto cancellati i diritti di tutela del lavoro in cambio di nulla.
 Si può capire il senso di liberazione che hanno le giovani ribelli quando dicono di potersela cavare da sole.
 Ma la recrudescenza della lotta sociale dovrebbero far pensare che i diritti non sopravvivono da soli, senza la loro sorveglianza. E poi, le cose non vanno proprio così bene: spesso gli stipendi delle donne sono a uguale produttività meno alti di quelli dei colleghi maschi, e la presenza femminile diminuisce più si sale la scala gerarchica
 Non scherziamo col fuoco care ragazze: quando si tratta di combattere per una carriera mai acquisita, di contrattare un tempo di lavoro più elastico per chi voglia godere della libertà di fare figli, la legittima volontà di essere eguali si scontra con una realtà recalcitrante all’eguale opportunità.
 Siamo proprio certe che «amo cucinare per il mio uomo e pulire la casa» non si riveli una trappola mortale per cui, oltre alle pentole e all’aspirapolvere resta molto poco e quel che resta ha anche minor valore sul mercato?

sabato 26 luglio 2014

Molto estivo e ricorrente arriva puntuale anche quest’anno il ‘caso’ del ‘movimento di donne contro il femminismo’


 Dopo le ormai ‘storiche’ pagine facebook, per non dire dei siti antifemministi che identificano chiunque lotta per i diritti di genere, o contro la violenza maschile, come misandrica e nazifem ecco servito l’hashtag in lingua inglese #‎womenagainstfeminism, al quale va aggiunto, per la cronaca, quello #WhyIDontNeedFeminism.


Women-against-feminism

Non è da oggi che si indaga sull’impatto, la trasmissione e la sedimentazione del femminismo sulle giovani generazioni; le domande, (e l’angoscia per le temute risposte), scivolano di volta in volta da donna a donna quando le giovani che hanno incontrato i movimenti di emancipazione e liberazione diventano adulte, e nel frattempo si guardano intorno, verificando i risultati e l’incarnazione delle proprie conquiste nelle figlie, nelle sorelle minori, nelle allieve, nelle conoscenti e nella società tutta.

Quando, oggi come ieri, s’inciampa nella giaculatoria del ‘il femminismo è morto’, o, come in questo caso, del ‘io non ho bisogno del femminismo’ è interessante ragionare su quale sia la genesi di queste affermazioni, e lo scopo che hanno. Una prima considerazione è che la banalizzazione di ogni pensiero è sempre in agguato, frutto dell’ignoranza e della superficialità, a sua volta indotte dalla velocizzazione dell’era tecnologica.

Libere di dire che non c’è bisogno del femminismo: ma è ridicolo ignorare che, se milioni di giovani donne oggi esprimono una loro opinione (non ancora dovunque nel mondo, dove altrettante milioni non possono farlo, e se ci provano rischiano anche la morte) questa libertà è decisamente frutto del femminismo.

In molti dei cartelli delle giovani contestatrici (che adottano le identiche modalità delle sorelle profeminism, come in questo progetto) c’è la confusione tra diritti ottenuti (prima inesistenti, come la parità sul lavoro, in famiglia, il divorzio, o l’interruzione di gravidanza) e la prevaricazione: avere pari diritti e doveri non è voler male all’altro. Significa poter esistere senza essere considerate una appendice, una brutta copia o una declinazione imperfetta rispetto all’originale (il maschile).

Nella superficiale strumentalizzazione della comunicazione di cosa sia il femminismo (e di chi siano le femministe) c’è un punto che penso sia centrale: molte delle giovani che si dicono antifemministe sostengono di esserlo perché non si sentono vittime. Mi pare che questo sia importante: non far sentire le donne come vittime, come fragili, come deboli e necessitanti tutela è stato uno tra i primi scopi del percorso femminista.

Per quanto ingrate e ignoranti nel liquidare la fatica di chi le ha precedute (ma anche da compatire, perché ignare della bellezza, del divertimento e della magica condivisione che le maggiori hanno potuto apprezzare stando nel femminismo, dicendosi femministe, e continuando ad esserlo) queste giovani piene di iniziativa sono le migliori (inconsapevoli, come spesso accade alle figlie ingrate) testimoni del successo del femminismo.

Così come in maniera gioiosa si dicono femministe molte giovani (e anche qualche uomo) nel video del più grande giornale femminista al mondo, Ms magazine anche le antagoniste sono libere di dirsi.

In questo caso di dirsi contro un pensiero di liberazione, quale il femminismo è: dal mio punto di vista farlo è rischioso perché poco vale la libertà individuale se non la si connette con la responsabilità sociale delle proprie azioni. Altro punto debole del rifiuto del tesoro di diritti acquisiti è la fiducia incondizionata nella sola soggettività individuale e la negazione del valore del collettivo, quindi della storia sociale delle donne e della genealogia politica dalla quale si proviene, ma sempre di libertà si tratta. E, per una femminista, vederla praticata da giovani donne, per quanto in direzione opposta, è una bella vittoria.

venerdì 25 luglio 2014

India: è ancora lunga la strada verso la parità di diritti Simona Lanzoni

Le violenze verso le donne e le bambine in India ci sono da sempre. Il National Crime Records Bureau (NCRB) stima che ogni 22 minuti una donna subisce violenza, su una popolazione femminile complessiva di oltre un miliardo e 200mila persone. La differenza è che ora se ne parla e che lo fanno anche gli uomini.
Un’amica mi chiama al telefono: “Non se ne può più, ma perché si sentono così spesso queste notizie di violenza in India? Cosa hai da dire? Cosa ti hanno detto le donne, visto che sei tornata da poco dalla visita dei progetti di Fondazione Pangea a Calcutta?”.
Da queste domande nasce la necessità di scrivere, di nuovo, in merito alla questione della violenza sulle donne e sulle bambine in India, che negli ultimi due anni viene spesso riportata anche nella cronaca dei media internazionali.
È proprio di questi giorni la notizia di una giovane novizia di 17 anni violentata da un gruppo di uomini, nella città di Bangalore. Sempre nella stessa città, in una scuola esclusiva, una bambina di sei anni è stata violentata da una guardia di sicurezza e da un insegnante di ginnastica.
I genitori lo hanno scoperto perché la figlia lamentava dolori allo stomaco e per questo è stata portata in ospedale. Due uomini sono attualmente indagati.
Fuori dalla scuola si sono scatenate le proteste: centinaia di genitori hanno abbattuto le porte, gridando slogan di indignazione. Il preside della scuola, ha affrontato i familiari degli alunni in una riunione, offrendo "sincere scuse" e promettendo “piena collaborazione” con la polizia nelle indagini.
Contemporaneamente, una ragazza è stata violentata e poi assassinata in una scuola media statale nello Stato settentrionale dell’Uttar Pradesh. La polizia ha trovato il suo corpo fatto a pezzi fuori dai locali dell’istituto. Secondo l’indagine preliminare, questo sarebbe un caso di stupro di gruppo.
La scorsa settimana, una ragazza di 14 anni è stata trascinata in un bosco e violentata per ordine dei capi del consiglio del villaggio, nel remoto Stato del Jarkhand, nell’India orientale, come gesto di rappresaglia per un assalto sessuale attribuito al fratello della giovane.
Nel mese di giugno sono passate sotto gli occhi di tutto il mondo le immagini delle due sorelle di 12 e 14 anni appartenenti a una casta bassa, fermate mentre andavano verso i servizi igienici, violentate e impiccate su un albero di mango da un gruppo di uomini nell’Uttar Pradesh.
La lista delle violenze efferate potrebbe continuare. Le violenze verso le donne e le bambine in India ci sono da sempre. Il National Crime Records Bureau (NCRB) stima che ogni 22 minuti una donna subisce violenza, su una popolazione femminile complessiva di oltre un miliardo e 200mila persone. Le associazioni incontrate in India mi dicono che la realtà è anche peggiore, ma questo dato rende già l’idea dello stato di impunità che imperversa nel Paese rispetto a questo fenomeno.
L’unica grande novità è che finalmente se ne parla, ma ci sono forti critiche sul linguaggio che viene utilizzato, specialmente dai media. Inoltre alcune prese di posizione di governi esteri, generate dall’eco internazionale suscitato dai recenti fatti di cronaca, sono spesso giudicate inadeguate da quante lavorano sul problema da molti anni.
“ Ho letto un tweet in cui si dice che gli USA aiuteranno l’India a prevenire la violenza, ti rendi conto? Come se a casa loro non accadesse.” ci dice un’attivista. “ Sai cosa si è ottenuto dopo il femminicidio delle due sorelline nell’Uttar Pradesh? Il governo indiano si è impegnato a fornire servizi igienici ed energia elettrica in ogni casa che ne è sprovvista, investimenti economici. Hanno detto: L’India non deve tollerare l’umiliazione di case senza servizi igienici.”
Non si parla di diritti e nemmeno di indipendenza delle donne. Nel frattempo, aumentano le restrizioni, dall’abbigliamento alla libertà di movimento, e cresce la preoccupazione dei genitori per le proprie figlie, anche solo per andare a scuola.
La percezione che le donne hanno negli ultimi tempi è che nessun luogo è sicuro, neanche la famiglia.
Le realtà associative e le attiviste continuano quotidianamente il proprio lavoro a sostegno di donne, bambine, intere famiglie che si rivolgono loro per chiedere come denunciare, proteggere, curare.
Mi raccontano che le vittime di stupro e violenza in India spesso ricevono minacce e forti intimidazioni da parte degli assalitori, dalle loro comunità e famiglie di appartenenza.
È la stessa polizia che spesso scoraggia le vittime dal denunciare.
Tutte desidererebbero una forte dichiarazione di condanna di questi atti da parte di Modi (il nuovo Primo Ministro indiano) che ancora non è arrivata – o non così incisiva come si vorrebbe - per poter avere maggiore autorevolezza nel pretendere il rispetto dei propri diritti davanti alla polizia, negli ospedali e per affrontare la vergogna che accompagna le vittime nei contesti comunitari.
È un momento di grande trasformazione in India e sicuramente la problematica diffusa della violenza è un argomento che volenti o nolenti va affrontato. Le donne negli anni hanno dato esempio di resilienza, di capacità e di forza, non si può continuare a considerare questo fenomeno solo una questione relativa alla sicurezza personale.
Il processo di cambiamento profondo che si è avviato, sta mettendo in discussione la maniera di relazionarsi tra i generi e vuole modificare le radici profonde della discriminazione che ancora oggi avvalla la “cultura dello stupro” a ogni livello, dai politici ai mendicanti.
Questo percorso è tinto del sangue delle donne, e gli uomini ne sono profondamente coinvolti. Molti sono scesi in piazza e questo è un primo segnale di trasformazione, ma c’è ancora una lunga strada da percorrere insieme. Forse non si devono aspettare risposte dal vertice della politica, ma vanno costruite dal basso e chi meglio della popolazione in India potrebbe farlo?
A Calcutta Pangea sta sviluppando un programma che prevede tra le diverse attività un percorso di consapevolezza alla violenza sulle donne e sulle bambine disabili. Le attività svolte mirano a sviluppare nelle beneficiarie la fiducia in se stesse e le informano su come e cosa fare per affrontare la violenza, per dare risposte concrete e arginare lo stigma della disabilità e della discriminazione di genere. Piccoli grandi esempi di un Paese che cambia.

Simona Lanzoni
Vice Presidente di Fondazione Pangea Onlus

giovedì 24 luglio 2014

Storie di ordinaria discriminazione: A Trento una professoressa viene allontanata dalla scuola in cui ha lavorato per cinque anni. Il motivo? Sospetta omosessualità.: “Fare dipendere il rinnovo del contratto dal mio orientamento sessuale ha leso i miei diritti di cittadina e di insegnante”


I fatti in breve: un’insegnante non smentisce la sua presunta omosessualità e per questa ragione non le viene rinnovato il contratto di lavoro. Dall’intervista di ieri (lunedì 21) su La Repubblica: “È la domanda che mi ha fatto la madre superiora a essere offensiva, perché ha leso i miei diritti di cittadina e di insegnante. Forse sono lesbica, forse non lo sono. Ma chiedermi di smentire voci sul mio orientamento sessuale, e far dipendere dalla risposta il rinnovo del contratto, è stato inaccettabile. Come se fosse normale indagare sotto le lenzuola dei dipendenti”. È successo in un istituto cattolico privato di Trento, che si è difeso affermando che la decisione è stata presa in seguito alla necessità di ridurre l’organico. Tuttavia, a quanto pare, una via di fuga la docente l’aveva (che non si dica che le suore non siano magnanime): ammettere di essere omosessuale e sottoporsi a un trattamento di “riabilitazione”. Se ti curi ne possiamo parlare, insomma. Sembra una scena di Sister act, con la madre superiora arcigna e altezzosa che accoglie malvolentieri in convento una showgirl perseguitata da alcuni sicari che vogliono farle la festa. Solo che nel film finisce che tutti cantano come degli invasati ebbri di felicità, mentre in questo caso si gioca a bowling con la dignità personale altrui.
E se il problema non fosse delle suore, “ma di uno stato laico e aconfessionale che finanzia le loro scuole”? Un’ipotesi plausibile corroborata da una linea di vedute comune con la frangia cattolica più rigida: già diversi anni fa l’allora leader di AN Gianfranco Fini aveva dichiarato che un gay non può fare il maestro perché è diseducativo per i bambini e come lui - ne era sicurissimo - la pensano il 95% degli italiani. Il punto è che il diritto al rispetto dei diversi orientamenti sessuali dovrebbe essere costituzionalmente protetto ma, al contrario, continua ancora ad essere oggetto di un’interpretazione granitica e assolutista del cristianesimo.
Nel 1978 Harvey Milk (su cui Gus Van Sant ha girato il film con Sean Penn protagonista), bandiera dei diritti civili omosessuali, riuscì in un mezzo miracolo: attraverso un’estenuante e militante campagna elettorale fece bocciare la cosiddetta “Proposizione 6”, un referendum statale californiano che chiedeva il licenziamento di tutti gli insegnanti gay. La spuntò ma venne assassinato poco tempo dopo. Non è allora inconsueto ragionare in questo senso: il giorno in cui la pertinacia non verrà più punita con il martirio o con la defenestrazione dalla vita pubblica potremmo fare un passo deciso verso quello sfuocato concetto di “civiltà”, civiltà di cui facciamo parte e che abbiamo il dovere di difendere.
 

“Fare dipendere il rinnovo del contratto dal mio orientamento sessuale ha leso i miei diritti di cittadina e di insegnante”
"È la domanda che mi ha fatto la madre superiora a essere offensiva, perché ha leso i miei diritti di cittadina e di insegnante: ma chiedermi di smentire voci sul mio orientamento sessuale, e far dipendere dalla risposta il rinnovo del contratto, è stato inaccettabile”.

L’insegnante dell’istituto Sacro Cuore di Trento a cui non è stato rinnovato il contratto di lavoro dopo cinque anni di insegnamento espone con fermezza le sue ragioni al cronista Fabio Tonacci di Repubblica: ne riportiamo alcuni passi.

“...Forse sono lesbica, forse non lo sono”. Nessuna risposta ha dato a suor Eugenia Libratore la direttrice e nessuna darà a chiunque.
"La direttrice aveva sentito delle voci secondo le quali io avrei una compagna e, testuale, "siccome devo tutelare questo istituto cattolico e c'è da rinnovare il suo contratto", mi ha chiesto di smentire o confermare quelle voci".
"Ero disgustata. Poiché non avevo intenzione di svelare niente, suor Eugenia ha osservato che 'stavo dimostrando la fondatezza delle voci'. Sembrava mi volesse umiliare. Stavo per andarmene e a quel punto lei prova a rimediare, facendomi capire che era disposta a chiudere un occhio se avessi dimostrato di voler 'risolvere il problema'. Non c'ho visto più... l'omosessualità è un problema? Ammesso che sia gay, dovrei guarire da qualcosa? Le ho risposto che è una razzista, e che deve riflettere sul concetto di omofobia. Poi me ne sono andata, non voglio avere più a che fare con loro, né ora né mai".
È grave che i dipendenti di un istituto, cattolico ma paritario, debbano sottostare a questo martellamento".
....."Adesso sono disoccupata. Non mi dispero, prima o poi un lavoro lo ritrovo. A scuola, naturalmente. È la mia vita".... “Quel che mi è successo è roba da Medioevo, paragonabile alle discriminazioni subite dagli ebrei o dai neri”.

... Mi aspetto un " reale controllo sui finanziamenti erogati alle scuole paritarie. Ce ne sono alcune che non li meritano. Voglio solo coerenza".

martedì 22 luglio 2014

"Smettiamo questa guerra assurda". Parla una ex soldatessa israeliana in servizio a Gaza e Israele. Nurit Peled: "Boicottate questo Stato di apartheid"

"Smettiamo questa guerra assurda". Parla una ex soldatessa israeliana in servizio a Gaza  
La testimonianza shock di Yael Lotan, ex militare e militante di "Breaking the silence", associazione di reduci dell'esercito impegnati a diffondere consapevolezza su quanto avviene nella Striscia. E promuovere il dialogo. Tutte le organizzazioni umanitarie impegnate a Gaza i Valentina Ravizza -
 

Yale Lotan, 30 anni, ex soldatessa israelianaYale Lotan, 30 anni, ex soldatessa israeliana
«Avevo 18 anni, ero solo una ragazzina. Mi dicevano di seguire gli ordini. Solo più tardi ho capito quanto fosse folle quello che stavamo facendo a Gaza». Yael Lotan, 30 anni, è una “testimone” di Breaking the Silence, associazione israeliana di ex soldati e veterani impegnati a diffondere consapevolezza su quanto avviene realmente in Palestina. «Nella Striscia vivono più di un milione e mezzo di persone. Ma per Israele sono invisibili. Nessuno capisce davvero cosa significhi vivere lì».
Dopo il corso di addestramento, nel 2002, Yael è stata spedita a svolgere il servizio militare (obbligatorio per tutti i cittadini, uomini e donne, e della durata di tre anni) tra Beit Lahiya e Beit Hanoun, nel Nord-Est della Striscia, vicino al valico di Erez, l’unico accesso israeliano al territorio (il varco di Karni è utilizzato solo per il transito delle merci). «I più bravi venivano mandati nelle zone calde. Quando mi hanno detto che sarei dovuta andare a Gaza ho risposto che piuttosto che stare sul campo a difendere i coloni mi sarei lasciata arrestare. Per me la Striscia era una località di vacanza, ci andavo da piccola con i miei genitori perché lì ci sono alcune delle più belle spiagge del Paese. E all’improvviso è diventato il nemico».
Così a Yael è stato assegnato il compito di “osservatore”: pattugliare la barriera di filo spinato elettrificato che trasforma la Striscia in una prigione, utilizzando sofisticati visori per tenere sotto controllo l’area. «Sembrava di essere dentro un videogame. Come se non fosse reale. Invece lo era. Stavamo spiando quelle persone». Erano sospetti terroristi? «No, io a Gaza non ho mai visto membri di Hamas. Ho visto invece persone molto povere, che cercavano di sopravvivere in città più simili a slum. Ricordo le donne anziane che tutte le mattine uscivano di casa alle sei per andare a dar da mangiare alle galline nel cortile. Conoscevo le loro vite. Conoscevo il colore dei loro occhi. Ma in realtà non ho mai nemmeno parla"Smettiamo questa guerra assurda". Parla una ex soldatessa israeliana in servizio a Gazato con loro».
L’unico momento in cui i soldati entrano in contatto con i palestinesi è quando questi si avvicinano troppo al confine, a volte per caso, semplicemente pascolando le capre, altre per tentare di entrare in Israele a cercare un lavoro, o soltanto qualcosa da mangiare. «In un anno e mezzo di servizio ho visto provarci migliaia di persone. Quelli che vengono catturati sono soprattutto bambini di 12-13 anni, padri di famiglia, anziani. Quando li prendono, i soldati li legano e bendano, solo dopo diverse ore, che questi prigionieri passano inginocchiati sul pavimento, vengono rispediti indietro. Questo nel migliore dei casi, nel peggiore si spara direttamente. Per spaventare o per colpire, non importa: per l’esercito questa gente non conta niente. Gli ufficiali ne stanno lì come se fossero in vacanza, scherzano, ascoltano la radio e al minimo problema premono il grilletto o lanciano granate senza pensarci troppo».
Non ci sono mai state ribellioni agli ordini? «Ricordo un giorno di aver portato un bicchiere d’acqua a un prigioniero, un signore sulla sessantina: il comandante mi ha sgridata urlando “Cosa fai? Sei stupida?”. Ho avuto molta paura. Una volta che i soldati hanno preso qualcuno non c’è più nulla da fare per lui. Al massimo potevo cercare di chiudere un occhio e non allertare la base se non era strettamente necessario. Al fronte si radicalizzano le idee politiche: io sono cresciuta in una famiglia di sinistra e quell’esperienza mi ha fatto capire ancora di più che Israele sta sbagliando. Ma altri miei compagni sono diventati ancora più nazionalisti».
Tra il 2003 e il 2014 Gaza ha visto l’evacuazione dei coloni e lo smantellamento delle colonie, il governo di al-Fatah e la vittoria elettorale di Hamas, l’embargo, l’operazione Inverno caldo (quando Israele invase la Striscia via terra) e l’operazione Piombo fuso (con bombardamenti aerei mirati contro le postazioni di lancio dei razzi). E ora la crisi seguita al ritrovamento di tre ragazzi israeliani uccisi in Cisgiordania. «Ma a parte il fatto che non ci sono più i coloni, a Gaza non è cambiato nulla in questi 11 anni. È una zona assediata. Per i palestinesi noi siamo i conquistatori, e come dar loro torto? Se il governo decide di togliere l’elettricità o di non far passare il cibo, lo fa e nessuno può dire niente. Hamas ci colpisce e noi rispondiamo, Netanyahu attacca e loro lanciano i razzi: è un circolo vizioso che deve finire. Io lì ho visto solo civili. Civili che soffrono. Basta con questa follia».



Israele. Nurit Peled: "Boicottate questo Stato di apartheid"


L’israeliana Nurit Peled, premio Sakharov del Parlamento Europeo, scrive una lettera aperta agli attivisti: “Non possiamo fermare da soli il bagno di sangue: boicottate Israele e mettetelo al bando dalla Comunità internazionale”.

Cari amici e militanti per la pace, vi scrivo dall’entrata dell’inferno. Genocidio a Gaza, massacri in Cisgiordania e paura dei razzi in Israele. Tre coloni israeliani rapiti ed uccisi, mentre la polizia, che è stata avvertita sul momento, non ha fatto niente per impedirlo.
La loro morte è stata usata come pretesto per portare avanti l’attacco già pianificato alla Cisgiordania e a Gaza.
Un ragazzo palestinese di Gerusalemme è stato rapito e bruciato vivo, e la polizia, avvertita immediatamente, non ha fatto niente niente. Più di 200 vittime dei raid su Gaza. Intere famiglie assassinate da piloti israeliani e come risultato lancio di razzi su Israele.
Pericoloso e violento razzismo contro cittadini arabo-israeliani, incoraggiato entusiasticamente da ministri e membri del Parlamento israeliano, che porta a disordini nelle strade, fomenta aggressività e forte discriminazione contro i palestinesi, insieme al risorgere della violenza contro attivisti pacifisti israeliani.
Nonostante accordi, risoluzioni internazionali e promesse israeliane, gli insediamenti si stanno espandendo, mentre le abitazioni palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania continuano ad essere distrutte.
L’acqua scorre senza alcuna limitazione nelle piscine degli insediamenti, mentre i bambini palestinesi soffrono la sete ed interi villaggi e città vivono sotto un crudele razionamento dell’acqua, come ha recentemente sottolineato il presidente del Parlamento Europeo Schultz.
Strade per soli ebrei ed un numero infinito di checkpoint rendono impossibile la vita e gli spostamenti dei palestinesi. Il carattere non democratico dello Stato di Israele lo sta sempre più trasformando in un pericoloso Stato di apartheid.
Tutte queste atrocità sono frutto di un’unica mente diabolica e criminale: la mente dei razzisti, crudeli occupanti della Palestina. La responsabilità per tutti questi crimini contro l’umanità dovrebbe essere attribuita ai dominatori israeliani che hanno le mani sporche di sangue.
Politici e generali israeliani, soldati e piloti, delinquenti di strada e membri della Knesset sono tutti colpevoli dello spargimento di sangue e dovrebbero essere processati dalla Corte Penale Internazionale.
A tutt’oggi la Comunità internazionale non ha fatto abbastanza per porre fine al regime di occupazione israeliana. Di conseguenza Israele non paga alcun prezzo per le sue gravi violazioni della legislazione internazionale e dei valori umani.
Al contrario l’Europa paga anche per molti dei danni umanitari dell’occupazione, rendendo persino più facile ad Israele mantenerla.
Benché siano state pubblicate Linee guida che proibiscono ad istituzioni dell’Unione Europea di investire o finanziare organizzazioni che fanno ricerca e attività negli insediamenti, e nonostante 20 paesi europei abbiano diffidato formalmente i propri cittadini ed imprese dal fare commercio e avere rapporti finanziari con gli insediamenti, ciò non basta.
Questi provvedimenti non mettono seriamente in discussione la politica di Israele nella Palestina occupata.
L’Europa potrebbe fare di molto meglio, come ha dimostrato recentemente nella sua dura risposta all’annessione della Crimea da parte della Russia. Nel giro di poche settimane - non anni – l’Unione Europea ha imposto sanzioni mirate nei confronti di funzionari russi ed ucraini e di imprese di affari operanti in Crimea. L’Unione Europea è andata anche oltre ed ha esteso le sanzioni mettendo al bando l’importazione di merci della Crimea.
Noi cittadini di Israele e popolazione senza Stato della Palestina, non possiamo da soli ottenere la fine dell’occupazione o fermare da soli il bagno di sangue.
Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutta la Comunità internazionale e della Comunità Europea in particolare.
Abbiamo bisogno che voi mettiate sotto accusa il governo e l’esercito israeliani, abbiamo bisogno che boicottiate l’economia e la cultura israeliana, abbiamo bisogno che facciate pressione sul vostro governo perché cessi di trarre profitto dall’occupazione.
E abbiamo bisogno che facciate un appello perché ad Israele sia imposto un embargo sulle armi e sia tolto l’assedio a Gaza.
Israele è la più grande e pericolosa organizzazione terroristica esistente al giorno d’oggi. Tutte le sue munizioni vengono usate per uccidere civili innocenti, donne e bambini. Questo non è niente di meno di un genocidio.
Come persona insignita del premio Sakharov del Parlamento Europeo per i Diritti Umani e in qualità di madre ed essere umano, io faccio appello all’Unione Europea affinché usi tutti i mezzi diplomatici ed economici a sua disposizione per aiutare a salvare il mio paese da questo abisso di morte e disperazione in cui viviamo.
Vi prego di mettere al bando Israele dalla comunità internazionale fino a quando non diventerà un vero Stato democratico.
Boicottate e sanzionate chiunque faccia affari con questo Stato di apartheid e aiutateci a liberarci di questo governo razzista e assettato di sangue, perché sia restituita la vita sia ai palestinesi che agli ebrei israeliani.

Nurit Peled El Hanan


*Nurit Peled-El Hanan insegna all'università di Gerusalemme, ha scritto diversi libri ed ha studiato i testi utilizzati nelle scuole israeliane svelandone il razzismo. E’ stata tra le fondatrici del Parent's Circle, associazione di palestinesi e israeliani che hanno subito perdite nelle proprie famiglie. Ha perso sua figlia di 13 anni in un attentato kamikaze compiuto a Gerusalemme: per la sua morte, Nurit ha accusato il governo israeliano. Attiva da sempre nei movimenti contro l'occupazione e la colonizzazione, è stata tra le promotrici del Tribunale Russell sulla Palestina. E’ stata insignita del premio Sakharov per i Diritti dell’Uomo del Parlamento Europeo insieme allo scrittore palestinese Izzat Gazzawi. Ha scritto questa lettera aperta agli attivisti italiani rispondendo ad un appello di Luisa Morgantini. La traduzione dall’inglese è a cura di AssoPace Palestina.

lunedì 21 luglio 2014

La libertà clandestina delle donne iraniane


Su una pagina Facebook si mostrano senza velo. E le autorità iraniane rispondono diffondendo un servizio televisivo contro la giornalista che l’ha ideato

Qualche mese fa, Masih Alinejad, giornalista iraniana residente a Londra, ha creato una pagina su Facebook intitolata “My Stealthy Freedom” (La Mia Libertà Clandestina), incoraggiando le donne del suo Paese a condividere foto dove si mostravano senza lo hijab - il velo tradizionale e obbligatorio che copre la testa e i capelli, usato da donne iraniane come simbolo di modestia quando sono in pubblico o in presenza di uomini che non sono membri della loro famiglia. 
L’idea della giornalista mirava a sfidare le leggi e le norme sociali che obbligano le donne a portare il velo e altre forme dello hijab (come il niqab, che copre tutto eccetto gli occhi; il chador, un mantello che copre tutto il corpo). L’iniziativa è stata un successo sui social network: in meno di due mesi la pagina ha raggiunto oltre mezzo milione di “mi piace” e migliaia di condivisioni su Twitter usando l’hashtag #mystealthyfreedom. Le immagini condivise dalle donne le mostrano sorridenti per poter provare la sensazione della libertà e poter sentire il sole e il vento sui capelli. 
 Alinejad si aspettava minacce e lettere di protesta, ma non quello che in realtà è avvenuto. Le autorità iraniane hanno fatto mandare in onda un servizio televisivo dove si raccontava che la giornalista, sotto l’effetto delle droghe, aveva cominciato a spogliarsi in pubblico a Londra finendo poi per essere stuprata da tre uomini. Testimone di tutto questo, raccontava il servizio, sarebbe stato il suo figlio 17enne, costretto a guardare. 
Tutto questo è «immaginazione» racconta Alinejad al giornale statunitense “The Washington Post”, una campagna accusatoria da parte dello Stato per diffamarla. Ma non si sono fermati lì: Vahid Yaminapour, presentatore televisivo di area conservatrice, ha condiviso sul suo profilo di Facebook frasi pesanti: «E’ una puttana, non un’eretica come dicono alcuni… Non dobbiamo elevare il sua status a quello d’un eretica. Sta soltanto cercando di compensare i suoi bisogni psicologici (e probabilmente finanziari) reclutando altre giovani e condividendo la sua notorietà con ragazze che non si sono ancora prostitute come lei». Altri ancora dicono che Alinejad sta falsificando le immagini e che i governi occidentali la stanno pagando per ripudiare l’abbigliamento tradizionale iraniano.
«Loro vedono che non ho fatto niente di sbagliato - disse Alinejad al network televisivo ABC -. Non le ho nemmeno chiesto di togliersi il velo, sto soltanto segnalando quello che già esiste, e il governo mi ha attaccato».
La misura estrema da parte dello stato indica che le autorità iraniane sono chiaramente scosse dal movimento e l’enorme numero di donne, sia in Iran che nei paesi occidentali, che lo sostengono. 
In un pezzo nella rivista statunitense “Time”, Alinejad scrive: «Decidere come vestirti è una forma di libertà di espressione. E questo è un lusso che non esiste in Iran. Ma le “donne clandestine” volevano mostrare una faccia diversa dell’Iran che è spesso ignorata dalla media controllata dallo Stato e dai media occidentali».
In supporto di Alinejad, è stata creata la pagina Facebook “We Are All Masih” (Siamo tutti Masih) che ha raccolto già 4,000 “mi piace.” Altri hanno fatto una petizione, raccogliendo firme da giornalisti a favore di un’azione legale da parte di Alinejad. 
La giornalista ha pensato a lungo come rispondere a la situazione. «Per una questione di principio, ho intenzione di citare in giudizio per danni e presentare una denuncia formale contro la televisione di Stato».
“La Mia Libertà Clandestina” continua ad andare avanti. La pagina Facebook è diventata anche più popolare dopo le false accuse e minacce. 
“Le donne d’Iran hanno votato con le loro selfie”, dice Alinejad.

mercoledì 16 luglio 2014

“Donne, qualcosa è cambiato ecco i conti delle quote rosa”, di Maria Novella De Luca


Nel cuore del potere. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. E mentre la legge Mosca-Golfo imponeva sempre più donne ai vertici delle aziende, (dal 7% di presenze nei Cda nel 2011, al 25% di oggi) il nuovo premier Renzi ha lanciato la formula del governo fiftyfifty, ben sapendola gradita all’Europa. Nel cuore del potere. O almeno molto vicine. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. Nei Cda la presenza femminile sfiora il 25%. La squadra di governo è formata da otto ministri e otto ministre, simmetria perfetta ma soprattutto simbolica. Maria Angela Zappia, una carriera in ascesa nella diplomazia italiana, è stata nominata ambasciatrice per il nostro paese alla Nato: «Cosa provo? Il grande orgoglio di un incarico così importante, ma anche la consapevolezza di non aver lasciato indietro nessuno…». Né i figli, Claire e Christian, cresciuti con lei in giro per il mondo, né il marito, conosciuto in missione a Dakar. Anche il linguaggio cambia: nessuna cesura, vita e carriera sono una cosa sola. Era soltanto la scorsa estate, quando a Cernobbio l’ex premier Enrico Letta sobbalzava davanti ad una platea di grisaglie grigie. «In questa sala siamo tutti uomini, è insopportabile…». Dov’è l’altra metà? La risposta è arrivata pochi mesi dopo. Mentre la legge Mosca-Golfo imponeva tra mille malumori sempre più donne ai vertici delle aziende, (dal 7% di presenze nei Cda nel 2011, al 25% di oggi tra pubblico e privato) il nuovo premier Renzi ha preso abilmente il potere e il pallottoliere insieme, lanciando appunto la formula del governo fiftyfifty, ben sapendola gradita all’Europa. Con ministeri anche “pesanti”: agli Esteri Federica Mogherini, alla Difesa Roberta Pinotti. E proprio Pinotti tra due giorni in un convegno organizzato da “Valore D”, racconterà la sua storia umana e politica, ma anche il lavoro prezioso e spesso nascosto delle donne dell’esercito, dalle comandanti alle soldatesse.
Adesso è dunque il tempo di riflettere, come spiega l’economista Daniela De Boca. Per capire se davvero qualcosa muterà nel sistema del potere, aprendo un vero cammino di parità, o se il gioco resterà congelato ai vertici della piramide. «Il cambiamento c’è, ed è il frutto di una pressione fortissima da parte del mondo femminile, quote comprese. Che là dove sono state applicate bene, in Norvegia ad esempio, hanno scardinato la misoginia dei vertici. Ma in Italia quello che vedo invece è il rischio di una polarizzazione: nella fascia alta le donne conquistano ruoli forti, un tempo maschili. Nella fascia media, nella vita di tutti i giorni le donne invece stanno peggio. Diritti che sembravano acquisiti, i congedi per maternità, la parità salariale sono oggi fortemente intaccati».
Dunque cautela. Però le nomine ci sono state, non poche e tutte insieme. Ad aprile scorso un gruppo di qualificatissime manager, scienziate e imprenditrici conquistano i Cda delle più grandi aziende di Stato: Emma Marcegaglia all’Eni, Luisa Todini alle Poste, Patrizia Grieco all’Eni, ma anche Catia Bastioli a Terna, Rossella Orlandi a capo dell’Agenzia delle Entrate.
E Maria Angela Zappia, ambasciatrice italiana alla Nato a Bruxelles. I titoli parlano naturalmente di “valanga rosa”. Lo spoil system di Renzi impone ancora nomi femminili. Il messaggio è chiaro: l’argine è caduto. Ma Luisa Todini, a capo del consiglio di amministrazione di Poste, una figlia adolescente, da anni alla testa dell’azienda di costruzioni di famiglia, invita a guardare le cose dal lato giusto. «In queste nomine hanno contato i curriculum e le esperienze, non le quote. Vengo da una famiglia modesta, che si è fatta da sé, dove mia madre lavorava ed era naturale che anche le donne lavorassero. Mi sono mossa in ambiti fortemente maschili, ma oggi invece sono entrata in una azienda, le Poste, dove la pink revolution è in atto già da tempo».
Certo, aggiunge Todini, «le quote servono, seppure modo transitorio, noi abbiamo vent’anni di ritardo sul fronte dell’occupazione femminile, dunque una spinta è ancora necessaria, perché tutto questo abbia una vera ricaduta sul processo di parità». Un processo favorito oggi «anche da una nuova generazione di mariti, padri e compagni non più nemici della carriera delle loro partner…».
I numeri però raccontano un’Italia ancora profondamente “asimmetrica”: l’occupazione femminile è al 49,9% contro il 70% di quella maschile, gli stipendi restano più bassi del 15%.
Alessia Mosca, parlamentare Pd, insieme a Lella Golfo (oggi presidente della Fondazione Bellisario) ha scritto la legge 120 del 2011, le famose quote rosa nei Cda. Una legge che scadrà tra sette anni. «Perché a quel punto ci renderemo conto se è stata un’operazione di maquillage o se ha davvero ha inciso nella vita reale delle donne. Il cambiamento per ora è soltanto nella parte “apicale” della piramide, e non basta un gruppo di top manager donne per contaminare in modo positivo una situazione ancora arretrata. Ma è un inizio, la rottura di un meccanismo inerziale sempre uguale a se stesso». E duro a morire se si ascolta la testimonianza di una giovane manager, Valentina Saffiotti, 36 anni, direttore della Comunicazione di AstraZeneca, che racconta di essere dovuta fuggire a Bruxelles, per essere valutata soltanto per i suoi meriti, senza più il pregiudizio dell’essere femmina. «A 30 anni le aziende ti guardano con sospetto, perché potresti decidere di diventare madre. E nelle piccole e medie realtà è ancora peggio. E infatti dico sempre: non sono a favore delle quote rosa, ma contro le quote azzurre…».
Catia Bastioli, neo presidente di “Terna” (infrastrutture elettriche) scienziata manager, ex Montedison, in prima linea sulla bioeconomia, punta tutto sul merito. «Attenzione, le quote possono essere una trappola, e così gli slogan. Oggi il nostro paese ha unicamente bisogno di merito, al di là dei generi e l’Italia è spesso più avanti di come viene raccontata. Le donne — dice Bastioli — hanno già un posto forte nelle aziende, con quella visione più ampia delle cose che le rende preziose ovunque. Ma perché possano fare carriera è fondamentale la conciliazione. Proprio io che ho dedicato tutta la mia vita alla ricerca vedo quanta concentrazione ci vuole: e senza supporti da parte dello Stato, asili, welfare, come si possono portare avanti una famiglia e una carriera?». Ed è infatti l’amaro bivio davanti al quale si trovano brillantissime e determinate studentesse, e che spesso si traduce in un rinvio sine die della maternità. Ma Barbara Saba, vicepresidente di “Valore D”, direttore generale della Fondazione Johnson and Johnson, è invece ottimista. «Più donne ci sono nella politica, nel business, nella ricerca, più donne ancora saliranno sull’ascensore sociale. Il cambiamento è epocale anche se non ancora visibile. Ma per ognuna di noi che ce l’ha fatta è fondamentale la restituzione: aiutare cioè le più giovani a sviluppare i loro talenti. Solo così possiamo sperare che l’ascensore non si fermi».

martedì 15 luglio 2014

Nadine Gordimer morta. La scrittrice sudafricana aveva 90 anni e vinse il premio Nobel nel 1991


È morta Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana e premio Nobel.
 Fu una delle più importanti voci contro l'apartheid. Si è spenta all'età di 90 anni, lo conferma la Feltrinelli.

Pochi mesi fa, lo scorso marzo, Nadine Gordimer aveva annunciato di essere malata di cancro al pancreas e aveva detto addio alla scrittura mentre stavano per uscire in Italia i suoi 'Racconti di una vita', 17 storie scritte fra il 1952 e il 2007, pubblicate da Feltrinelli, il suo editore italiano per cui uscirà in ottobre 2014 la raccolta di scritti e articoli 'Tempi da raccontare-Scrivere e vivere' (Feltrinelli).

Premio Nobel per la Letteratura nel 1991, la Gordimer è morta nella sua casa a Johannesburg. Nata il 20 novembre 1923 a Springs, centro minerario a est di Johannesburg, da genitori immigrati ebrei, ha raccontato come nessun altro la sua terra, il Sudafrica, mettendo la scrittura al servizio dell'umanità e la sua voce contro l'apartheid. Amica di Mandela, di Miriam Makeba e tanti leader della lotta contro l'apartheid è stata fra i membri fondatori del Congress of South African Writers. Nel 1974 ha vinto il Booker Prize e nel gennaio 2007 le era stato assegnato il Premio Grinzane Cavour per la Lettura.

'Ora o mai piu è il suo ultimo romanzo, uscito nel nostro Paese che amava molto nel 2012. Il suo primo romanzo 'I giorni della menzogna' è del 1953 ma prima la Gordimer, aveva prima pubblicato la raccolta 'Faccia a faccia' e una storia per bambini uscita sul Children's Sunday Express nel 1937. La sua scrittura, nitida, il suo stile limpido contraddiostingue tutti i suoi libri da 'Occasione d'amorè, 'Un ospite d'onorè,'La figlia di Burger', 'Luglio' a 'Storia di mio figlio'.

lunedì 14 luglio 2014

Cognome figli, stop all'obbligo di quello paterno. In Commissione Giustizia passa la libertà di scelta

Cade l'obbligo del cognome paterno per i figli, largo alla libertà di scelta. La commissione Giustizia di Montecitorio ha approvato il testo sul doppio cognome, provvedimento che lunedì sarà in Aula per la discussione generale. Il provvedimento potrebbe ricevere il via libera dall'Assemblea della Camera entro la prossima settimana.

"È un altro passo in avanti verso la parità dei sessi e la piena responsabilità genitoriale”, spiega la presidente della Commissione Giustizia Donatella Ferranti (Pd). “Il figlio ora potrà avere o il cognome paterno o quello materno o entrambi, secondo quanto decidono insieme i due genitori. Ma se l'accordo non c'è, il figlio avrà il cognome di tutti e due i genitori in ordine alfabetico". Peraltro, aggiunge, "l'obbligo del cognome paterno, simbolo di un retaggio patriarcale fuori del tempo e assurdamente discriminatorio, è stato severamente censurato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e dunque il testo che ora andrà in aula è un atto dovuto, che ci pone finalmente in linea con gli altri paesi europei".

Ecco, in sostanza, cosa cambia con le nuove norme approvate oggi in commissione Giustizia della Camera:

    Stop patriarcato: piena libertà nell'attribuire il cognome
    Alla nascita il figlio potrà avere il cognome del padre o della madre o il doppio cognome, secondo quanto decidono insieme i genitori. Se però non vi è accordo, il figlio avrà il cognome di entrambi in ordine alfabetico. Stessa regola per i figli nati fuori del matrimonio e riconosciuti dai due genitori. Ma in caso di riconoscimento tardivo da parte di un genitore, il cognome si aggiunge solo se vi è il consenso dell'altro genitore e dello stesso minore se quattordicenne.

    Figli adottivi
    Il principio della libertà di scelta, con qualche aggiustamento, vale anche per i figli adottati. Il cognome (uno soltanto) da anteporre a quello originario è deciso concordemente dai coniugi, ma se manca l'accordo si segue l'ordine alfabetico.

    Trasmissibilità del cognome
    Chi ha il doppio cognome può trasmetterne al figlio soltanto uno, a sua scelta.

    Cognome del maggiorenne
    Il maggiorenne che ha il solo cognome paterno o materno, con una semplice dichiarazione all'ufficiale di stato civile, può aggiungere il cognome dell'altro genitore. Se però nato fuori del matrimonio, non può prendere il cognome del genitore che non l'ha riconosciuto.

    Entrata in vigore differita
    Le nuove norme non saranno immediatamente operative. L'applicazione è infatti subordinata all'entrata in vigore del regolamento che deve adeguare l'ordinamento dello stato civile. Per provvedervi il ministero dell'Interno ha un anno di tempo.

domenica 13 luglio 2014

Dubbi addio, si dice chirurga e ministra, sindaca e avvocata: rispettando l’italiano si rispettano anche le donne di Giovanna Pezzuoli

«La presidenza va al marito dell’assessore», oppure «Il sindaco di Cosenza: aspetto un figlio! Il segretario Ds: Il padre sono io». E ancora «Marianna Madia, il ministro è incinta». Suscitano ilarità e sconcerto questi accostamenti linguistici nei media che non tengono conto del genere. Salvo trasformarsi repentinamente in scelte grammaticali ineccepibili quando la connotazione è ironica: ecco che spunta la giudice licenziata in tronco perché si era tolta i vestiti nel suo ufficio per prendere il sole. Oppure c’è la aspirante sindaca nel pezzo che deride Nathalie Kosciusko-Morizet fotografata mentre fuma insieme ad alcuni clochard. Sono esempi significativi tratti dal manuale “Donne, grammatica e media”, fortemente voluto dall’associazione di giornaliste GiULiA, che viene presentato venerdì 11 luglio, alle ore 10,30, nella sala Aldo Moro della Camera dei Deputati. Così sappiamo che è corretto dire ingegnera e chirurga, architetta e ministra, senatrice e prefetta.

E avvocata è preferibile ad avvocatessa, mentre professoressa resta in auge come studentessa e dottoressa, ormai entrate nell’uso comune. A delineare il nuovo dizionario italiano declinato secondo il genere è Cecilia Robustelli, docente di linguistica italiana all’Università di Modena. Che con voce autorevole fa una serie di proposte operative per superare ogni perplessità – eliminando anche l’alibi del suono strano o anti-estetico – circa l’adozione del genere femminile per nomi professionali e istituzionali “alti”, suggerendo soluzioni di facile applicazione, come nota Nicoletta Maraschio presidente onoraria dell’Accademia della Crusca.

Ha dato un forte segnale in questo senso Laura Boldrini, che sul sito del Parlamento si definisce la presidente:

    «Se io attribuissi ad un uomo una connotazione femminile quell’uomo si ribellerebbe. Allora il rispetto passa anche attraverso la restituzione del genere»

Ci aveva provato quasi trent’anni fa Alma Sabatini  con le sue “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”.

«Alcune erano proposte lessicali e sintattiche difficili da accettare, andavano fin troppo contro la tradizione e la grammatica – nota Cecilia Robustelli – per esempio in presenza di nomi maschili e femminili, si concordava al femminile se nella frase le femmine erano più dei maschi».

    «Era una riflessione molto complessa per i tempi, anche l’assoluta condanna verso la desinenza in “essa” vista come dispregiativa oggi appare superata. Probabilmente risuonavano all’orecchio di Alma Sabatini le definizioni piene di scherno di inizio ‘900, le “pettorute deputatesse” di Alfredo Panzini»

Così la stampa si scaglia contro il suo lavoro, ridicolizzandolo. “Ah, ah, dovremmo scrivere professora!”. E per quasi trent’anni le riflessioni sul linguaggio sessista restano in soffitta. L’incertezza e le continue oscillazioni sono coltivate dalle stesse istituzioni. «Se arriva un comunicato da Palazzo Chigi che parla del ministro Roberta Pinotti, è facile che la “o” resti tale. Anche in passato a voler essere chiamata senatrice è stata soltanto Franca Falcucci nel 1974, una mosca bianca!» prosegue Cecilia Robustelli.

    «Mi fa sorridere la ministra Maria Elena Boschi, che interrogata da Daria Bignardi risponde “preferisco essere chiamata ministro”. Ma non esistono due opzioni, il genere è un parametro fisso come lo è un numero, è un meccanismo regolatore della nostra lingua»

Le proposte sono ispirate a gradualità e buon senso. Per esempio viene ammessa “un’abitudine innocua” come quella di definire il nome proprio femminile con l’articolo, come la Merkel, la Mogherini, in quanto sottintenderebbe un “la famosa” e peraltro appartiene alla tradizione linguistica fiorentina. E se la parola “recensora” appare troppo audace, si può sempre usare la perifrasi colei che fa la recensione.

Ma com’è nata l’idea di questa guida? Risponde Maria Teresa Manuelli, che ha progettato e curato il volume: «Venivamo spesso interpellate dai colleghi “ma qual è il femminile di fabbro?”, “si può dire rettrice?”… Così, confrontandoci durante l’assemblea nazionale di GiULia è emersa l’esigenza di chiamare le cose con il loro nome. Anche perché gli errori e i dubbi spesso non nascevano da un atteggiamento sessista o da cattiva volontà, bensì da semplice ignoranza. Ma è solo l’inizio, non siamo entrate nel merito di dissimmetrie semantiche fondate su stereotipi, la donna svenevole, fragile o isterica, la mogliettina, la stellina, il dottor Rossi e signora e via di questo passo».

Punta il dito contro una visione androcentrica e una forse inconsapevole pigrizia mentale Sergio Lepri, storico direttore dell’Ansa, che  racconta: «Se l’Ansa scriveva “la presidente Jotti” e non “il presidente Jotti” come l’interessata in un primo tempo voleva, i giornali scrivevano “la presidente Jotti”; e alla fine anche Nilde Jotti accettò di essere chiamata “la presidente”». Diversamente dalla senatrice Susanna Agnelli che voleva a tutti i costi essere chiamata senatore e si risentì molto per la definizione al femminile.  Ma, fa notare Lepri, solo da noi le forme femminili non sono accettate. In Francia si dice regolarmente “la ministre”, “la présidente”, “la juge”, “la conseillère”; in Germania Angela Merkel è “kanzlerin”, la ministra è “ministerin”. Quanto alla Spagna, hanno addirittura “la presidenta”, “la profesora”, con l’autorità che viene dalla Real Academia Española…

Eppure, la strada da percorre è ancora lunga: secondo il recente sondaggio Linguaggio e stereotipi di genere, diffuso in rete da Se non ora quando Genova,  è forte la resistenza al cambiamento sia da parte degli uomini, sia delle donne. Alla domanda “quando ti riferisci a una donna e al suo mestiere, usi la lingua italiana declinata al femminile?”, il 22,87% per cento del campione ha risposto “mai”; il 33,58% “qualche volta”; il 27,49% “spesso” e il 16,06% “sempre”. Tra le motivazioni di chi rifiuta il cambiamento, una donna ha addotto “il lavoro è un lavoro, non un genere”, mentre un uomo ha definito una “violenza femminista” declinare i nomi al femminile, e poi chiamare una donna chirurga o architetta sarebbe riduttivo per la donna stessa!

venerdì 11 luglio 2014

L’indipendenza economica che salva dalla violenza

Secondo l’analisi di Telefono Rosa a proposito di femminicidio l’indipendenza economica resta un fattore fondamentale di affrancamento dal contesto violento. Lo conferma l’ampia quota di vittime disoccupate (19%), inferiore solo a quella delle impiegate tra le italiane (23%) e a quella delle colf/badanti, ricattabili, povere, vessate da una cattiva legislazione sull’immigrazione, tra le straniere (27%). Non vengono considerate le sex workers uccise, anche quelle spesso migranti, povere, ricattabili, costrette alla clandestinità.
La povertà, la dipendenza economica e l’impossibilità di esigere diritti inclusa la garanzia del diritto di cittadinanza, sovraespongono le donne. Non si capisce che le politiche contro la violenza devono ragionare di prevenzione a tutti i livelli, inclusa la materia economica, la possibilità per le donne di avere reddito e lavoro, e sono tutte cose che le istituzioni fanno fatica a prendere in considerazione, concentrate come sono a imporre alle donne ruoli di cura.
Perché se sei dipendente economicamente non potrai che svolgere ruoli di cura, di servizio, a poco prezzo o gratis. Perché se sei dipendente economicamente non ti resta che affidarti a chi ti mantiene o a chi ti dà elemosine per campare. Quante sono le donne, ma in generale le persone, che accettano situazioni pessime per sopravvivere? Quante restano a vivere con un uomo violento per avere un tetto, da sfamarsi, per se e i propri figli? Quante accettano ricatti osceni per un misero permesso di soggiorno? Quante sono costrette a subire perfino molestie o violazioni di diritti nel contesto lavorativo?
E poco conta se sei diplomata, laureata, perché il mercato del lavoro ti condanna comunque alla precarietà, perciò questa è la ragione per cui, stranamente, donne che hanno un livello di istruzione anche alto restano alla mercè di situazioni che altrimenti non vivrebbero mai.
Vi racconto una storia: una ragazza prende la laurea, non vuole più vivere con i suoi genitori, ha una madre opprimente, a volte violenta, che ha minato la sua autostima e la stalkerizza in continuazione. Lei cerca un lavoro, una stanza presso cui abitare, dopo qualche mese di fatica e sacrifici si convince che non ce la farà e migra in un paese straniero. C’è sempre il miraggio che le cose siano meglio altrove e invece lì c’è sempre un affitto da pagare, un buon lavoro da trovare e quando si rende conto che è tutto molto complicato sceglie di tornare in Italia e come prima cosa conosce un tale che può garantirle non moltissimo ma almeno un letto e da mangiare.
All’inizio sono tutte rose e fiori, si amano, anche se in altre condizioni la ragazza non sarebbe certo subito andata a vivere con lui, sarebbe stata più prudente, avrebbe mostrato più autonomia, e poi le cose si fanno complicate. A lei non piacciono di lui alcune cose, a lui non piacciono di lei alcune cose, finisce che quella convivenza, iniziata male, finisce altrettanto male. Lei che sperava di poter nel frattempo trovare un lavoro in realtà non trova nulla. Lui che pensava a lei come una regina del focolare si sente poco amato. Quando lei dice che vuole fare non so quale corso a spese del compagno lui all’inizio la supporta ma poi si rende conto che potrebbe perderla. Lui possessivo, lei in fuga. Quando la resa diventa evidente quella ragazza torna a vivere con la sua famiglia. Capisce che non c’è contesto familiare che possa garantirle autonomia senza ricatti e senza pretese. Capisce che quello che tutti vogliono da lei non è quel che vuole dare. Lei mente con se stessa, gli altri mentono con lei. Nessuno in grado di dire esattamente quel che si desidera. Nessuno è in grado di stabilire un rapporto senza fare perno sulle dipendenze, sul potere che da esse deriva, sul controllo di chi ha poca autonomia.
In questa storia non c’è di mezzo un figlio perché altrimenti sarebbero altri guai, ma giusto un avvicendarsi di tentativi alla ricerca di una indipendenza che nessuno ti regala mai. Imparare questo è una grande lezione. Non c’è il principe azzurro che ti salva. Un uomo non è il tuo genitore e se le istituzioni non investono in una diversa definizione dei ruoli di genere avremo sempre donne frustrate che si rifugeranno nell’idea classica di famiglia perché non hanno alternative e uomini che approfitteranno della inferiorità, per quanto in certi casi solo economica, delle donne.
E’ un uso reciproco, calibrato secondo i piani di un welfare stantìo, che risponde al progetto di istituzioni familiste, catto/fasciste, che pensano che altro le donne o gli uomini non sappiano e non debbano fare. Perché non è vero che nella società esistono mille opportunità che le persone e le donne in questo caso possono sfruttare. Le donne sono povere, lo sono tanto quanto gli uomini e spesso lo sono anche di più. La povertà, l’assenza di reddito e casa, è uno dei motivi per cui alcune donne muoiono. Quando non hanno soldi per lasciare la casa di un uomo violento. Quando non hanno diritto di cittadinanza in una nazione che se straniera ti riceve solo a patto che tu pulisca i culi dei vecchi. Quando non hanno una prospettiva futura e tutto quel che viene loro detto, in un’incessante propaganda che colpisce in egual modo donne e uomini, è che la tua felicità è la famiglia, e che solo così una donna può realizzarsi. Solo così un uomo può realizzarsi.
Quando è successo che uomini e donne hanno potuto avere spazio per investire nella propria autonomia? Ecco: la maggior parte delle situazioni violente nascono da una motivazione culturale, il possesso, anche il sessismo, che resta implicito nelle relazioni che non possono emanciparsi da questo. La maggior parte delle situazioni violente nascono perché io, tu, lei, lui, non abbiamo mai, forse, avuto scelta. E se non hai una scelta percorri sentieri già tracciati, interpreti ruoli imposti e non fai che assumere la posa di tuo nonno, di tua nonna, del vicino, della parente prossima, della figura che guardi tutti i giorni in quella pubblicità e pensi che a te andrà bene. Così non è quasi mai. Chissà perché.

giovedì 10 luglio 2014

In Italia il lavoro paga di più, ma la differenza con gli uomini aumenterà di Corinna De Cesare e Rita Querzè



Lo sciopero delle sottane. Era il 1968 della Primavera di Praga e delle occupazioni studentesche, I Beatles cantavano Lady Madonna e in un piccolo laboratorio di Dagenham, contea di Essex a est di Londra, un gruppo di 187 operaie della Ford scioperava per avere lo stesso trattamento salariale dei 55 mila colleghi uomini. «Lo sciopero delle sottane» fu il sarcastico titolo del Mirror. Il ministro del Lavoro Barbara Castle incontrò le ragazze di Dagenham e due anni dopo fece approvare in Gran Bretagna l’Equal pay act. Sono passati più di 40 anni da allora, le ragazze della Ford hanno ispirato un film di successo («We want sex»), la parità retributiva è sancita da innumerevoli trattati ma il divario salariale uomo donna continua a essere d’attualità. La Commissione europea, per la seconda volta consecutiva, ha fatto cadere nel 2014 la Giornata per la parità retributiva nell’ultimo giorno di febbraio «perché è come se le donne lavorassero gratis per i primi due mesi dell’anno». Da quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata per la parità, il divario salariale in Europa è passato dal 17,5% al 16,4%.

«Ma il lieve miglioramento degli ultimi 4 anni — hanno subito precisato da Bruxelles — è in buona parte attribuibile alla crisi economica e ai suoi effetti su settori occupazionali tipicamente maschili più che a un aumento dei salari delle donne». Non va meglio fuori dall’Europa: «Le donne sono quasi la metà della forza lavoro — ha scritto l’Institute for women’s policy research di Washington — quattro volte su dieci sono capofamiglia, sono più istruite degli uomini eppure continuano a guadagnare meno». L’istituto di ricerca ha anche analizzato quanto sia diminuito il divario negli ultimi decenni giungendo alla conclusione che se «le cose continuassero ad andare allo stesso ritmo degli ultimi 50 anni, giungeremmo alla parità nel 2058». Nella Gran Bretagna di «We want sex» il divario è ancora al 19,1%, nella Germania della cancelliera Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia siamo al 14,8%. Negli Stati Uniti, nonostante gli annunci del presidente Barack Obama, un impiegato uomo guadagna in media 88.600 dollari all’anno, contro i 78.400 delle donne, il 13% in meno. Tanto che il Washington Post ha pubblicato un approfondimento sul tema titolando: «Le politiche sul divario retributivo restano intrappolate alla Casa Bianca».

La situazione in Italia E in nel nostro Paese? Con sorpresa, secondo i dati pubblicati dalla Commissione europea, il divario salariale uomo donna è da noi fermo al 6,7%. Eppure c’è poco da festeggiare: basta infatti confrontarsi con qualsiasi esperto di gender economy per capire che su questi numeri qualcosa non torna. «Sono basati su medie che non tengono conto del basso tasso di occupazione femminile fermo da noi al 46% — spiega Roberta Zizza, economista della Banca d’Italia, che al gender pay gap ha dedicato un lavoro nel 2013 —. Il campione delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari, è selezionato positivamente: comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse». Non solo: analizzando il dato che gli esperti definiscono «grezzo», si scopre che il divario retributivo in Italia, anziché diminuire, con il passare degli anni aumenta. Nelle tabelle Eurostat era al 4,9% nel 2008, poi salito nel 2009 (5,5%) e negli anni successivi fino ad arrivare al 6,7% del 2014. Il rischio che la situazione peggiori L’analisi di Roberta Zizza è in linea con i lavori di due ricercatrici di origine italiana che lavorano all’estero, Barbara Petrongolo (London School of economics) e Claudia Olivetti (Boston University). Sulla stessa lunghezza d’onda anche Daniela Del Boca, economista dell’Università di Torino. « È vero, quando si fa un confronto tra le retribuzioni di un uomo e di una donna nello stesso settore, a parità di qualifica e di servizio, si scopre che il gap si aggira intorno al 6%. Che è sempre troppo, intendiamoci. Ma il punto è che queste percentuali calzano se si parla del lavoro in grandi aziende e a livelli professionali medio alti. Se si inglobassero anche le professionalità più basse, la nostra situazione non sarebbe diversa da quella degli altri Paesi europei».

Per affiancare alla raffinatezza di analisi degli studi accademici, l’informazione grezza che arriva dalle buste paga, si può dare un’occhiata ai dati raccolti da Od&M consulting, società che fa capo a Gi Group, sugli stipendi di poco meno di 400 mila lavoratori dal 2009 a oggi. Si scoprirà che in effetti la differenza di stipendio è maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti e quadri si attestano rispettivamente al 9,3 e 5,9%. «Il punto è anche che negli anni della crisi il divario tra gli stipendi di uomini e donne non è affatto diminuito», fa notare Simonetta Cavasin, direttore generale di Od&M. L’impatto del «fattore F» Quali sono gli ostacoli da rimuovere per avere una reale parità retributiva? E come contrastare una tendenza che potrebbe addirittura far crescere il divario nei prossimi anni? Su un punto gli economisti sono d’accordo con i direttori del personale: bisogna convincere le ragazze a non scartare a priori — come avviene spesso oggi — gli studi e i settori meglio retribuiti. Abbiamo troppe insegnanti e poche ingegnere. Troppe addette al personale e poche commerciali. Questa realtà è frutto di forme di autocensura che cominciano sui banchi di scuola.

Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea il gender pay gap si palesa subito dopo la discussione della tesi: in Italia a un anno dal titolo gli uomini guadagnano in media il 32% in più ̀delle loro colleghe (1.194 euro contro 906 in termini nominale). Il consorzio ha analizzato i dati dei laureati magistrali del 2008 e ha scoperto che a cinque anni dalla laurea, il divario aumenta al 31% (1.587 contro 1.211 euro). Su questa realtà pesa anche un’altra questione, meno dibattuta. Le donne sono più disponibili degli uomini ai contratti flessibili. Il problema è che i contratti flessibili mediamente sono ancora meno retribuiti. E garantiscono un flusso di entrate più incerto. «La situazione è esattamente quella appena descritta — constata anche Paolo Iacci, dell’Associazione italiana direttori del personale —. Attenzione, però: pensare di compensare il gap riportando le donne su posti di lavoro più stabili sarebbe irrealistico. Per come sta andando il mercato del lavoro, è molto più probabile che la flessibilità aumenti anche per gli uomini, come già avviene nei Paesi del Nord Europa». Insomma, fatta eccezione per poche professionalità con forte potere contrattuale, è più facile che siano gli uomini (seppure controvoglia) ad allinearsi alla flessibilità delle donne. Certo l’attuale disparità di trattamento, porterà con sé un ulteriore sperequazione in prospettiva, in materia di pensioni. Per finire, un po’ di responsabilità in tutta questa situazione è anche in capo alle donne. Meno capaci di farsi avanti con il capo del personale per chiedere l’aumento.

«Per carità, tutto vero — osserva Simona Cuomo, dell’osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi di Milano —. Però va detto che le donne in materia di stipendi sembrano condannate all’inadeguatezza. Se non chiediamo l’aumento siamo considerate poco determinate e consapevoli. Se lo chiediamo l’assertività viene scambiata per arroganza». Troppo timide o troppo arroganti. Visto che tocca scegliere, non sarà forse meglio la seconda possibilità?

martedì 8 luglio 2014

Nigeria:fuggite da Boko Haram 63 ragazze rapite in giugno

Lo sostengono fonti di sicurezza della regione, citate dall’Afp: il gruppo ha approfittato dell’assenza dei carcerieri che stavano sferrando un attacco

Sono riuscite a scappare e a rientrare alle rispettive case 63 tra le donne e le ragazze rapite da miliziani jihadisti di Boko Haram a Kummabza, villaggio situato nel distretto di Damboa dello Stato federato di Borno, Nigeria nord-orientale: lo ha riferito un portavoce dei vigilanti volontari che collaborano contro la setta ultra-radicale islamica con le forze di sicurezza governative, fonti delle quali hanno poi confermato in via riservata la fuga di massa.
«Hanno compiuto una mossa tanto coraggiosa quando i loro sequestratori si sono allontanati per un’operazione militare», ha spiegato il vigilante, Abbas Gava.
Si tratterebbe dell’attacco sferrato l’altro ieri dai guerriglieri a una caserma e a un commissariato nel capoluogo distrettuale, Damboa: nella battaglia che ne seguì persero la vita 53 assalitori e sei soldati.

Ancora 219 prigioniere

Restano però ancora prigioniere 219 delle 276 studentesse catturate da un commando di Boko Haram nella notte fra il 14 e il 15 aprile a Chibok, sempre nello Stato di Borno. Soltanto 57 loro compagne nel frattempo sono potute fuggire. Ieri gli attivisti del gruppo Bring Back Our Girls avevano cercato di marciare sul Palazzo Presidenziale nella capitale Abuja per reclamare dal governo maggiore impegno per liberare le giovani tenute in ostaggio, che i rapitori intenderebbero vendere al mercato come schiave. «Sono 83 giorni che le ragazze sono state catturate», ha spiegato una rappresentante dei manifestanti, Aisha Yesufu, «ed è da 68 che ci stiamo dando da fare quotidianamente, ma nessuno finora ci ha davvero prestato ascolto».
 Gli agenti di guardia hanno però invitato i dimostranti a tornare indietro, e la protesta si è conclusa senza particolari incidenti.