venerdì 27 aprile 2018

Dimissioni neo mamme: è boom, in 25 mila costrette a lasciare il lavoro

Dimissioni neo mamme: in venticinquemila hanno dovuto rinunciare al loro lavoro per occuparsi dei propri figli e per conciliare la vita privata con il lavoro.

Lo dicono i dati dell’Ispettorato del Lavoro. La fotografia è l’ennesimo colpo alla gender equality. Alla democrazia, potremmo osare.

Neo mamme in difficoltà: il lavoro o i figli, la scelta più difficile
Quando i dati arrivano alla conclusione che 25 mila neo mamme sono costrette a lasciare il lavoro, nonostante la recente legge contro le “dimissioni in bianco”, il problema è davvero al suo culmine. E se il benessere di una società si vede dalla sua popolazione, dal numero di nascite e  dalla sua demografia, non è più rinviabile un intervento politico. Le donne non devono trovarsi a scegliere tra lavoro e maternità. “Valori che appartengono non solo alle donne, ma all’intera collettività” Uomini compresi. Lo dichiara Loredana Taddei, Responsabile Nazionale delle Politiche di Genere della Cgil, intervistata da noi di WWI.

Come commenta i dati delle dimissioni neo mamme?
La relazione del Ministero del Lavoro è l’ennesima conferma che le politiche di conciliazione e di pari opportunità oggi non sono in grado di garantire un reale sostegno alle donne. E anche all’economia del Paese. Abbiamo denunciato, con Cisl e Uil, nei mesi scorsi, la crescita esponenziale delle dimissioni neo mamme. Fenomeno che il Rapporto dell’Ispettorato del Lavoro del 2016 non ha smentito. Delle 29.879 donne che si sono licenziate, 24.618 hanno addotto motivazioni legate alla difficoltà di assistere i figli e di conciliare la vita privata con il lavoro.

Come se lo spiega?
E’ un numero enorme che rende evidente come, fra le tante problematicità storiche del mercato del lavoro, quella di genere sia particolarmente grave. I dati confermano anche che fare figli in Italia è una questione privata e che troppo spesso per le lavoratrici la maternità diventa non solo un ostacolo al rientro al lavoro, ma anche al percorso di crescita professionale. Parliamo di demansionamento e di isolamento, fino a provocarne le dimissioni. Determinando così condizioni di discriminazione e di povertà per le donne, oltreché per le famiglie monoreddito con prole e di conseguenza per i minori.

Forse a mancare è anche il monitoraggio degli esiti legislativi?
Si, il dato elevato sulle dimissioni neo mamme mette anche in evidenza la necessità che il Ministero del Lavoro rafforzi il monitoraggio del fenomeno. Nonché la valutazione degli esiti relativi agli interventi legislativi introdotti per contrastare le cosiddette dimissioni in bianco. Non è più rinviabile un intervento politico che permetta alle donne di non essere costrette ancora oggi a dover scegliere tra lavoro e maternità, come se non fosse un valore per l’intera collettività.

Come si riducono le differenze nel lavoro?
A partire da quelle salariali, è fondamentale la contrattazione collettiva. Lo dimostra che dove è più ampia la copertura contrattuale le differenze tra uomini e donne sono minori. E’ necessario cambiare il mercato del lavoro e stoppare la crescita selvaggia dei contratti precari.

Ci sono stati dei segnali positivi sul lavoro femminile nel nostro Paese?
Al momento gli unici segnali di miglioramento riguardano le donne nei vertici aziendali, aumentate significativamente. Soprattutto grazie ad un obbligo di legge, la L.120/2011. Che prevede l’aumento progressivo di nomine femminili negli organi di amministrazione e controllo delle società quotate. Le donne sono passate dal 15% del 2013 al 30% nel 2016, che però registra soltanto 17 amministratrici delegate. Mentre le imprese a guida femminile sono in percentuale ancora solo il 21,8%. Insomma, sono pochissime le donne che occupano poltrone veramente importanti. Tutto questo ci dice che non più rinviabile un impegno concreto. A partire da politiche mirate per creare occupazione, per aumentare servizi e tutele sociali, per strutturare politiche di conciliazione. Possibilmente tutte coordinate tra loro.
http://winningwomeninstitute.org/news/dimissioni-neo-mamme-e-boom/

giovedì 26 aprile 2018

Le sei vincitrici donne del Nobel per l'Ecologia 2018

Sono stati assegnati i Goldman Prize del 2018, e ben sei su sette sono in rosa.
Chi sono le attiviste impegnate per l'Amazzonia e contro il nucleare.
Non si sono fatte spaventare né da Putin che vuole vendere le sue centrali nucleari, né dai minatori illegali che spianano foreste e inquinano i fiumi dell'Amazzonia.
Sono le donne oggi le principali paladine dell'ambiente. Su sette vincitori, un solo uomo: le donne la fanno da padrone quest'anno al Goldman Prize, il Nobel dell'Ecologia, istituito nell'89 dai filantropi californiani Richard e Rhoda Goldman.

Makoma Lekalakala, 53 anni, e Liz McDaid, 55, sono due signore sudafricane dall'aria un po' alternativa, la prima nera, la seconda bianca. Entrambe guidano ong ecologiste. Nel 2014, l'organizzazione di Lekalakala scopre un accordo segreto fra il governo sudafricano del presidente Jacob Zuma e la Russia per la costruzione di otto-dieci centrali nucleari. Un affare da 78 miliardi di dollari. Le due donne lanciano una campagna con marce e sit-in in tutto il Paese e portano l'accordo davanti all'Alta Corte di Città del Capo. Questa nel 2017 stabilisce che l'intesa è incostituzionale e la fa saltare.

La colombiana Francia Marquez, 36 anni, che vive sulle montagne del Sud Est colombiano, ha guidato una marcia di 80 donne per 350 chilometri fino alla Capitale Bogotà, per chiedere la chiusura delle miniere d'oro illegali nella sua regione: qui le donne manifestano per strada per 22 giorni, finché il governo accetta di intervenire per chiudere le miniere illegali.

Khanh Nguy Thi, scienziata vietnamita, ha avuto un ruolo determinante nello spingere il suo governo a ridurre la dipendenza dal carbone e incrementare le rinnovabili.

LeeAnn Walters, statunitense, ha portato alla luce l'inquinamento dell'acqua potabile nella cittadina di Flint, nel Michigan.

La francese Claire Nouvian ha guidato con successo la campagna contro la pesca con le reti a strascico di profondità.

Mentre l'unico uomo vincitore è il filippino Manny Calonzo, che ha guidato la campagna che ha portato al bando nel Paese delle vernici al piombo.

http://www.letteradonna.it/it/articoli/fatti/2018/04/23/nobel-ecologia-2018-donne/25746/
   

mercoledì 25 aprile 2018

La Resistenza di Rossana Rossanda (da R.Rossanda, “La ragazza del secolo scorso”, Einaudi 2005)

“Ho avuto spesso paura. Le scelte obbligate sono serie. Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in una avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto, non molto, nulla di impossibile; il più era ripetere gesti e strade ignorando se qualcuno mi osservava, sapendo di contar poco e però sussultando davanti ai proclami di Kesselring, freschi sul muro, che mi informavano come per meno del niente che facevo sarei stata impiccata. Essere impiccata mi faceva orrore, li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate. Non li posso guardare, non ho retto neanche i corpi appesi per i piedi a piazzale Loreto. Non era la morte, alla quale ci si abitua a testa bassa come a qualcosa che c’è sempre stato. E’ che la morte si può guardare finché porta ancora una traccia di chi era vissuto (…)”

“Prendere e portare stampa clandestina, messaggi, armi, medicine, fasce, e cercar soldi -con l’aria di fare un favore a chi te ne dava- non era difficile. Gli appuntamenti erano precisi, nessuno mancava, e se mancava si sapeva che cosa fare, chi avvertire e come. Non ci facevamo domande, ci proteggevamo l’un l’altro. E si tastavano in giro gli umori, le caute disponibilità, di chi magari non aveva saputo a chi rivolgersi, dove dare la testa. Al ritorno da Milano a Como mi aspettava alla stazione Pino Binda, un bel ragazzo biondo: dovevamo parere due innamorati che sottobraccio facessero due passi, qualche volta concedendosi un polveroso tè in piazza; gli passavo e ne ricevevo materiali e notizie. In bicicletta arrivavo a Ponte Chiasso o Argegno sotto la Val di Lanzo o fino a Varese; erano in bicicletta tutti, carichi di valigie o pacchi, la guerra è tutto un trasportare.”

“Era una liberazione, la liberazione. La fine di un’angoscia, la fine di un’epoca, si sarebbe ricominciato tutto, per qualche giorno fui trasportata anche io, anche Mimma –quel tanto che potevo nel silenzio di mio padre, anche lui sollevato, ma c’era tra noi quel gelo. In piazzale Loreto guardai i corpi sospesi per i piedi. Erano come sfatti, qualcuno aveva per pietà legato la gonna della Petacci sopra le ginocchia, i volti erano gonfi e anonimi, come se non fossero vissuti mai, cadaveri non ricomposti.”

“Oggi qualcuno si indigna che più d’una vendetta fosse tratta a guerra finita, in quei giorni e dopo. Come se una guerra che era stata anche fra la stessa gente si chiudesse a una certa ora. Non si chiude niente finché il tempo non passa e oblitera, lasciando lungo la strada chi non sa dimenticare. E noi non tornavamo integri a casa come gli inglesi o i russi o gli americani. Noi avevamo un lungo strascico che sprofondava negli anni di complicità o inerzia.”
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1756506831251904&id=100006778116561

giovedì 19 aprile 2018

Bandiere arcobaleno e fili colorati: Falsh mob per la pace a Corsico. I colori arcobaleno delle bandiere hanno illuminato la piazza, mentre i bambini tessevano i “fili della pace”

Ho dipinto la pace poesia di Tali Sorek israeliana

Avevo una scatola di colori,

brillanti, decisi e vivaci.

Avevo una scatola di colori,

alcuni caldi, altri molto freddi.

Non avevo il rosso per il sangue dei feriti.

Non avevo il nero per il pianto degli orfani.

Non avevo il bianco per le mani e il volto dei morti.

Non avevo il giallo per le sabbie ardenti.

Ma avevo l'arancio per la gioia della vita.

E il verde per i germogli e i nidi.

E il celeste dei chiari cieli splendenti.

E il rosa per i sogni e il riposo.

Mi sono seduta e ho dipinto la pace.

Bandiere arcobaleno e fili colorati: Falsh mob per la pace a Corsico. I colori arcobaleno delle bandiere hanno illuminato la piazza, mentre i bambini tessevano i “fili della pace”..di Fancesca Grillo

Falsh mob per la pace


“Avevo una scatola di colori brillanti, decisi, vivi. Non avevo il rosso per il sangue dei feriti. Non avevo il nero per il pianto degli orfani. Non avevo il bianco per le mani e il volto dei morti. Ma avevo l’arancio per la gioia della vita, e il celeste dei chiari cieli splendenti, e il rosa per i sogni e il riposo. Mi sono seduta e ho dipinto la pace”.
Le parole della poesia della tredicenne israeliana Talil Sorek hanno riempito la piazza della Fontana dell’Incontro, insieme a oltre cento persone che si sono radunate per dire no alla guerra. I colori arcobaleno delle bandiere hanno illuminato la piazza, mentre i bambini tessevano i “fili della pace”, per annodare amore e lasciare fuori dalla rete l’odio e la paura. Su un palco improvvisato si sono alternate le voci della guerra e dalla pace.

Poesie che raccontano il dolore e la speranza.
“Se fossi madre cercherei di portarlo lontano, dove la guerra non c’è. Se fossi madre avrei una speranza. Che altre madri lo portassero in salvo. Se fossi madre inventerei storie di pace. Mi trasformerei in sogno, per lui”. E ancora il Promemoria allegro ma intenso di Rodari: “Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra”.

Poi le parole che sono arrivate dritte al cuore della giovane premio Nobel per la Pace, la pachistana Malala Yousafzai. Per fare la pace ci vuole coraggio, molto più che per fare la guerra, ha detto Papa Francesco. Ed è il coraggio di fare pace che si è respirato ieri, con i grandi ma anche con tanti bambini che sventolavano le bandiere arcobaleno di lotta e speranza. “Combattere per la pace è il primo compito delle forze democratiche – hanno detto i partecipanti –: occorre dimostrare la nostra convinzione”.


http://giornaledeinavigli.it/attualita/bandiere-arcobaleno-fili-colorati-falsh-mob-per-la-pace-corsico/





















martedì 17 aprile 2018

Se fossi una madre dentro una guerra… di Penny*

Se fossi una madre
dentro a una guerra
che non è la mia
Mi farei scudo, per lui.

Se fossi una madre
nasconderei mio figlio in una valigia
dentro a un camion
su un barcone
Sarei stiva, per lui.

Se fossi una madre
scavalcherei il filo spinato
abbatterei i muri
scalerei le montagne
Rischierei la vita, per lui.

Se fossi una madre
attraverserei il deserto
soffrirei la sete
Mi fare schiava, per lui.

Se fossi madre
cercherei di portarlo lontano.
Dove la guerra non c’è.

Mi farei corazza. Ombrello.
Grembo. Teleferica. Madonna. Puttana.
Farei di tutto, per lui.

Se fossi madre
avrei una speranza.
Che altre madri
ti portassero in salvo.

Se fossi madre
inventerei storie di pace
per proteggere la speranza
Mi trasformerei in sogno, per lui.

Una notte qualunque.
Sotto un cielo senza stelle.
Ne inventerei uno nuovo, per lui.
https://comune-info.net/2018/04/se-fossi-una-madre/

venerdì 13 aprile 2018

Otto buoni motivi per dirsi ancora femministe di Lea Melandri 2015 01 MAGGIO

Numero 1: Tutti sappiamo cosa vuol dire essere maschi o femmine, ma è come se ognuno/a singolarmente dovesse scoprirlo
Mentre si va sempre più diffondendo l’attenzione agli stereotipi del maschile e del femminile, e alle cosiddette «problematiche di genere», nessuno sembra essersi accorto che se c’è uno stereotipo duraturo è proprio il femminismo, la rivoluzione delle coscienze che ha messo a tema il rapporto di potere tra i sessi e la cultura che lo ha trasmesso lungo una storia millenaria.
Effetto dell’ignoranza o di una volontaria messa sotto silenzio, la banalizzazione e gli storpiamenti che hanno subito le teorie e le pratiche del movimento delle donne, da cinquant’anni a questa parte, appaiono incomprensibili se messi a confronto con il profluvio di parole come gender, transgender, queer, lgbtq, che oggi occupano il dibattito pubblico e di cui sembra essersi persa l’origine.
Ho pensato perciò che non fosse inutile richiamare alcuni dei passaggi che hanno fatto della cultura femminista la critica più radicale alla politica tradizionalmente intesa, alla divisione sessuale del lavoro e a un modello di civiltà distruttivo nei suoi fondamenti, oggi più visibili che in passato.
Alla domanda «perché ha ancora senso dirsi femministe», risponderei così:

– Perché il salto della coscienza storica prodotto dal femminismo non si esaurisce con una generazione. Tutti sappiamo cosa vuol dire essere maschi o femmine, ma è come se ognuno/a singolarmente dovesse scoprirlo, partendo da una domanda che nasce dentro di sé, per rendersi conto che i ruoli e le identità di genere, il rapporto di potere tra i sessi, non appartengono alle leggi immutabili della natura, ma alla storia, alla cultura, alla politica, e come tali possono essere modificate.

– Perché il femminismo non è un’ideologia, legata a una fase storica particolare, ma un cambiamento nella consapevolezza che si ha di sé e del mondo, un modo diverso di pensare e agire nella vita privata e pubblica, un processo di liberazione da pregiudizi, schemi mentali, costruzioni immaginarie che abbiamo inconsapevolmente ereditato dalla cultura dominante.

– Perché è stato il primo e finora l’unico movimento di donne che ha mostrato l’inganno del dilemma, proprio dell’emancipazionismo, «uguaglianza/differenza»: omologazione al maschile o tutela/valorizzazione della differenza femminile, un dualismo conseguente alla divisione sessuale del lavoro, all’identificazione della donna con la madre e con gli interessi della famiglia. Da qui viene l’attualità del femminismo in quanto interprete dei cambiamenti a cui stiamo assistendo: presenza sempre più incisiva e critica delle donne nella sfera pubblica; la cura vista come responsabilità collettiva di donne e uomini; riscoperta del tempo di vita come valore rispetto alle logiche produttive e di mercato.

– Perché ha portato la riflessione e la presa di coscienza sul corpo, sulla sessualità, sulla violenza che si annida nei rapporti più intimi, sulla maternità, cioè sulle esperienze che, lasciate per secoli fuori dalla storia, conservano più a lungo l’eredità del passato.

– Perché ha legittimato le donne a «vivere per sé», a riconoscersi come persone, individui e non solo ruoli funzionali al benessere di altri.

– Perché ha fatto scoprire che era possibile una socialità tra donne non segnata dallo sguardo maschile che le ha tenute per secoli divise –madri di, mogli di, figlie di-, un’amicizia produttrice di intelligenza e creatività individuale e collettiva.

– Perché nonostante sia stato osteggiato, messo sotto silenzio, temuto e fatto oggetto di scherno, ha mantenuto la sua forza, la capacità di produrre pensiero, iniziativa, conflitti, di alimentare passioni durature, che ricompaiono di generazione in generazione.

– Perché dopo mezzo secolo, la generazione che vi ha dato avvio negli anni ’70 si è sentita dire al convegno di Paestum (ottobre 2012) dalle donne venute dopo, alcune delle quali molto più giovani: «siamo coetanee», «se siamo qui con voi è perché ci avete trasmesso molto».
http://27esimaora.corriere.it/articolo/otto-buoni-motivi-per-dirsi-ancora-femministe/

mercoledì 11 aprile 2018

I femminicidi in famiglia non si arrestano, ma per l'informazione restano sempre "inspiegabili" di Lea Melandri

Il rapporto tra gli uomini e le donne, il perverso tragico annodamento di dominio e amore, deve essere davvero la “roccia basilare” contro cui si arrestano ragione, cultura, responsabilità civile e morale, se a nessuno viene in mente di chiedersi la cosa più banale e più sensata: perché la decisione di una donna di separarsi riesce a scatenare la furia omicida-suicida dell’uomo che con lei ha vissuto e visto crescere figli.
La maggior parte dei casi di violenza maschile all’interno della coppia, negli ultimi anni, è motivata infatti dalla scelta della donna di interrompere una convivenza divenuta evidentemente insopportabile, da una affermazione di libertà dovuta al rispetto di se stessa, o al semplice desiderio di dare una svolta alla propria vita. L’aggettivo “inspiegabile”, che la cronaca usa ormai ritualmente per questi delitti, è la maschera di una ipocrisia, o comunque di una incuria, generalizzate, che non accennano a incrinarsi: “inspiegabile” vuol dire, in questo caso, qualcosa su cui non si vuole riflettere e fare chiarezza, una evidenza -il volto violento dell’amore- che deve restare invisibile.
Non ci vogliono conoscenze particolari della vita di relazione e della vita psichica di un individuo, per sapere che la “normalità” di una coppia, di una famiglia, così come viene ripetuta fino alla nausea nelle testimonianze del vicinato, significa essenzialmente che nessuno sa più cosa succede oltre le pareti della propria casa, del suo cortile, e se lo sa, tace per quieto vivere o perché all’invadenza della comunità chiusa paesana non abbiamo saputo finora sostituire nessuna altra forma, libera e solidale, di socialità.
Non serve neppure una preparazione psicanalitica, per capire quanto sia legata l’idea proprietaria su cui si è retta storicamente la famiglia - la dipendenza psicologica, giuridica, morale, affettiva, che essa struttura, tra marito e moglie, madre e figli-, con le pulsioni aggressive che vi crescono dentro inevitabilmente, e che in taluni casi provocano gli effetti nefasti che conosciamo.
C’è una responsabilità, si potrebbe dire una colpevolezza, più odiosa di quella dell’uomo che uccide uccidendosi a sua volta o passando il resto della sua vita in carcere: è quella di una società -di maschi prima di tutto, ma anche di donne- che non pronuncia una parola, non muove un passo, non fa il minimo gesto perché questa infamia che si protrae da secoli sia almeno portata allo scoperto, analizzata per la centralità che ha nella vita di tutti, per il peso che ancora sostiene nel dare alla sfera pubblica la sua apparente autonomia, il suo arrogante disinteresse per quel retroterra dove, in nome dell’amore, si consumano una quantità enorme di lavoro e di energie femminili.
Ormai dovrebbe essere nella consapevolezza di tutti che il privilegio maschile nella società comincia nelle case, che il potere dell’uomo sulla donna passa, prima di tutto, da quell’appropriazione del corpo delle donne –sessualità, capacità generativa e lavorativa- che ancora oggi ha nella famiglia il suo fondamento “naturale”, nella “norma eterosessuale” la sua copertura ideologica. Nonostante che gli omicidi quotidiani -di donne, prevalentemente, ma non solo- abbiano tolto da tempo alla famiglia la sua immagine tradizionale di ‘luogo sacro’, focolare dell’amore, culla di teneri affetti, riposo del guerriero, nonostante che la diffusa pedofilia si annidi proprio nelle stanze che si vorrebbero destinate ad altra intimità, la famiglia resta il grande rimosso dell’insicurezza sociale, delle paure reali o ingigantite ad arte, la zona di passioni “inspiegabili” per una cultura di massa che, per un altro verso, pretende di portare tutto allo scoperto, e che oggi penetra più o meno cinicamente, per ragioni scientifiche commerciali, politiche, moraliste o religiose, fin nelle pieghe più insondabili della nascita, della morte, della maternità, della malattia.
E’ facile fare una battaglia perché si limiti il porto d’armi, perché cessi la campagna sicuritaria da parte di politici interessati a raccogliere consensi giocando sull’emotività della gente più indifesa. Più difficile è guardare senza orrore e senza arretramenti quel coltello che compare sulle cucine, sulle tavole, e che somministra cibo e morte, arma a doppio taglio proprio come il legame che stringe amore e odio intorno alla coppia, alle parentele, alle convivenze.
All’interno delle case, in nuclei famigliari sempre più ristretti, si gioca ancora la partita del potere, dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza più resistente a ogni cambiamento, per la radice antica e per la complessità, contraddittorietà, delle esperienze che vi sono implicate.
Ma c’è, e non da ora, una storia e una cultura politica di donne che ha osato portare lo sguardo oltre i confini della polis, scoperchiare mascheramenti ideologici secolari, riformulare da quell’ ‘altrove’, cellula prima di ogni forma di dominio, l’idea stessa di politica. Se, nonostante il pervicace silenzio di cui è fatta oggetto, torna da più di un secolo a riempire piazze e strade, si può ancora far finta di non vederla ma non si può non sapere che esiste.
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2090649297837654&id=100006778116561

lunedì 9 aprile 2018

Per un’etica femminista della cura DI SIMONASFORZA

La mia riflessione di oggi parte dalla lettura di alcuni passaggi del testo di Carol Gilligan La virtù della resistenza. Siamo nel 1973, anno in cui la Corte Suprema legalizzò l’aborto negli USA. La sentenza Roe versus Wade, rese l’altruismo, virtù femminile per eccellenza, qualcosa di problematico, per niente scontato. Scrive Gilligan: “Ascoltando le donne, fui colpita più e più volte da come l’opposizione tra egoismo e altruismo aveva il potere di informare i loro giudizi morali e guidare le loro scelte”. Per alcune era “egoista” qualunque scelta, di avere o meno un figlio, mentre erano disposte (la consideravano una buona cosa) a seguire quanto un’altra persone gli chiedeva di fare. “Nina raccontò che stava per abortire perché il suo ragazzo voleva finire la facoltà di legge e contava sul suo appoggio. Quando le domandai cosa voleva lei, rispose: “Cosa c’è di male nel fare qualcosa per qualcuno che ami?”. Viene considerato positivo essere empatici con gli altri, mentre diviene egoista essere sensibile ai propri bisogni.
Questo chiaramente evidenzia un’interferenza culturale notevole, che spinge le donne verso questo ragionamento automatico e che ammutolisce la loro voce interiore che esprime ciò che sono e desiderano realmente. Quella voce non è scomparsa, ma è sepolta sotto una coltre culturale di stampo patriarcale. In questo universo, la cura è un’etica femminile, non universale. Prendersi cura è ciò che rende la donna virtuosa, chi si prende cura di qualcosa o di qualcuno sta compiendo un “lavoro da donne”. Coloro che si dedicano agli altri, sono sensibili ai loro bisogni, attenti alla voce degli altri sono persone altruiste. “In una cornice democratica, la cura è un’etica dell’umano. Un’etica femminista della cura, in una cultura patriarcale, rappresenta una voce differente, poiché associa la ragione all’emozione, la mente al corpo, il sé alle relazioni, gli uomini alle donne, resistendo alle divisioni che sostengono l’ordine patriarcale”. Un’etica femminista della cura si fonda su un’interpretazione della democrazia più densa che superficiale (mutuando la distinzione sulle culture operata dall’antropologo Clifford Geertz). Un’interpretazione superficiale omologa le differenze nel nome dell’uguaglianza, al contrario una “densa” si basa sul fatto che voci differenti sono sintomo di vitalità di una realtà democratica. E questo si potrebbe applicare a tanti aspetti della nostra realtà contingente.
Le difficoltà di un affermarsi di un’etica femminista, secondo Gilligan, risiedono nel fatto che a essere contrastato è lo stesso femminismo. Negli USA si sono evidenziati i conflitti tra aspirazioni democratiche nelle istituzioni e nei valori fondanti la federazione di stati, e un perpetuarsi di una tradizione fondata su privilegi e potere patriarcale. Le sfide degli anni ’60 e ’70 inclusero questo attacco frontale all’ordine patriarcale, per raggiungere una piena democrazia, per ridefinire i concetti di virilità e di femminilità, con un movimento trasversale: pacifisti, movimento delle donne e di liberazione gay.
Per la prima volta essere uomo non significava automaticamente essere soldato, per una donna il destino non era unicamente quello di essere madre. La sessualità e la famiglia assumevano nuove forme. Ancora oggi il dibattito è acceso su aborto, matrimonio gay e guerra (sono temi caldi su cui si scontrano ancora i candidati repubblicani e democratici), ma qualcosa è cambiato per sempre. Si sono compresi molti aspetti, e per quanto concerne il nostro tema, cura e prendersi cura son passati da una dimensione prettamente femminile, a qualcosa che interessa l’umano.
Gilligan sottolinea l’importanza di “rendere esplicita la natura di genere del dibatto giustizia contro cura… e di comprendere come il tema dell’equità e dei diritti interseca il tema della cura e della responsabilità”. “Non opprimere, non esercitare potere ingiustamente o avvantaggiarsi a scapito di altri”, sono ingiunzioni morali che vivono a stretto contatto con imperativi morali quali “non abbandonare, non trattare con noncuranza” o restare indifferenti a richieste di aiuto, nel quale rientriamo anche noi stessi. Equità e diritti sono il nocciolo delle normative. Gilligan scrive: “Se le donne sono persone e le persone hanno dei diritti, anche le donne hanno dei diritti”. Prendersi cura esige empatia, attenzione, ascolto, rispetto… La cura è un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo”. Iniziamo a scardinare un primo elemento.
Gilligan poi, trattando di giustizia vs cura, introduce una contrapposizione tipica del patriarcato: la giustizia sta dal lato della ragione, della mente e del sé (attributi maschili), mentre la “cura” sta dal lato del corpo, delle emozioni delle relazioni (associati alla donna). Attraverso questa divisione il ruolo della donna viene al contempo idealizzato e svalutato, subordinando la cura alla giustizia, asservendola e relegandola a una dimensione relazionale. In questo quadro è facile che in nome della femminilità si chieda alla donna di sacrificare i suoi diritti in nome di relazioni pacifiche, per non incrinare gli equilibri e garantire una vita serena, priva di conflitti (naturalmente all’uomo). Demolendo le separazioni e le gerarchie patriarcali, si potrebbe affermare un modello di relazioni in cui ognuno possa avere voce, essere ascoltato con attenzione e rispetto, indipendentemente dal genere.
Invece, siamo tuttora schiavi di certi meccanismi, per cui la donna che tiene alla relazione è virtuosa, mentre l’uomo indipendente, autonomo è moralmente integro. La morale finisce con l’allinearsi “ai codici di genere dell’ordine patriarcale, rafforzandoli”. Il “curarsi di” finisce con l’essere intrinseco di un genere. Sulla donna si riversano aspettative e oneri, con una lotta incessante a incarnare quel modello. Quel mettere da parte “noi stesse”, per curarci di qualcosa o di qualcuno è una incarnazione di regole secolari fondate su una “dissociazione di genere”, la chiamerei così. Quel rimboccarci le maniche e rinunciare alla nostra voce perché così hanno fatto per secoli altre donne prima di noi. Ce lo sentiamo ripetere continuamente, un richiamo all’ordine dei ruoli femminili, e anche se dentro di noi sappiamo benissimo a cosa corrisponde, ci risulta tuttora arduo scardinare queste “usanze”, principalmente perché alla fine siamo sole. L’unica nostra forma di resistenza è affermare che abbiamo preso coscienza che c’è altro, che si può concepire diversamente le relazioni e gli equilibri di genere. E che è possibile uscire dalle gabbie culturali unicamente dandoci delle alternative, oggi noi donne abbiamo una alternativa, possiamo studiare, leggere, parlare tra noi, capire che quello che ci si aspetta da noi può non corrispondere con i nostri bisogni e con i nostri diritti.
https://simonasforza.wordpress.com/2015/04/28/per-unetica-femminista-della-cura/

giovedì 5 aprile 2018

Le donne ‘schiave’ della loro forza? di Lea Melandri

“Il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio” (Sibilla Aleramo)

A sottrarre la cura alla naturalizzazione che ne aveva fatto per secoli un destino femminile, confuso con l’attitudine materna e con l’amore, era già stata negli anni ’70 Lotta Femminista: un lavoro gratuito che di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale, svolto –come scrive Antonella Picchio– fuori dalle negoziazioni dirette con le imprese e per lo più tacitato e invisibile nelle negoziazioni con lo Stato”. Ma a distanza di tempo forse è possibile fare un passo ulteriore, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare o la monetizzazione dello Stato, e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellare.
E’ su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata, diventare un “paradigma di interesse generale”, così da far apparire definitivamente superata l’idea di conciliazione come problema delle donne e l’idea delle donne come categoria del lavoro. Se non è più subalternità, dedizione, costrizione, ma neppure ruolo materno e salvifico delle donne, se è restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi, ma anche benessere, buona vita, “passione dell’uomo” nel senso marxiano, allora effettivamente la posta è più alta e si può ambire a proporre una soluzione all’altezza dei tempi e dei problemi di oggi.
Punto di avvio non può essere che la crisi di quel “monumento del lavoro”, dottrinario, istituzionale, e tutto di stampo maschile, che si è stabilito nel secolo scorso e che ha fatto del lavoro un oggetto da regolamentare in funzione degli interessi dell’impresa e del capitale. La rivoluzione possibile viene dunque immaginata come un capovolgimento di quello che è stata finora la gerarchia tra fini e mezzi: il lavoro guardato a partire dalla vita, un’economia dove l’obiettivo non sia lo sviluppo della ricchezza ma lo sviluppo umano.
Le donne possono oggi dire un “doppio sì” alla carriera e alla famiglia, a patto che non gravino su di loro le ore e ore di lavoro materiale che si rendono necessarie quando ci si deve occupare dei corpi di bambini e anziani, dei luoghi dove questi corpi stanno o devono stare. In altre parole, quando, come osserva qualcuna, curare l’altro è dimenticarsi di sé, sopportare un lavoro massacrante e spesso disgustoso. Il coinvolgimento emotivo può essere più o meno forte, ma non è mai del tutto assente, neppure quando la cura è affidata a persone pagate per questo, come le donne straniere che la globalizzazione ha spinto nel mercato della cura.
Ma anche nel caso che questa secolare funzione femminile non sia delegata ad altri, basta ascoltare le esperienze di ogni singola donna -come ha fatto per anni il gruppo scrittura della Libera Università- per rendersi conto che altrettanto difficile è separare costrizione e scelta, piacere e potere. Non c’è dubbio che venire incontro al bisogno dell’altro è anche un modo per esercitare un controllo, rendersi indispensabili, creare dipendenza al di là del necessario.
“Il mio potere -scriveva già Sibilla Aleramo- era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
Quante donne sono ancora schiave della loro forza? Quanto è ancora legata la funzione materna alla loro identità, al bisogno di contare e dare un senso alla propria vita? Quante sono disposte a riconoscere che il sacrificio di sé per il bene di un figlio può pesare su di lui come un macigno, un debito inestinguibile?
Sono domande a cui è ancora la pratica ereditata dalla stagione più radicale del femminismo, che può far fronte: dare parola alla soggettività, ascoltare dal racconto delle stesse lavoratrici la storia delle loro aziende -cosa si produce, come si produce-, e dall’esperienza di una giudice del lavoro che cosa è oggi la precarietà per i giovani, fatta di contratti a termine, di attese angosciose di proroghe e contenziosi giudiziari. Una volta saltati i confini tra produzione e riproduzione, caduti gli steccati della differenziazione astratta che ha contrapposto il corpo e la polis, il vissuto del singolo e i saperi “oggettivi”, la strada che si apre è quella della ricerca di nessi che ci sono sempre stati, ma che oggi forse è possibile portare alla coscienza e orientare verso nuove soluzioni.
http://www.womenews.net/le-donne-schiave-della-loro-forza/

mercoledì 4 aprile 2018

Se il morbillo si cura col vaccino e il femminicidio con un piatto di spaghetti di Emanuela Valente

E se la vera epidemia non fosse il morbillo ma il femminicidio? Nel 2017 in Italia sono morte 4 persone per morbillo e 116 donne per femminicidio. La violenza assistita coinvolge circa 40mila bambini, contro i circa 4mila che contraggono malattie esantematiche. Perché allora tanta attenzione preventiva solo verso le patologie infettive? Anche la violenza contro le donne può essere prevenuta e curata: basta fare campagne informative corrette e formare gli specialisti in grado di adottare le giuste misure terapeutiche.

Sono 4885 i casi di morbillo registrati in Italia nel 2017, di cui 4 decessi. Il 90% dei casi è stato segnalato da 8 Regioni. Il 95% dei casi era non vaccinato o aveva ricevuto solo una dose di vaccino. Nello stesso periodo sono stati segnalati 65 casi di rosolia (senza decessi). Sono questi i dati ufficiali diffusi dal bollettino Iss e pubblicati nel portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica. Già, perché le malattie esantematiche esiste un vero e proprio osservatorio che raccoglie ed analizza i dati di ogni regione italiana. In questo modo è possibile osservare ed eventualmente controllare il diffondersi di epidemie, anche se si tratta di patologie a basso tasso di morbosità e ancor meno di mortalità. Eppure, per evitare anche il più piccolo rischio di veder comparire ad un tratto macchioline rosse o papule a grappoli, il Ministero della Salute ha decretato l’obbligatorietà di 10 vaccini per raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”. Non importa, cioè, se il 95% della popolazione avrebbe effettivamente contratto una malattia come la pertosse o la parotite: quello che conta è che venga prevenuto questo possibile rischio.

Sono oltre 10mila le denunce di violenze in famiglia, più di 3mila le violenze sessuali, circa 9mila le denunce per stalking raccolte solo nei primi 10 mesi del 2017. 116 le donne uccise, migliaia quelle “quasi uccise” lo scorso anno. In tutte le regioni d’Italia. Si tratta evidentemente di numeri enormi rispetto ai precedenti e altamente significativi rispetto alla popolazione. Eppure per questo tipo di “epidemia” non è stato ancora istituito un osservatorio ufficiale ed univoco cui fare riferimento, non ci sono linee guida o specialisti incaricati di gestire l’emergenza e, per dirla tutta, non c’è neppure un dicastero che se ne occupi in maniera efficiente. Il femminicidio viene ignorato dal codice penale, sottolineato dal correttore automatico di Word e camuffato persino da alcuni giornalisti, che preferiscono varianti come l’”omicidio-suicidio”, l’uccisione “per non farla soffrire”, il sempreverde “raptus” accompagnato dalla “gelosia” paranoica o dall’insostenibile “dolore per l’incomprensibile separazione”. Come definire “crampi” gli spasmi del tetano o “brufoli” i rush cutanei del morbillo.

La violenza domestica è tabù anche nei tribunali. Le donne che chiedono la separazione in molti casi non vengono credute o nemmeno ascoltate: più di una racconta che, pur essendo stata costretta a descrivere fin nei minimi dolorosi particolari i maltrattamenti subiti, in nessuna delle relazioni presentate al magistrato è stata riportata (dai ctu, dagli psicologi o dagli assistenti sociali incaricati dal giudice) la parola “violenza”, piuttosto sostituita con “conflittualità”: un disagio reciproco insomma, invece che un comportamento agito da una parte e subito dall’altra - come l’ “ennesima lite” tanto cara alla stampa. Fifty-fifty. Come dire che la poliomielite te la sei andata a cercare. Le madri che denunciano violenze familiari spesso vengono sottoposte a perizie psicologiche. La loro genitorialità viene messa a rischio o per lo meno in discussione.

Quando una donna si reca al commissariato per denunciare il marito - specialmente se padre dei suoi figli - talvolta trova davanti a sé un altro uomo che la invita a desistere. Incoraggiandola a fare di meglio (“signora, torni a casa, faccia un bel piatto di spaghetti a suo marito e vedrà che tutto si risolve”) o mettendole ancora più paura (“signora, se lei ora denuncia suo marito io poi sono costretto a chiamarlo, e dopo non è peggio? Poi lui dirà che non è vero niente e la controdenuncerà per calunnia”). Si tratta di frasi raccolte da testimonianze reali. I bambini sono quelli che maggiormente pagano il prezzo di questo modus operandi omertoso: in Italia sono 1600 i bambini e gli adolescenti orfani di femminicidio e si stima che oltre 40mila bambini ogni anno assistano alle violenze che si consumano tra le mura di casa.

Per le madri non c’è modo di salvaguardarli: o continuano a cucinare spaghetti facendo finta che tutto vada bene, nonostante il ripetersi degli episodi violenti, o rischiano di vedersi sottrarre i minori, magari portati via dalla polizia come criminali mentre sono tranquillamente a scuola, perché il padre le “controdenuncerà”. L’importante è che i bambini siano vaccinati. Non avranno mai pustole e non contageranno nessuno con l’herpes zoster, ma le conseguenze e le complicanze della violenza domestica, e talvolta quelle dell’intervento dei servizi sociali, lasciano segni indelebili più di qualsiasi varicella. Ne sanno qualcosa i tanti genitori che hanno dovuto combattere per riavere i propri figli, ne sanno qualcosa le madri di quei bambini costretti comunque a vedere il genitore maltrattante, ne sanno qualcosa anche i parenti affidatari dei bambini che hanno assistito all’uccisione della propria madre ad opera del proprio padre.

Provate ad immaginare di recarvi dal pediatra portando vostra figlia coperta di bollicine e che il medico, invece di visitare la bambina, iniziasse a chiedervi con tono di biasimo come gliele avete fatte venire, magari facendovi domande intime sulla vostra vita fin prima della gravidanza. Che, invece di individuare la malattia come morbillo piuttosto che rosolia o scarlattina, si limitasse a dirvi di non preoccuparvi: qualunque cosa sia, passerà. Che, invece di agire subito, vi rispondesse “aspettiamo, vediamo che succede, magari non peggiora”. Che, invece di prescrivervi la terapia adeguata ad evitare complicanze, vi invitasse a trovare da soli una soluzione qualsiasi, magari “un bel piatto di spaghetti e passa tutto”. Come vi sentireste? E cosa fareste, rimarreste in silenzio? O pensereste di avere tutto il diritto di denunciare quel medico, di stare subendo un sopruso o quanto meno una omissione di soccorso?

La violenza domestica ha sintomi evidenti come il gonfiore degli orecchioni: basta solo voler guardare e saperli riconoscere. Per uno specialista adeguatamente formato non è più difficile che per un medico generico individuare una malattia esantematica, e capire subito il grado di rischio. Definire la violenza e prendere immediati provvedimenti è importante come riconoscere un virus, isolarlo e trattarlo prontamente. La letteratura a riguardo non manca, i dati sono in costante aggiornamento e chiunque può raccontare di avere conosciuto, direttamente o indirettamente, una situazione di violenza. Né più né meno come si potrebbe dire di avere avuto la varicella o avere conosciuto qualcuno che l’ha avuta. Le misure preventive o terapeutiche, esattamente come i vaccini e i farmaci antivirali, esistono e potrebbero essere determinanti per un consistente abbattimento del fenomeno. Basterebbe già solo applicare la Convenzione di Istanbul, appositamente redatta da diverse nazioni e già recepita dall’Italia, che vieta le mediazioni familiari, le negoziazioni e l’affido condiviso in caso di violenze domestiche. Perché, allora, nei tribunali italiani si disattende la legge invece che applicarla? Perché una donna che lamenta maltrattamenti da parte del marito viene costretta dal tribunale ad incontri e negoziazioni con l’abusante? Perché, invece di essere tutelata e protetta, viene esposta ad ulteriori violenze a cominciare dalla negazione della sua credibilità per il solo fatto di essere donna? Ritenere la parola di una donna che denuncia le violenze meno credibile di quella di un uomo che le nega, non è in sé una grave forma di discriminazione sessuale? Perché il “garantismo” su cui si fonda il nostro sistema giudiziario garantisce di fatto i diritti dell’uomo e del padre prima che quelli della donna e dei bambini? Quando una donna va dal medico con una forte eruzione cutanea non le viene detto “signora, è sicura di avere delle bolle?”.

Quando una mamma chiama il pediatra perché il figlio ha la febbre alta e spasmi muscolari le viene forse chiesto “signora, mi passi il padre del bambino così chiedo a lui se è proprio così”? Cosa ci sarebbe di tanto sbagliato nel voler essere “garantisti” verso una donna che si sente in pericolo e chiede di essere protetta? La possibilità che qualche uomo venga accusato ingiustamente? La probabilità è più o meno la stessa di una diagnosi sbagliata: può succedere, ma è predominante il principio dell’ubi maior.

I numeri non mentono: se il numero dei femminicidi è oltre 100 volte più alto delle morti per morbillo, e il rischio di subire violenza per una donna è innumerevoli volte più grande del rischio di contrarre una malattia esantematica, perché non agire in modo da raggiungere “l’immunità di gregge”? Basterebbe innanzitutto ascoltare ed accogliere le denunce per violenze esattamente come quelle per qualunque altro reato, senza fare domande o commenti, senza dare consigli non richiesti, senza arrogarsi il diritto di decidere se quella denuncia deve essere fatta o no, senza giudicare in base alle proprie personali credenze se la persona che denuncia sia o no attendibile. Basterebbe dare seguito a quelle denunce, e anche agli esposti se contenenti reati procedibili d’ufficio, basterebbe non archiviarle (ad oggi viene archiviata una denuncia su 4), arrogandosi il diritto di decidere se quella paura e quelle minacce sono reali o solo verosimili. Basterebbe seguire un iter giudiziale rispettoso nei modi e nei tempi, che anteponga fattivamente la sicurezza della donna e dei bambini, il fondamentale diritto alla vita rispetto a qualsiasi altro diritto. Basterebbe anche dare pene esemplari e certe, in modo che gli uomini abbiano davvero timore di commettere azioni violente e le percepiscano come gravi, affinché non si sentano impuniti e garantiti da uno Stato che sottovaluta o dolosamente ignora i reati contro le donne. Infine, per rispondere agli irriducibili sostenitori del mito delle “false denunce”: quante donne sono davvero “ipocondriache” e si divertono a chiamare il medico o a recarsi al pronto soccorso – con tutto quello che comporta - per malattie che non hanno? Certamente poche e sicuramente meno, molte, moltissime meno di quelle che stanno male davvero, che hanno dolori, papule a grappoli o si sono graffiate con un ferro arrugginito. Perché il loro diritto alla vita deve essere messo in pericolo? Ubi maior. Per ogni uomo che potrebbe essere bloccato “ingiustamente” (ipotesi facilmente evitabile se il personale preposto venisse adeguatamente formato), quanti criminali fermati in tempo e quante donne salve? Alla fine, non è importante sapere se tutti gli uomini denunciati avrebbero poi messo in pratica le proprie minacce: quello che conta, ricorda il Ministero della Salute, è prevenire il rischio.
http://27esimaora.corriere.it/18_marzo_26/se-morbillo-si-cura-col-vaccino-femminicidio-un-piatto-spaghetti-dbdee652-311e-11e8-b98c-6b7fd54f26e4.shtml

martedì 3 aprile 2018

Bellomo, non puoi proporci di subire. Questa scelta è già una violenza di CRISTINA OBBER

Il rinvio a giudizio dell'ex magistrato ci fa riflettere sugli abusi sulle donne al lavoro. Siamo davvero sicuri che «Poteva dire 'No'» sia la risposta? E se fosse sbagliata la domanda?
  L’ex Consigliere di Stato Francesco Bellomo e il suo collaboratore Davide Nalin sono stati rinviati a giudizio dalla procura di Piacenza. Il reato contestato è stalking e lesioni personali gravi. L’accusa di una corsista della Scuola di formazione giuridica 'Diritto e scienza' (che prepara al concorso in magistratura) diretta da Bellomo ha trovato, infatti, riscontri nelle deposizioni di altre studentesse che per accedere alle borse di studio dovevano sottostare al suo controllo: Bellomo imponeva loro come vestirsi, come truccarsi, si intrometteva nella loro vita privata, in particolare nella sfera sentimentale, le sottometteva a una violenza psicologica continua e sempre più umiliante e invalidante. La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura aveva, nei mesi scorsi, sospeso sia Bellomo che Nalin, pm a Rovigo, e successivamente la Commissione speciale del Consiglio di Stato aveva destituito Bellomo.
LA RESPONSABILITÀ DELLE DONNE
Bellomo si era lamentato di essere stato processato mediaticamente e a gennaio 2018 era stato ospite a Porta a Porta nel tentativo di difendersi. Aveva cercato di ribaltare sulle studentesse la responsabilità di aver accettato le paradossali clausole dei contratti proposti (tra cui la fedeltà al direttore). E su questo si divide ancora una volta l’opinione pubblica, che attribuisce, come nel caso Weinstein e Brizzi, una complicità alle donne che non si sono sottratte immediatamente agli abusi, come se ritrovarsi in una situazione che da imbarazzante si trasforma in violenza non fosse traumatizzante e dunque di difficile gestione (tutti bravi a parole). Si tende quindi a spostare il focus dall’azione del violento alla (non) reazione della vittima. Questo tende a normalizzare il tentativo maschile di esercitare un controllo sulle donne professionalmente subalterne, cosa che viene ben descritta nel film Nome di donna di Marco Tullio Giordana, la cui sceneggiatura porta la firma di Cristiana Mainardi. Nel film la protagonista Nina (interpretata da Cristina Capotondi) si ritrova sola nel dover dimostrare di non aver mentito nella sua accusa di molestia sessuale, si ritrova addirittura accusata di diffamazione. E le sue colleghe, tutte vittime delle stesse violenze da parte del direttore, le voltano le spalle negando la verità per paura di perdere l’impiego.
LA RASSEGNAZIONE È GIÀ VIOLENZA
Questo è il punto su cui dovremmo concentrare i nostri interrogativi. Non sul quando e come una donna denunci l’abuso di potere subito sul lavoro (o nell’ambito scolastico formativo), ma sul fatto che questo si compia da sempre (basti pensare alle tante storie di violenze nelle risaie o nelle filande del Novecento) e non venga messo in discussione culturalmente. Nel film di Giordana ci sono delle sequenze che mostrano le dipendenti in procinto di entrare (volontariamente certo, nessuno le costringe con la forza) nella stanza del direttore sapendo di subire abuso sessuale. Sono scene di attimi di silenzi, indugi, rassegnazione. Di una rassegnazione millenaria che noi donne ci portiamo sulle spalle e che i movimenti come #MeToo e #QuellaVoltaChe vogliono dichiarare pubblicamente ingiusta. Perchè anche quando diciamo «No», subiamo violenza di un maschile prevaricante che ci impone una scelta. Non siamo rassegnate a subire, siamo rassegnate a sentirci proporre di subire. Essere più o meno forti, più o meno capaci e pronte a sottrarci alla violenza è (dovrebbe essere) irrilevante. L’ingiustizia si compie quando qualcuno si sente in diritto di abusare del proprio potere per proporci un posto di lavoro, un avanzamento di carriera, la firma di un contratto, una borsa di studio.
COSA MI DICE UNA FOTO
Nel libro Le parole giuste di Nadia Somma e Luca Martini, si analizzano le immagini scelte dalla stampa per la narrazione dei casi di violenza. Sulla vicenda Bellomo è evidenziato come la prima versione di un articolo pubblicato sul sito affaritaliani.it dal titolo Concorso magistratura, Cristiana Sani: 'Mi volevano far togliere gli slip'. Aveva come foto l’inquadratura dello slip leggermente abbassato di una ragazza. Che la ragazza di cui non si vede il volto si abbassa con le dita. Un’immagine che ribalta la responsabilità del ricatto sessuale sulla disponibilità femminile che l’immagine evoca. L’immagine è stata successivamente sostituita con una più consona foto di un’aula di tribunale, ma questo esempio ci dice quanto istintivamente sbagliamo il focus e, solo dopo una riflessione, spesso indotta dalle proteste femministe, aggiustiamo il tiro. E intanto quel «Poteva dire 'No'» ci rimane in testa e non ci chiediamo il perché della domanda.
I «PADRONI»
Dovremmo cominciare a interrogare il mondo del lavoro in maniera concreta, a mettere in discussione quell’abitudine a provarci, alzando l’asticella del proprio limite in parallelo al proprio potere. Quando avevo poco più di 20 anni, chiesi ad una delle operaie della fabbrica in cui lavoravo perchè si lasciasse toccare il sedere dal titolare e lei mi rispose che sottrarsi avrebbe significato rischiare il posto. Alla mia successiva considerazione che la dignità fosse importante e che esistono ‘altri posti’, rispose che altrove le sarebbe successo comunque perchè «I padroni sono tutti uguali». Allo stesso «padrone» che sedeva in ufficio di fronte a me, al secondo giorno di assunzione avevo dovuto chiedere di salutarmi limitandosi al buongiorno, senza toccarmi la spalla. Io ero consapevole che la mia dignità passasse anche da lì, da un piccolo gesto apparentemente innocuo, ricordo che mi fece sorridere il balbettare di quell’uomo che aveva 50 anni più di me ma forse era arrossito perché non si era mai sentito redarguire sulle sue abitudini di allungare le mani.
MENO GIUDIZI E PIÙ EMPATIA
Provavo rabbia per quella situazione, perchè non era giusto che tutto dipendesse dalla risposta, che non si mettesse in discussione l’azione, ma non feci nulla per quella donna più grande di me e già così rassegnata. Oggi so che avrei dovuto, perché anche tacere sugli abusi di cui si è testimoni è sbagliato. È irresponsabile poi remarci addirittura contro, vedi il distacco dimostrato da molte attrici italiane di fronte alle denunce di Asia Argento o Miriana Trevisan, lontananza che odora di omertà come tra le inservienti del film Nome di donna. Dovremmo fare lo sforzo di sentire sulla nostra pelle la pressione di un ricatto, il tremore che la attraversa, indipendentemente da quanto siamo singolarmente forti e capaci di sottrarci ad analoghe situazioni. Capire che non siamo migliori se siamo più forti ci impedirebbe di giudicare chi è in difficoltà, chi si lascia violare, chi firma un contratto di fedeltà al proprio direttore quando potrebbe andarsene sbattendo la porta. Dobbiamo porre la questione maschile al centro, in ogni ambito, soprattutto quello narrativo che arriva alle pance con la forza dei titoli e delle immagini. Solo mettendo in concretamente in discussione il perpetuarsi di un abuso millenario che ci riguarda tutte ci possiamo, unite, liberare. Sono però gli uomini i protagonisti di questa violenza, e sono dunque loro che devono per primi interrogarsi, poiché questa dissimmetria di potere, anche laddove non sono violenti, fa comunque comodo.
http://www.letteradonna.it/it/articoli/punti-di-vista/2018/03/28/bellomo-violenza-donne-molestie-sessuali-lavoro/25588/



domenica 1 aprile 2018

Et resurrexit Pasqua di riflessione Il corpo, la legge e le pratiche politiche del femminismo di Lea Melandri

Che senso ha parlare del corpo in termini di ‘proprietà’, ‘avere il corpo’, ‘appropriarsi del corpo’, quando in realtà siamo corpo, corpo pensante? Che cosa cambia nel momento in cui prendiamo coscienza che il corpo non è neutro, che è sessuato, e che sulla diversità biologica del maschio e della femmina la storia -in quanto storia di una comunità di soli uomini- ha costruito il più duraturo dei rapporti di potere : divisione dei ruoli sessuali, esclusione delle donne dalla vita pubblica, identificazione della donna con il corpo, la natura?
Quando il femminismo ha parlato di “corpo politico”, non intendeva riferirsi a leggi, questioni etiche -anche se poi battaglie di questo tipo ci sono state (divorzio, aborto, diritto di famiglia)-, ma riportare la persona, il corpo, la sessualità, la vita affettiva, i legami famigliari, dentro la storia, la cultura, la politica, dove sono sempre stati.
Che cosa vuol dire avere, possedere, appropriarsi del proprio corpo? Perché non diciamo invece essere corpo, corpo pensante? Quanto ha influito su questo aspetto oggettivato, proprietario, del corpo la scissione originaria tra corpo e linguaggio, e quella che vi è andata confusa tra maschile e femminile?

Nel libro, La perdita, Rossana Rossanda scrive:
“Sappiamo di ‘essere’ il nostro corpo, ma pensiamo di ‘averlo’, come se la coscienza avesse un altro ordine di esistenza, stesse nel corpo come in una casa, lumaca nel guscio. Dirci: il corpo è la prima casa che ho e il corpo sono io, non fa esattamente lo stesso. Essere e avere non sono lo stesso.”
‘Riappropriazione’ del corpo in tutti i suoi aspetti -dal biologico alla vita psichica e intellettuale- significò, per il femminismo anni 70, partire dalla storia personale, dal vissuto, dalla narrazione di sé, per esplorare tutto ciò che la subordinazione al dominio maschile, alla sua visione del mondo, aveva comportato, come interiorizzazione di modelli, cancellazione di un sentire proprio.
Non si è parlato allora quasi mai di “differenza” femminile, ma di “inesistenza” con riferimento agli effetti della “violenza invisibile” o simbolica, che ha portato le donne a incorporare la visione del mondo del sesso dominante, a parlare la stessa lingua, a confondere l’amore con la violenza, a mettere in atto adattamenti, assimilazione, dolorose resistenze.

In un passaggio del libro Smarririsi in pensieri lunari, Agnese Seranis (Graus editore, Napoli 2007) sintetizza molto bene quello che è stato il ‘viaggio’ intrapreso allora come scoperta, riappropriazione di un ‘sé’ sottratto alla ‘naturalizzazione’, ma anche al confinamento in un ‘genere’:
“In ogni luogo io mi scoprivo inesistente chè non ero che l’ombra dei loro desideri o dei loro bisogni mentre io volevo essere io volevo conoscere volevo tenere nelle mani ciò che ero magari per offrirlo per scambiarlo è solo questo che desideravo donare alla pari ciò che effettivamente ero io mentre sino ad oggi mi sembrava di non donare nulla se non il mio corpo a cui essi davano pensieri a cui essi prestavano immagini. Io l’avevo capito che essi volevano solo dialogare con se stessi o con un’altra inventata da loro stessi ché non inquietasse che non proponesse una lettura diversa della vita...."

Il femminismo -e prima ancora il movimento non autoritario nella scuola- sono stati un inizio di “biopolitica affermativa”, una politica che voleva “andare alle radici dell’umano”, mettere in gioco il corpo, e quindi l’intera vita, interrogare l’esperienza, vedere la soggettività come corpo pensante, sessuato, plurale -fuori dalla figura astratta del cittadino-, capace di riconoscersi nella sua singolarità e in ciò che lo accomuna agli altri, consapevole che solo avanzando verso strati profondi di noi stessi si può accedere a un orizzonte più generale. Voleva dire uscire da tante rovinose contrapposizioni, tra particolare e universale, necessità e libertà, individuo e collettività, che, costruite come poli complementari, portano fatalmente agli accorpamenti che sono oggi sotto i nostri occhi e che chiamiamo genericamente “antipolitica”.
al link l'articolo completo http://www.universitadelledonne.it/lea8nov08.htm