venerdì 30 settembre 2016

stasera vi aspettiamo


Vorrei essere un uomo. Anche solo per un attimo. Per riposarmi

Vorrei essere un uomo. Anche solo per un attimo. Per riposarmi. Vorrei poter uscire la sera con leggerezza. Senza dovermi chiedere, come un uomo, se il vestito che ho scelto è troppo provocante. Per non dover avere paura. E come un uomo, poter parlare e dire quello che penso. Magari rischiando di farmi spaccare la faccia. Ma non di farmi sbattere da qualche bastardo. E la mattina dopo, non avere il coraggio di guardarmi in uno specchio.

Vorrei poter pensare che il sessismo non è una cosa seria. O almeno considerarlo come l'Aids o la fame nel mondo. Qualcosa di grave, ma che accade agli altri e di cui io non sono responsabile. Potrei dare dei consigli obiettivi e distaccati sulle rivendicazioni da perseguire, quindi più credibili. E sarei ascoltata e rispettata, come un uomo.

Vorrei vivere la mia sessualità, senza stigmatizzazioni, fare sesso con chi voglio e quando voglio (sempre ammesso che lei o lui sia d'accordo), senza il rischio di rovinarmi la reputazione, senza dare l'idea di una persona che cerca disperatamente affetto e attenzione. Vorrei che le mie azioni non fossero sottoposte all'interpretazione e al giudizio altrui. Che mi lascino fare l'amore tranquilla.

Vorrei giocare un ruolo nella cultura. Essere ovunque, sentire riecheggiare le mie parole di continuo. E, a forza di ascoltarle, convincermi che quello che dico è saggio, giusto e che le opinioni altrui sono trascurabili. Che tutti gli altri ronzano intorno alla mia idea. Che io sono al centro e che tutti gli altri sono ai margini.

Vorrei poter dire la mia. Far sentire la mia voce liberamente e parlare di ciò che mi sta a cuore. Sarebbe molto più semplice discutere d'amore, di sesso, d'invidia, di speranze, di nero, di bianco. Sarebbe molto più facile esprimere la mia opinione, parlare delle mie volontà e dei miei interessi. Se avessi davvero questa possibilità, verrei ascoltata.

Vorrei poter pensare che non ho una data di scadenza. Non vedere la vita come una clessidra. Pensare che fra dieci anni sarò più attraente di oggi. Credere che l'amore non sia qualcosa a cui dovrò rinunciare, quando avrò superato i trent'anni. Non avrei paura della vita, se sapessi per certo che, sfiorita la mia bellezza, i veri segnali del mio fascino saranno la forza e il carisma.

Vorrei essere un uomo e scrivere di altre cose. Un romanzo, una poesia. Di certo direbbero che ho talento. Sarebbe bello, solo per un momento.

 Questo post è apparso sul blog Sans Décliner, Snarclens, di proprietà dell'autrice è stato pubblicato su HuffPost Francia e tradotto da Milena Sanfilippo.
http://gruppi.chatta.it/la-nostra-relazione/forum/principale/1926584/vorrei-essere-un-uomo-solo-per-un-attimo-per-riposarmi-/tutti.aspx

giovedì 29 settembre 2016

Fare un figlio un impegno per sempre da Antonella Gramigna

Sano l’intento ed il sentimento di fondo, salvo aver trasformato questo progetto in una sorta di demonizzazione della donna: della sua emancipazione, della libertà di scelta e del carrierismo visto come impedimento alla maternità.

Su #FertilyDay. Già il nome mi urta. Perché mai ridurre ad un ridotto termine inglese la campagna di sensibilizzazione promossa dal Ministero della Salute, nata per informare e dare “consigli” su come migliorare la fertilità così da incrementare le nascite, fortemente in calo? Infatti ha sollevato un polverone. Trovo “sano” l’intento ed il sentimento di fondo, salvo aver trasformato questo progetto in una sorta di demonizzazione della donna: della sua emancipazione, della libertà di scelta e del carrierismo visto come impedimento alla maternità.

Squallida e molto l’ultima comunicazione, l’epilogo è stato proprio ieri ( 21 u.s.) con l’uscita di un manifesto diviso a metà tra buoni e cattivi. In un mondo sempre più eterogeneo e multirazziale, inclusivo e rispettoso delle differenze, mi chiedo come si possa ” ancora” mettere tra i cattivi un ragazzo con i capelli “Rasta” o di colore e chi fuma. Mi chiedo come si possa permettersi di mettere tra i buoni immagini di ragazzi e ragazze ” bianchi”, riprese da cartelloni stile Beverly Hills. Stereotipi, dannosi a tutti. Quelli che combattiamo ogni giorno.

E le donne che si sono sentite offese, ed anche qualche uomo ma sempre pochi, in contemporanea alla giornata indetta dalla Ministra, in diverse piazze d’Italia ha messo in atto il #NOFertilyDay.

Donne e uomini convinti che il problema della denatalità debba essere affrontato quale problema strutturale, e risolto diversamente, non con campagne dal sapore propagandistico e ideologico, figlio di una subcultura che dovrebbe essere ormai morta e sepolta. Occorrono politiche strutturali, che consentano alle coppie e alle famiglie di avere le risorse, le condizioni di certezza lavorativa e progetti di vita stabile, l’unico strumento tramite il quale aiutarle ad avere figli.

La campagna di informazione e sensibilizzazione non è di per sé errata nella sostanza, lo è stata fortemente nella forma. Non basta solo sapere come funziona il nostro corpo e come sarebbe, anzi è, corretto alimentarsi e quanto fa bene lo sport. La mancata maternità è ben altro. Le donne, oggi, hanno ritmi diversi dal passato dove spesso erano relegate in casa e cucina, oggi sono attive, impegnate e sopratutto sole, con pochi servizi a tutela e supporto. Ecco che, al di là dell’aspetto sanitario, non di meno importante, crediamo che sia lo Stato a doverle aiutare. Ci sono molte coppie che vorrebbero avere figli, ma non possono averli a causa di problemi di fertilità, tanto per esempio, cosa si fa per loro? Quanto si investe nella ricerca ? Dopo tre inseminazioni fallite, e relativi bombardamenti ormonali, non è più possibile tentarla ed occorre recarsi all’estero con costi elevatissimi. E quali aiuti per chi vorrebbe famiglie numerose e, dato il reddito, non ne può avere?

E poi, non dimentichiamolo, ci sono anche donne, coppie, che decidono in serenità di non volerne. Perchè farli sentire colpevoli ? Sono scelte molto intime e personali. Forse anche talvolta dolore ma necessarie. Demonizzare e far sentire in colpa per il calo demografico queste persone è orribile. Le conquiste per le donne per i Diritti, dopo decenni di lotte del centro sinistra, rischiano così di fare pericolosi passi indietro. Fare figli, oggi, è un lusso. Diciamolo. Se non hai risorse economiche, stabilità di lavoro, sostegno attraverso servizi funzionali, politiche di conciliazione casa / lavoro, contributi per la maternità, ed abbattimento di barriere preclusive di carriera, tutto diventa più difficile ed è facile decidere di non “aumentare” la famiglia. Anche il Premier Renzi è intervenuto in tal senso, affermando che occorrono misure dirette al sostegno della famiglia più che a campagne spot di questo tipo. Ed è a tal scopo che ha assegnato la delega alle politiche della famiglia.

” E la discussione per noi parte dal #Nofertilityday.

Perché l’impegno per avere figli non può esaurirsi né in un giorno, né in una campagna di comunicazione, peraltro offensiva e di cattivo gusto.” Conclude così l’intervento Innocenti, che lancia così un appello chiaro e preciso.

Oggi alle 18.45, a Pistoia in Piazza Duomo molte donne potranno esprimere la propria opinione attraverso riflessioni, scritti e quant’altro riterranno opportuno e idoneo.

Tutte e tutti in piazza per chiedere a gran voce attenzione al tema che, di sicuro, merita rispetto. Più di quanto non ne abbia avuto la Ministra Oggi si celebra il #FertilyDay. La campagna di sensibilizzazione promossa dal Ministero della Salute per informare e dare “consigli” su come migliorare la fertilità così da incrementare le nascite, fortemente in calo. Buono il sentimento di fondo, salvo aver trasformato questo momento in una sorta di demonizzazione della emancipazione, della libertà di scelta e del carrierismo della donna visto come impedimento alla maternità.

Squallida la comunicazione, l’epilogo è stato proprio ieri ( 21 u.s.) con l’uscita di un manifesto diviso a metà tra buoni e cattivi. In un mondo sempre più eterogeneo e multirazziale, inclusivo e rispettoso delle differenze, mi chiedo come si possa ” ancora” mettere tra i cattivi un ragazzo con i capelli “Rasta” o di colore e chi fuma. Mi chiedo come si possa permettersi di mettere tra i buoni immagini di ragazzi e ragazze ” bianchi”, riprese da cartelloni di Beverly Hills. Stereotipi, dannosi a tutti. Inutile aver allontanato il capo della comunicazione.La toppa è peggio del buco, andava fatto prima.

Ed oggi, in contemporanea, in diverse piazze d’Italia ci sarà il #NOFertilyDay.

“Come cittadine e cittadini, intendiamo affermare la nostra più netta contrarietà al #Fertilityday, alle iniziative ad esso connesse e a molte parti del documento che ne rappresenta l’impianto ideologico. Come donne e uomini siamo infatti convinti che il problema della denatalità debba essere affrontato quale problema strutturale, e risolto non con campagne dal sapore propagandistico e ideologico, figlio di una subcultura che credevamo ormai morta e sepolta, ma con politiche strutturali, che consentano alle coppie e alle famiglie di avere le risorse, e le condizioni di certezza lavorativa e progetti di vita che sono l’unico strumento tramite il quale aiutarle ad avere figli.” Così scrive Chiara Innocenti della segreteria Unione comunale Pd Pistoia, sulla pagina fb dell’evento creato assieme ad altre donne che da sempre lottano per le politiche di genere.

La campagna di informazione e sensibilizzazione non è di per sè errata nella sostanza, lo è stata fortemente nella forma. Non basta solo sapere come funziona il nostro corpo e come sarebbe, anzi è, corretto alimentarsi e quanto fa bene lo sport. La mancata maternità è ben altro. Le donne, oggi, hanno ritmi diversi dal passato dove spesso erano relegate in casa e cucina, oggi sono attive, impegnate e sopratutto sole, con pochi servizi a tutela e supporto. Ecco che, al di là dell’aspetto sanitario, non di meno importante, crediamo che sia lo Stato a doverle aiutare. Ci sono molte coppie che vorrebbero avere figli, ma non possono averle, a causa di problemi di fertilità, tanto per esempio, cosa si fa per loro? Quanto si investe nella ricerca e nella possibilità di fecondazione artificiale? Dopo tre inseminazioni fallite, e relativi bombardamenti ormonali, non è più possibile tentare ed occorre recarsi all’estero con costi elevatissimi. E quali aiuti per chi vorrebbe famiglie numerose e, dato il reddito, non ne può avere? E poi, non dimentichiamolo, ci sono anche donne, coppie, che decidono in serenità di non volerne. Perchè farli sentire colpevoli ? Sono scelte molto intime e personali. Forse anche talvolta dolore ma necessarie. Demonizzare e far sentire in colpa per il calo demografico queste persone è orribile. Le conquiste per le donne per i Diritti, dopo decenni di lotte del centro sinistra, rischiano così di fare pericolosi passi indietro. Fare figli, oggi, è un lusso. Diciamolo. Se non hai risorse economiche, stabilità di lavoro, sostegno attraverso servizi funzionali, politiche di conciliazione casa / lavoro, contributi per la maternità, ed abbattimento di barriere preclusive di carriera, tutto diventa più difficile ed è facile decidere di non “aumentare” la famiglia.

Anche il Premier Renzi è intervenuto in tal senso, affermando che occorrono misure dirette al sostegno della famiglia più che a campagne spot di questo tipo.
http://www.dols.it/2016/09/23/fare-un-figlio-un-impegno-per-sempre/

mercoledì 28 settembre 2016

Donne e lavoro: perchè non possiamo lasciare le cose come stanno scritto da Riccarda Zezza

Il problema è noto ma non è famoso: la questione delle donne che lavorano in Italia è nei fatti un tema un po’ “sfigato”. Non ne parlano volentieri le donne che lo subiscono: preferirebbero essere uguali a tutti gli altri, oppure a quelle donne mitiche che invece “ce la fanno”, non hanno voglia di essere portavoce di quelle che invece no, non ce la fanno, o ce la fanno a stento e, come ha detto Beppe Severgnini, a prezzo di grandi sacrifici. Non ne parlano volentieri neanche le donne che in effetti “ce l’hanno fatta”: intanto hanno fatto una gran fatica e preferirebbero lasciarsi la faccenda alle spalle, e poi è stato provato che le donne che cercano di portare avanti le altre vengono penalizzate in termini di carriera.

E gli uomini – a cui Severgnini dà buona parte della colpa, ed è vero nella misura in cui il potere di cambiare le cose è ancora prevalentemente nelle loro mani – beh gli uomini si dividono tra quelli che sono causa attiva delle discriminazioni: quindi sono più o meno apertamente sessisti, mobbisti, psicologicamente violenti, prepotenti e supportati in tutto questo da una cultura aziendale che li tollera o addirittura spesso li appoggia; e quelli che non discriminano attivamente, ma anche per questo non si accorgono di quel che avviene attorno a loro, e quindi lo considerano un non problema – o comunque non un problema loro.

Quando un problema sociale così grande – e quello di cui stiamo parlando è un problema immenso, fosse anche solo perché ne mette insieme tre: un paese che non fa più figli; un paese in cui, nonostante le apparenze, le donne non partecipano alla vita socio economica; un paese che rivela nel suo modo di trattare le minoranze tutta la sua debolezza strutturale, la sua incapacità di evolvere – non è trendy e non provoca problemi immediatamente visibili – le donne che non lavorano non le trovi in strada a delinquere: semmai stanno a casa a occuparsi di anziani e bambini, e i bambini che non nascono per definizione non si vedono, per considerarli un problema bisognerebbe avere voglia di guardare oltre la durata di una legislatura – quello che succede è che si sa già tutto ma non si fa nulla.

Infatti quello che colpisce è che le informazioni le abbiamo tutte. Gli abusi sono sotto i nostri occhi. Gli effetti drammatici sulle persone, sull’economia e sulla società anche. Le soluzioni sono note: ne abbiamo di locali, abbiamo altri paesi europei a cui guardare, abbiamo tutta la conoscenza che serve per agire. Ma la questione non è in agenda: lo si capisce dal semplice fatto che “non ci sono soldi” per occuparsene. E siccome le tasse le paghiamo, e salate, i nostri soldi in realtà ci sono, è il senso di priorità e di urgenza che manca.

La condizione delle donne in Italia, definizione sintetica dei problemi illustrati sopra, non è un’emergenza. Forse può diventare tale grazie a un massiccio e convinto movimento dell’opinione pubblica? A un radicale ripensamento della cultura che oggi consente e tollera gli abusi? Al semplice fatto di parlarne molto di più, di indignarsi molto di più, e non solo per una campagna sbagliata? Ogni giorno: raccontare gli abusi, cercare le buone prassi, parlarne, parlarne, parlarne… e far diventare stigma sociale la semplice ignoranza, il velo di silenzio che oggi copre e protegge questo enorme problema.
http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2016/09/26/donne-e-lavoro-perche-non-possiamo-lasciare-le-cose-come-stanno/?refresh_ce=1

martedì 27 settembre 2016

La solitudine delle mamme Le giovani madri lasciate sole con il loro senso di colpa: il commento della scrittrice Claudia De Lillo, alias Elasti, in occasione del Fertility Day

Tutto ebbe origine dalla Famiglia Bradford, lui, lei e otto figli.
Abitavano a Sacramento, in California, in una casa enorme, e avevano una vita bellissima dentro una serie televisiva dei primi Anni 80.
 «Cosa vuoi fare da grande?» mi domandò un giorno candidamente una zia. «La signora Bradford», risposi entusiasta, incurante del singhiozzo strozzato di mia madre che mi sognava libera, emancipata e in carriera.
Se ho avuto uno, due, poi tre figli non è stata colpa, o merito, dell’orologio biologico, della ribellione alle ambizioni materne, di un delirio patriottico o di un maldestro uso della contraccezione ma di un telefilm americano da cui ero ossessionata all’età di 12 anni.
 Pensavo che sarebbe stato facile fare tutto: lavorare, essere una brava mamma, sedurre mio marito a giorni alterni, uscire con gli amici, tenere a bada il caos domestico.
 Ho avuto la fortuna e il privilegio di rimanere incinta da lavoratrice dipendente. «Sono felice per te», esclamò il mio capo. «Rientrerai prestissimo, vero?» proseguì. Il senso di colpa diventò la mia cifra stilistica.
Mio marito è uno dei cosiddetti “cervelli in fuga”. Lavora in Inghilterra perché in Italia i giovani ricercatori universitari sono trattati come volontari più che come professionisti e non potevamo permettercelo. Fa il pendolare tra Milano e Londra: niente di più comodo per un ménage familiare che si ispira alla famiglia Bradford.
I nonni non hanno potuto né voluto immolarsi per la sacra causa dei nipoti e forse non sarebbe stato neppure giusto.
 Il primo giorno di asilo nido di mio figlio, l’educatrice spiegò che l’inserimento sarebbe durato tre settimane durante le quali sarei dovuta essere sempre disponibile («Ma devo andare in ufficio!» «Converrà che la serenità di suo figlio viene prima di tutto, signora». «Convengo»). Poi aggiunse che non poteva accettare il bambino se non avessi ricamato il suo nome e cucito i cappiolini sugli asciugamani. Quando replicai che non sapevo ricamare né cucire e neppure il significato del sostantivo “cappiolino”, lei scosse la testa e il mio senso di colpa si trasformò da cifra stilistica in scafandro.
 Negli ultimi 13 anni - perché questa è la mia anzianità di madre nonché l’età del primogenito - ho sviluppato rapporti simbiotici e amorosi con le baby sitter dei miei figli («Se dovessi scegliere tra tuo marito e la tata?» «Non hai un’altra domanda?»), ho fatto salti mortali per partecipare a riunioni di classe e a recite scolastiche («Vi aspettiamo alle quattro». «Ma alle quattro lavoro!» «La vita è questione di priorità, no? E già che c’è, si ricordi di portare carta igienica, fazzoletti di carta e due risme di fogli A4»), ho abbandonato conference call per colpa di febbri improvvise, virus intestinali, pidocchi, ho perso pezzi per strada, sono stata insultata da un’infermiera del consultorio perché, per poter dormire qualche ora la notte, allattavo a orari e non a richiesta, mi sono sentita inadeguata, ho rinunciato al posto fisso, ho risposto centinaia di volte alla domanda: «Non sarebbe meglio che smettessi di lavorare?», chiedendomi perché non viene mai rivolta ai padri.
 Ho avuto fortuna: ho tre figli sani e simpatici, un marito presente seppur a intermittenza, un lavoro per entrambi, il tempo pieno a scuola. Se tornassi indietro rifarei tutto.

Eppure in questi tredici anni ho imparato che, come madre, me la devo cavare da sola. Perché i figli, in questo paese non sono considerati responsabilità di entrambi i genitori né tantomeno sono visti come un patrimonio della società tutta. Qui i figli sono solo un problema delle madri. «Li avete voluti? - È il messaggio, costante e inequivocabile -. Adesso cresceteveli e arrangiatevi. Del resto, mica ve lo abbiamo chiesto noi di guardare la Famiglia Bradford, quando eravate piccole».

Elasti alias Claudia de Lillo è autrice di rubriche, blogger e conduttrice radiofonica. Il 20 settembre è uscito il suo quarto libro, «Alla pari» (Einaudi)
http://www.lastampa.it/2016/09/22/italia/speciali/fertility-day/la-solitudine-delle-mamme-6axqY2msp3hVvTSBwNXOYL/pagina.html

Perché non si fanno più figli in italia? Cosa serve davvero alle famiglie?




http://www.lastampa.it/italia/speciali/fertility-day

lunedì 26 settembre 2016

Colpa di noi maschi se troppe madri lasciano il lavoro di Beppe Severgnini

Silvia P. è un nome di fantasia. La storia che racconta non è fantasiosa né fantastica. È il resoconto amaro della lotta di moltissime mamme. Non tutte, forse, saprebbero descriverla come Silvia. Ma tutte hanno pensato cose simili, sofferto le stesse frustrazioni, provato le stesse tentazioni: basta, mollo tutto. Maternità e carriera, al di fuori delle illusioni nei convegni, non sono compatibili.
Non è un problema solo italiano.
Nel 2012 l'americana Anne-Marie Slaughter, un'analista di politica estera, pubblicò, su The Atlantic, «Why Women Still Can't Have it All» (Perché le donne ancora non possono avere tutto), e impose la questione sulla scena internazionale. Nei primi quattro giorni, riferisce Wikipedia, «il pezzo attirò 725.000 lettori e 119.000 like su Facebook, facendone l'articolo più letto nella storia della rivista».
La lettera di Silvia, apparsa giovedì su La27ora, in mezza giornata è arrivata a 50.000 like: fate voi i conti.
Perché queste reazioni, a distanza di anni e di un oceano? Perché il problema esiste; parlarne serve a esorcizzarlo, non a risolverlo. La società italiana è ancora dominata dai noi maschi, e le regole le facciamo noi. Regole vuol dire orari, ferie, permessi, promozioni, carriere. Vuol dire sguardi: quelli di chi ti fa capire che andar via presto o arrivare tardi, sai com'è, non va bene.
Una gravidanza non è un impiccio né una malattia. È la vigilia della festa della vita, che tutti dovremmo celebrare come merita. Lo facciamo? No. Le carenze pubbliche le conosciamo. Partiamo dalle cose semplici. I bambini non li porta a scuola lo Spirito Santo, che ha altro da fare. Negli USA ci pensa lo school bus; in Italia tocca ai genitori o ai nonni (quando ci sono). Le aziende - magari le stesse che organizzano convegni sul «valore delle donne» - spesso negano il part-time. Ho trovato una brava collaboratrice, anni fa, perché la radio dove lavorava le ha detto, dopo la nascita della figlia: tempo pieno o dimissioni. Il marito viaggiava per lavoro. Ha dovuto dimettersi. Altro che #fertilityday.
Una società sana capisce che la maternità è un'opportunità. Riccarda Zezza, a TedxMatera, ha titolato così il suo intervento: «Maternity as a Master». Ha ragione. Diventar madri è un master d'alto livello. Si ritorna al lavoro più tenaci, più capaci di affrontare le  difficoltà, più mature. Ma il datore di lavoro deve capirlo. Non è questione di legislazione, che esiste (le poche donne che ne abusano, lo sappiano: danneggiano tutte le altre). È questione di regole del gioco collettivo. Con queste carriere, con queste aspettative, con questi luoghi di lavoro e con questi colleghi, una giovane donna italiana deve scegliere: figli o carriera. C'è una terza via: il sacrificio disumano. Ma non si può e non si deve chiedere.
Grazie dunque, Silvia, d'aver scritto questa lettera. Ieri ci siamo parlati al telefono: sei quella che sembri, una donna speciale. Dichiarandoti sconfitta, hai vinto. Hai aiutato, in poche righe luminose, tante donne come te. Chissà che qualche maschio di potere, leggendole, veda la luce. Non quella della lampada abbronzante: un'altra.
http://27esimaora.corriere.it/16_settembre_23/colpa-noi-maschi-se-troppe-madri-lasciano-lavoro-ee97407c-81b7-11e6-a75e-55268404eade.shtml


venerdì 23 settembre 2016

«Io, mamma lavoratrice, non ce l'ho fatta» di S. P.

Pubblichiamo la lettera inviata a Beppe Severgnini da una mamma lavoratrice, che ha chiesto di restare anonima.

Caro Beppe,
Dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di fallimento. Prima di entrare nel merito dello sfogo, ti racconto però un breve aneddoto che ti farà sorridere… Ho sempre sognato di fare la giornalista, fin da bambina, e ti ho sempre letto; quando al liceo ci assegnarono un tema sui nostri miti, mentre i miei compagni parlarono di Che Guevara o di Bob Marley, io parlai di te… Scrissi di volermi occupare di cronaca di costume perché l’unica cosa in cui ero brava era osservare la gente e il mio maestro eri tu… Son passati 20 anni da quel tema e la realtà è che non sono diventata giornalista. Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire la persona che per te è l’essenza della ragionevolezza. Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento.
Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose. Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.
Ma i sensi di colpa non sono solo questi. Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini; ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»; ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.
E poi ti guardi intorno e vedi donne ammazzate, donne vilipese, donne aggredite fisicamente e verbalmente, sul web o in televisione. Ma non trovi conforto neppure negli incontri quotidiani con uomini per bene, evoluti e sensibili, i quali (chissà perché) dimostrano sempre una impercettibile sfumatura di diversità nel trattare con una donna o con un uomo. Sono stanca, caro Beppe.
Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito. Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi. Anche tra mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata condizione.
Spero tu possa trovare il tempo di rispondermi e di regalarmi il tuo (per me) prezioso punto di vista. Ti prego di non pubblicare il mio nome, perché, avendoti scritto col cuore, ho inserito troppi riferimenti personali e professionali.

http://27esimaora.corriere.it/16_settembre_21/io-mamma-lavoratrice-non-ce-ho-fatta-0bd80496-8046-11e6-b38f-35d885ba0cf1.shtml

mercoledì 21 settembre 2016

Quegli stereotipi sulla libertà delle donne La legge prevede che ciascuno si vesta come desidera. Ma se guardiamo le cose da un punto di vista culturale, ci rendiamo conto che sono ci due forme di costrizione molto simili di Dacia Maraini

Ho davanti a me una fotografia che ritrae quattro giovani donne che corrono sulla spiaggia coperte da un indumento che porta il curioso nome di burkini. Sembrano contente. In effetti, sappiamo che se non fossero coperte in modo da lasciare liberi solo piedi, mani e faccia, non potrebbero correre in spiaggia né fare il bagno.
Quindi?
Quindi ben venga il burkini se lascia alle donne musulmane la libertà di correre in spiaggia.
La parola burkini viene da una combinazione di burqa con bikini. La parola in sé rivela che si tratta di un compromesso fra due costrizioni che riguardano il linguaggio del corpo femminile:l compromesso fra un potere punitivo che lo vuole coperto integralmente fino a scomparire del tutto (come nel burqa integrale) e un altro potere mercantile che lo vuole esibito come un umiliante richiamo che ricorda la reificazione sessuale.
Dove sta la libertà in questo crudele gioco del coprire e dello scoprire?
È da considerarsi una libera scelta quella di usare un costume (tipo tanga) che mette in evidenza, spesso in maniera sfacciata e brutale le parti più sessuate del corpo femminile?
È vera libertà quella di coprirsi in modo che tutto quello che può sfiorare le parti sessuate venga nascosto, e la pelle non possa mai vedere il sole?
La legge prevede che ciascuno si vesta come desidera. E su questo non ci piove.
È arrogante pretendere di stabilire come si debba conciare una donna che vuole fare un bagno in mare.
Ma se guardiamo le cose da un punto di vista culturale, ci rendiamo conto che sono due forme di costrizione molto simili.
La vera libertà consisterebbe nello stare comodi, nella possibilità di muoversi liberamente, di prendere il sole senza fare il verso alle peggiori pubblicità della seduzione mediatica, nello stare in armonia con la natura sfuggendo sia al linguaggio delle ideologie che del mercato.
Ma dove sta la gioia di vivere, quando si chiede alle donne di adeguarsi a una convenzione stereotipata: il linguaggio della seduzione o della negazione della seduzione?
Il proprietario simbolico del corpo femminile, o chiede che questo corpo diventi sempre più appetibile ed esposto perché il mercato lo pretende: oppure ordina, in nome di una religione punitiva, di coprirlo in modo assurdo per evitare proprio quello sguardo concupiscente che, sempre nel mondo dei linguaggi emblematici, viene considerato pericoloso e immorale.
Dove sta la libertà?
http://www.corriere.it/opinioni/16_settembre_13/quegli-stereotipi-liberta-donne-903df512-78fb-11e6-a466-5328024eb1f5.shtml

martedì 20 settembre 2016

Nipotina mia carissima, lo sai che quando ero giovane in Italia non c’erano prefette, ambasciatrici e magistrate?di Rosa Oliva*

Vorrei tanto che mia nipote e le sue coetanee crescessero in un Paese dove le donne fossero liberate dalla necessità di scegliere tra lavoro e famiglia, tra avere figli e fare carriera.

Cara Irene,
hai nove anni e presto ti parlerò di questa mia lettera che leggerai tra qualche tempo.
Una sera ti dirò del compito che ti voglio affidare per quando tu sarai una donna e io non ci sarò più. Devo trovare l’occasione giusta, magari uno di quei momenti felici in cui stai per addormentarti ed io accanto a te ascolto le tue domande difficili: “Nonna, ci credi in Dio?”, “Nonna, oggi ho sentito una parolaccia” e non hai il coraggio di dirmi quale, poi la pronunci sottovoce per conoscerne il significato, che io ti spiego, dicendoti che sì, le parolacce sono una cosa brutta e vanno evitate.
Voglio parlarti del fatto che, dal momento in cui nasciamo, dipendiamo dagli altri in maniera assoluta: mentre un puledrino nasce e dopo pochi minuti riesce a tenersi dritto sulle zampe, noi umani ci mettiamo un anno per camminare. Sviluppiamo però nel tempo una serie di capacità che gli altri esseri viventi non hanno e lo dobbiamo proprio alla complessità delle cose che sono necessarie perché, da un piccolo batuffolo come eri tu appena nata, venga fuori una bambina come sei adesso, con tanti interessi e capacità, non solo a scuola, ma anche nello sport e nella musica.
Se sei la mia piccola cara nipotina, lo devi a chi ti ha accolto nel mondo: ai tuoi genitori, alla famiglia intera, alla tua scuola, al paese in cui sei nata. Non a tutte le persone è consentito questo, perché sai bene che ci sono bambine e bambini che non hanno una famiglia o che nascono in paesi dai quali sono costretti a fuggire a causa della guerra o della fame.
Leggiamo insieme l’articolo 3 della Costituzione:
Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Lo Stato dovrebbe eliminare queste cause di disuguaglianza, ma purtroppo non ci riesce.
cinquantanni
Conviene creare pari opportunità, perché un capitale investito su un individuo, uomo o donna che sia, ritorna alla società non solo in termini di cura dei propri figli, se ne ha, e degli altri familiari, ma anche di produttività da lavoro. La prima e più grave discriminazione è quella che colpisce le donne, la metà della popolazione.
 Molto è stato fatto per la parità uomo-donna nel secolo scorso, nel quale l’unica rivoluzione riuscita, si dice, sia stata quella delle donne, ma nascere donna ancora adesso è un ostacolo.
Le donne, noi donne, siamo condizionate da vecchi pregiudizi e descriminazioni e, a volte, anche da vecchie leggi che sopravvivono ai cambiamenti nella società. Già attraverso i giochi le bambine ricevono messaggi nascosti che limitano le scelte per il loro futuro.
Tanti anni fa, quando ero una ragazza appena laureata riuscii a fare cancellare, con la sentenza n. 33 del 13 maggio 1960 della Corte costituzionale, una legge che penalizzava le donne nelle carriere pubbliche. Non avevo accettato che noi donne non potessimo diventare prefette, ambasciatrici, magistrate.
In quegli anni in Italia, ma anche in quasi tutti i Paesi del mondo, erano sempre soltanto uomini a decidere, le dnne non c’erano, o erano pochissime nei Palazzi del potere: in Parlamento, dove si fanno le leggi, nel Governo, dove si amministra il Paese, ma anche nei Consigli comunali, dove si prendono decisioni per la vita locale di ogni giorno, così come nella Magistratura e nelle Università.
C’era stato un grande cambiamento quattordici anni prima, quando l’Italia era diventata una repubblica. Invece del re, il potere era dei cittadini, anzi dei cittadini e delle cittadine. Nel 1946, settanta anni fa, le donne avevano potuto votare per la prima volta per scegliere tra monarchia e repubblica ed eleggere l’Assemblea costituente, incaricata di scrivere la Carta con i principi e le regole della nuova Italia.
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Rosanna Oliva davanti al Quirinale (foto dal suo profilo Facebook). «Già funzionaria dello Stato, nel 2006 fonda, per la presenza qualificata delle donne nella politica e nei luoghi decisionali, “Aspettare stanca”, di cui cura tuttora il blog» (http://www.scienzaexpress.it/) Madre di due figli, è Grande Ufficiale della Repubblica
Nell’Assemblea costituente le donne erano soltanto 21 su 556, ma riuscirono a far inserire norme importanti, non solo per le donne ma per i diritti di tutti e tutte.
Avevo studiato che dal 1948 la Costituzione garantiva l’uguaglianza tra uomini e donne ma ancora dieci anni dopo, quando mi sono laureata, a noi ragazze veniva impedito di confrontarci con i nostri colleghi di università nei concorsi per le più importanti carriere pubbliche. Grazie alla conoscenza della Costituzione e all’aiuto di Costantino Mortati, il mio professore di diritto costituzionale, riuscii a far aprire alle donne le principali carriere pubbliche.
Per una sentenza, come per una persona, a cinquanta anni si può fare un bilancio.
*Tratto da “Cinquant’anni non sono bastati. Le carriere delle donne a partire dalla sentenza n. 33/1960 della Corte Costituzionale” di Anna Maria Isastia e Rosa Oliva, appena uscito da Scienza Express edizioni. Nel precedente post, “Lettera alla nipotina della nonna Grande Ufficiale della Repubblica”, la versione illustrata della favola vera di cui è protagonista Rosa (meglio, Rosanna) Oliva che, subito dopo la laurea, si vide respingere la domanda al concorso per la carriera prefettizia. Da quel “no” contro la logica, la dignità e la storia, nacque la sua battaglia che aprì alle donne italiane la porta delle professioni di prestigio nella Pubblica amministrazione dalle quali erano state fino a
quel momento escluse.
https://donnedellarealta.wordpress.com/2016/09/19/nipotina-mia-carissima-lo-sai-che-senza-di-me-in-italia-non-ci-sarebbero-prefette-ambasciatrici-e-magistrate/

venerdì 16 settembre 2016

10 regole per genitori contro pregiudizi e stereotipi di genere di Jonathan Bazzi


spiderman


Ditelo a tutti i genitori! Liberiamo i giochi, gli sport, i colori, il linguaggio dai pregiudizi e dagli stereotipi!

10 regole da seguire per liberarsi dalla visione parziale e oppressiva secondo la quale il corpo biologico di una persona la inchioderebbe a tutto un repertorio prestabilito di attività, gusti, preferenze. Liberiamo i giochi, gli sport, i colori, il linguaggio dai pregiudizi e dagli stereotipi. Ecco la nostra lista:

I giochi non rendono omosessuale nessuno, uno semmai lo è già. Comprare una bambola non renderà gay chi non lo è. Lasciate il bambino di scegliere in senso assoluto, il gioco deve essere campo di espressione di sé. Provate anzi voi stessi a scardinare le associazioni tradizionali.
Evitate di chiedere automaticamente al maschietto se ha la “fidanzatina”: chiedetegli piuttosto se gli piace qualcuno.

Non fate battute contro gli omosessuali, neanche se bonarie. Non dite quello è f*o*io, quell’altro r*c*h*o*e: gli omosessuali non sono solo fuori, potrebbero essere a quel vostro stesso tavolo e avere magari 12, 13 anni, in piena lotta per l’autoaccettazione. Pensate a come si potrebbe sentire in quel caso vostro figlio.

Se vostro figlio non ha il coraggio di fare qualcosa non è una “fighetta”, una ”femminuccia”. Rispettate le sue paure.

Un maschio può ballare, una femmina può giocare a calcio. Non c’è nessuna linea diretta tra biologia e arte, espressione, immaginazione. Rispettate al massimo le inclinazioni.

Casa e mondo esterno: i lavori domestici non sono vietati ai maschi, il mondo là fuori appartiene alle ragazze quanto ai ragazzi.

Provate ad alterare le trame delle fiabe e dei racconti per lasciar spazio a dinamiche di genere diverse da quelle tradizioni. Oppure comprate i libri che raccontano storie equilibrate o innovative dal punto di vista dei ruoli. Ormai è facile trovarne nelle librerie.

I colori sono alla portata di tutti, vanno tutti bene. I maschi possono portare il rosa, non è degradante. E’ solo un colore.

Coltivate il rispetto di sé e l’autonomia nelle vostre bambine. Abituatele a impostare i rapporti con l’altro sesso in modo paritario, anche dando il buon esempio voi genitori come coppia.

Abbiate il coraggio di chiedere: è vostro compito. Non lasciate da solo vostro figlio, non costringete a far fare a lui tutto il lavoro. Un buon genitore facilita, accompagna, sostiene.
http://www.gay.it/attualita/news/decalogo-genitori-contro-pregiudizi-stereotipi-genere/

lunedì 12 settembre 2016

Fertility day, la parola alle donne Facciamo il punto sulle reazioni da parte del mondo associativo femminile alla campagna del Ministero

Stupisce lo stupore della ministra Lorenzin che, dopo la sollevazione femminile contro la campagna "fate figli e fateli presto", ha promesso di modificare gli spot. Lasciando immutata la data del 22 settembre come Fertility day, a cui il ministero starebbe lavorando da oltre due anni. Ma gli spot non nascono dal nulla; sono lo specchio di ragionamenti che parlano di fertilità e ignorano la precarietà e per giunta celebrano l'equilibrismo coatto fra mille impegni come fosse una virtù. Poi una beffarda coincidenza ha voluto che Khamenei negli stessi giorni mandasse analoghi messaggi ai giovani iraniani che, pure loro, non fanno figli o li fanno tardi con la "scusa" dell'economia in crisi e del caro-famiglia.

GiULiA in linea di massima non fa "appelli", piuttosto denuncia o condivide delle campagne stampa. Questo non significa che non siamo vicine alle associazioni che in questo momento stanno chiedendo alla ministra di eliminare le connotazioni ideologiche dai messaggi.

Nei giorni scorsi la collega Silvia Garambois ha scritto un intervento su Radioarticolo1 che va oltre la campagna di comunicazione. Scrive Garambois:

Perché il "Piano" ha questo scopo, dichiarato: celebrare una "rivoluzione culturale" (è scritto proprio così sul sito del Ministero, non è uno scherzo) con l'informazione e la formazione sulla fertilità.

Inoltre, è stato lanciato un appello firmato fra l'altro da Snoq, Telefono rosa, Noiretedonne, singole studiose, che chiede ". in via d'urgenza al Governo la revoca della "Giornata per l'informazione e formazione sulla fertilità umana" del 22 settembre e il riesame del "Piano Nazionale per la Fertilità"sulla base di un ampia discussione con la società civile, per valorizzare alcuni aspetti positivi sul piano sanitario ed eliminare tutti quelli ideologici legati al calo della natalità. Un tema fondamentale e delicato come quello della salute riproduttiva è trattato in modo inadeguato,


allarmistico, offensivo della dignità della persona. . Svelando una concezione del ruolo delle donne da cui traspare l'ideale materno come subordinato al benessere sociale e non come progetto di libertà personale e di amore. I diritti sessuali e riproduttivi e l'autodeterminazione sono principi fondamentali della persona, garantiti dal diritto internazionale e costituzionale. Per rispettare questi diritti occorrono politiche efficaci che rimuovano gli ostacoli al suo esercizio, non discorsi ideologici sui doveri riproduttivi delle donne".

Infine, visto che è il nostro lavoro, ricordiamo la nostra ricerca su maternità e giornalismo.
http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=91477&typeb=0

domenica 11 settembre 2016

La fertilità è affar nostro, non di Stato di Deborah Dirani

"Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell'intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione". Roma A.D. 2016 (dopo Cristo)

Dai tutto bene, no? Alla fine aveva ragione Giovan Battista Vico ed è tutto un corso e ricorso della storia per cui fattrici eravamo e fattrici torniamo. Il cerchio si chiude e le tube si aprono (che se sono chiuse si fa fatica a procreare e allora non si è mica delle brave cittadine). Sì, dai, tutto bene, ma non benissimo. Mica per essere polemica però c'è qualcosa di inquietante nel manifesto licenziato dal Ministero della Salute per promuovere il Fertility Day (festa nazionale di ovuli e spermatozoi e chi più ne ha più ne metta, o insomma, li doni) che il prossimo 22 settembre ricorderà, come da graziosa foto della campagna, che noi donne abbiamo una scadenza. Che il nostro compito nella società non è mica alzarci al mattino, andare al lavoro e contribuire alla crescita del PIL. Ma per favore, roba da anni '70, questa. No: il nostro compito è vestire con una bella gonna a ruota, indossare un paio di decolleté tacco 6, legarci un grembiulino alla vita, cotonarci i capelli e sfornare bambini come vitellini. Bellissima prospettiva. Del resto è per questo che siamo venute al mondo, no?

Ma perché mandarci a scuola. Passino elementari e medie, ma il liceo? E l'università? Per carità, di Artemisia Gentileschi ne basta e avanza una, e poi non ha nemmeno fatto 'sta gran fine. Vedi? Se una si sottrae a quel privilegio (privilegio) che la natura, madre non matrigna, le ha accordato, di essere a sua volta madre e non matrigna, non c'è dubbio: va a finire male, malissimo.

Guarda lì che ingloriosa fine ha fatto la Rita (Levi Montalcini), senza marito e senza figli. Come se un Nobel potesse mai ripagare della tremenda frustrazione di non avere sfornato torte margherita e crostate di lamponi per mariti e marmocchi. Ma quando mai.

Rimettiamo le cose a posto, a partire da questo Fertility Day che ha il nobile scopo di diffondere la cultura della fertilità e spiegare come si fanno i bambini. Che sono creaturine deliziose ma che, per mio sommo disappunto, non vengono depositate sotto a un cavolo da una cicogna. Allora ci pensa il Ministero della Salute a insegnarci come fare. A prenderci cura delle nostre ovaie innanzitutto. Che servono alla patria! (ma non vi ricorda niente?) La patria ha bisogno di noi. Donne, uniamoci e sforniamo. Che mica si ferma l'orologio biologico, clessidra inclemente dell'avanzata della senescenza.

E sarà che ho quasi 43 anni e sarà che mi sto facendo rivoltare come un calzino nel tentativo di diventare mamma tra esami, ormoni e tutto quello che ci va dietro, sarà quello che volete ma a vedere la foto di questa signorina che mi sorride garrula toccandosi il pancino e sventolandomi una clessidra sotto al naso a me non è che viene tutta 'sta voglia di fare figli, mi viene invece quella di guardare dritto negli occhi il genio che si è inventato il Fertility Day e propormi come babysitter dei suoi 12 figli (che ne avrà almeno 12, sennò che parla a fa'?).

Per piacere abbiate rispetto per noi: non siamo fattrici, non siamo venute al mondo per fare figli. Magari vorremmo ma non possiamo, magari potremmo ma non vogliamo. Magari, ipotesi affatto peregrina, sono solo fatti nostri. Di sicuro non della Patria. La maternità è un fatto privato, una scelta, un desiderio, un'opzione, una possibilità che riguarda ogni donna e nella quale mai più nessuno deve sentire il diritto di intromettersi.

PS: Ritengo la maternità un'esperienza meravigliosa che arricchisce la vita di una donna, non la ritengo però l'unica esperienza di valore che una donna possa fare nel corso della sua vita.

PPS: Non conosco democrazie nelle quali la fertilità sia considerata un bisogno essenziale della società, conosco però molti regimi che la considerano tale.

http://www.huffingtonpost.it/deborah-dirani/la-fertilita-e-affar-nostro-non-di-stato_b_11793828.html

mercoledì 7 settembre 2016