sabato 15 giugno 2019

Le azzurre del calcio femminile sono vincenti, ma restano… dilettanti di CRISTINA PIOTTI

Non è un offesa, è la realtà. Arrivano alle stesse altezze del podio, qualche volta superano di gran lunga le controparti maschili: è successo con le azzurre ai Mondiali di calcio di Francia. Eppure, in Italia le donne non possono essere professioniste, nello sport. Ecco perché

Le une vincono tanto quanto gli altri. Arrivano alle stesse altezze del podio, qualche volta superano di gran lunga le controparti maschili: l’abbiamo visto sui campi del volley mondale, nel settembre 2018, sta succedendo proprio in queste settimane, con le azzurre in campo ai Mondiali di calcio di Francia 2019, un anno dopo la mancata partecipazione degli uomini.

Eppure tutto questo lo fanno per puro diletto. Dilettanti infatti è la categoria nella quale si misurano e competono, visto che in Italia sono solo quattro gli sport contemplati nel professionismo (calcio, ciclismo, golf e pallacanestro), e sono tutti praticati da uomini. Le donne restano quindi sempre un passo indietro, anche se per cambiare le cose basterebbe partire da una legge. La 91 del 1981, che disciplina le “norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti”.
Ce ne parla Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, l’Associazione Nazionale Atlete.

«Nel 1981, in virtù del grande movimento economico che iniziava a ruotare attorno al mondo del calcio, lo Stato italiano fece una legge sul professionismo sportivo, la 91/1981. Si tratta di una legge fatta frettolosamente, che stabiliva delle tutele doverose, ed elementari, che dovevano essere assicurate ad un lavoratore dello sport, se faceva dello sport il suo lavoro e la sua professione».

Quali sono quindi i professionisti, oggi?

«Ad oggi ad usufruire della legge sono quattro discipline, calcio, ciclismo, golf e pallacanestro solo maschili. Quindi si è creata una situazione per la quale nessuna donna sportiva ha lo status di professionista, né può accedere ad una legge dello stato. E che uno strumento possa essere adottato solo per gli uomini e non per le donne, lo trovo altamente anticostituzionale».

Come si può cambiare la situazione?
«La legge spiega che a decidere quali siano le discipline sportive in questione, lo deciderà il Coni, che è l’organo che governa lo sport, con le federazioni sportive nazionali. Ma il Coni non l’ha mai fatto e l’unico modo è che il le federazioni facciano richiesta al Coni. La responsabilità è sicuramente anche delle federazioni, ma a monte dovrebbe esserci una legge, anche se, a ben guardare, basterebbe ricordarci dell’articolo 3 della costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

La discriminazione riguarda però anche alcune categorie maschili.
«Certo. Parliamo di una situazione rocambolesca, e senza dubbio anche tanti atleti maschi subiscono questa vergogna, ma per le donne la discriminazione è totale. Nessuna donna sportiva può accedere al professionismo».

Questo quali ricadute ha, sulla vita di un’atleta?
«Per una donna, come un uomo, non essere riconosciuti come professionisti significa non avere un lavoro per il quale siano riconosciuti dei diritti elementari. Parliamo di mancanza di un contratto tipo, di contributi previdenziali, di tutele della maternità, della malattia, dell’infortunio, del Tfr. Un’atleta quando è incinta, generalmente deve interrompere il suo contratto: grazie ad Assist, abbiamo ottenuto un fondo a sostegno delle atlete madri, che riconosce mille euro al mese, per nove mesi. Ma alla base della questione c’è il fatto che per legge sei un lavoratore invisibile, mentre se lavori in maniera continuativo e dallo sport deriva il tuo reddito prevalente, sarebbe doveroso il riconoscimento».

Invece…
«Invece calciatrici che oggi ci portano ai Mondiali, vivono in uno stato di dilettantismo forzato, tra rimborsi spese e bonus, nell’impossibilità di accedere al professionismo. E, sempre parlando di calcio, ci troviamo di fronte a veri e propri paradossi, peraltro ridicoli, come un tetto massimo allo stipendio fissato a 27 mila euro – cosa che come ben sappiamo non esiste assolutamente per i calciatori».

Ma quindi, calcio a parte, come e di cosa vivono le atlete italiane?
«L’escamotage, per atleti ed atlete di discipline singole, è quello di entrare in gruppi militari, dove vengono assunti. E come soldati assunti, hanno una doverosa protezione. Il paradosso è quindi che il medagliere italiano, l’eccellenza dell’eccellenza, è incredibilmente militarizzato. In questo, siamo un caso unico in Europa, a parte in Russia».

Parliamo però di società che a questa richiesta risponderebbero che non possono permettersi la contrattualizzazione in blocco delle atlete.
«Ma le condizioni economiche dei datori di lavoro non possono far cambiare le tutele del lavoratore! Se non costruiamo delle tutele, nello sport così come in atri settore, i lavoratori non saranno tutelati mai. Certo, è evidente che lo Stato deve aiutare le società nella fase di passaggio, ma questa non può essere la ragione principale per una mancanza di diritti. Anche perché, lo ricordo, parliamo di migliaia di lavoratori e lavoratrici che fanno professionismo vero, portando a giri d’affari di milioni di euro in alcuni club – hanno quindi tutto il diritto di veder riconosciuti i loro diritti».

Quali sono le prospettive, per il futuro?
«Questo governo è il primo a parlare di lavoro sportivo, cosa che noi chiediamo da anni. Hanno annunciato una grande riforma a riguardo, hanno istituito una nuova realtà, Sport e Salute che diventa collettore dei fondi e prenderà il posto della Coni Servizi. Come si svilupperà il tutto, deve ancora essere compreso, ma quello che abbiamo scoperto con piacere è appunto che all’interno del progetto c’è l’istituzione del lavoro sportivo».

Perché l’impressione è che il calcio femminile sia in fase di sprint?
«Perché in effetti il movimento calcio femminile ha subito un’accelerazione. La Uefa ha chiesto a tute le federazioni nazionali di investire sul movimento femminile due anni fa, finanziandone economicamente lo sviluppo, perché ha capito che potenzialità ci sono. Finanziamenti dati perché venissero fatte delle operazioni di promozione importanti – ecco perché la Figc due anni fa ha promosso lo sviluppo del calcio femminile, chiedendo ai club di creare sia delle divisioni femminili in serie A sia nei vivai».
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