La Turchia ha deciso di uscire dalla convenzione di Istanbul che fu sottoscritta nel 2011 proprio nella metropoli sul Bosforo. Nei giorni scorsi Erdoğan ha annunciato il decreto di recesso al trattato per la prevenzione dalla violenza sulle donne che obbliga i governi ad adottare leggi per contrastare il femminicidio, le mutilazioni genitali ma anche la violenza domestica. Da tempo il presidente turco ha fatto proprie le istanze dei fondamentalisti islamici e della destra nazionalista che considerano la convenzione di Istanbul un attacco alla sovranità nazionale e alla famiglia tradizionale. E questo è il risultato.
Così dopo aver cercato di silenziare le voci libere nell’università turca ora Erdoğan fa un ulteriore passo contro i diritti umani e delle donne in particolare. Fa rabbrividire che la ministra della famiglia e delle pari opportunità, Zehra Zumrut Selcuk, dichiari che «la lotta contro la violenza sulle donne è garantita dalle nostre tradizioni». L’idea che fermare la violenza sulle donne tra le mura di casa incoraggi i divorzi e l’unità della famiglia appartiene alla logica patriarcale che vuole la donna sottomessa al pater familias, in Turchia come altrove. E pensare che in Turchia le donne conquistarono il diritto di voto e di eleggibilità nel lontano 1930 (con il governo di Atatürk). La laicità della Costituzione kemalista è stata frontalmente attaccata da Erdoğan come hanno denunciato, anche sulle pagine di Left, il premio Nobel Pamuk, l’avvocato e scrittore Burhan Sönmez, scrittrici e attiviste arrestate o costrette all’esilio come Asly Erdoğan, Ece Temelkuran e Pinar Selek.
Negli ultimi anni, e in particolare dopo la stretta autoritaria imposta dopo il fallito golpe del 2016, la condizione delle donne in Turchia ha subito una pesante regressione e il numero dei femminicidi, piaga endemica, è cresciuto moltissimo. Sono già più di 70 i casi accertati dall’inizio di quest’anno. Intanto, come scrive qui Chiara Cruciati, Erdoğan vuole mettere fuori legge il partito curdo e di sinistra Hpd, moltiplica gli attacchi militari in Siria e Iraq e, foraggiato dalla Ue, continua a bloccare i migranti e richiedenti asilo. Emma Bonino, che tanto ha lottato contro le mutilazioni femminili, contraddittoriamente spinse molto negli anni passati per l’ingresso della Turchia di Erdoğan in Europa. E questo ci dice molto delle pesanti contraddizioni dell’Europa liberale che si dice culla dei diritti umani ed esternalizza le frontiere affidandole a chi viola ferocemente quei diritti.
Ma su un punto la fondatrice di Più Europa aveva e ha ragione: nonostante i diritti conquistati sulla carta le donne sono- siamo- ancora invisibili. Anche in Europa, anche in Italia.
Accadeva prima che scoppiasse la pandemia. Ed è tanto più drammaticamente vero oggi. Le donne hanno retto sulle proprie spalle un anno di crisi sanitaria ed economica, durante il lockdown dovendosi dividere fra “lavoro agile”, la didattica a distanza dei figli, la cura degli anziani e della casa. A dicembre i dati dell’Istat hanno messo nero su bianco quel che già avevamo descritto: la gran parte delle persone che hanno perso il lavoro in Italia sono donne. Il 98 per cento dei posti andati perduti a dicembre erano occupati da donne, impegnate nei settori più colpiti dalla crisi come il terziario, il turismo, la cultura, perlopiù con partite Iva, contratti precari e a tempo determinato, senza garanzie. È accaduto nel silenzio generale, senza adeguate politiche di governo che mirino a sostenere e a rilanciare questi settori anche per il futuro del Paese. E nulla è cambiato da questo punto di vista nel passaggio dal governo Conte al governo Draghi. Insieme ai giovani le donne restano le più penalizzate.
Ma le donne sono anche la metà del mondo, una metà resistente, resiliente, nolente o volente, multitasking. Preparate, spesso creative e dotate di una intelligenza nuova che a che fare con la sensibilità, le donne hanno qualità fondamentali per uscire dalla crisi in cui siamo piombati e che ha reso evidente a tutti l’importanza della salute, del benessere psicofisico, della qualità delle relazioni e delle reti di protezione sociale. E questo è il dato che l’establishment politico non “vede”, che non vuol vedere.
Non si comprende che investire sulle donne non è (solo) un imprescindibile fatto di giustizia sociale, ma anche un volano per l’economia, anche solo per il fatto che – banalmente – se le donne lavorano aumenta anche la domanda di servizi. A questo proposito la rete nazionale Il Giusto mezzo chiede l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund per la riduzione del gender gap, per sostenere la formazione e il lavoro femminile.
Con una precisa visione: le donne non sono solo una fascia debole da sostenere ma anche e soprattutto soggetti attivi del cambiamento, vogliono contare nella società e in politica per poter cambiare quella normalità malata che ci ha portati dritti in questa catastrofe sanitaria. Ed è questo aspetto meno raccontato del ruolo chiave che oggi giocano le donne in politica che abbiamo voluto mettere al centro di questa storia di copertina che abbiamo realizzato chiedendo a esponenti di sinistra progressiste, laiche, ambientaliste di mettere su carta idee e visioni per riprogettare il futuro.
Le donne sono sull’orlo di cambiare il mondo, per dirla con Annamaria Gallone, la direttrice del Fescaal, il festival del cinema africano dell’Asia e dell’America Latina, intervistata su questo numero.
Uno studio del World economic forum, curato da Supriya Garikipati dell’Università di Liverpool e da Uma Kambhampati dell’Università di Reading, sostiene che i Paesi guidati da donne, dalla Nuova Zelanda alla Finlandia, siano quelli che hanno reagito meglio alla crisi pandemica, chiudendo prima, proteggendo di più la popolazione. Indagheremo per verificare se sia andata effettivamente così. Quello che è certo, intanto, è che le politiche sovraniste, suprematiste, di presidenti e leader aperturisti in nome del profitto e della produzione ad ogni costo si sono dimostrate disastrose. Basta pensare all’ecatombe di morti nel Brasile del negazionista Bolsonaro e negli Usa di Trump, dove il maggior numero di vittime si è stato registrato fra gli afroamericani e le minoranze più povere. Senza dimenticare il Boris Johnson della prima ora che freddamente diceva alla popolazione di rassegnarsi alla perdita dei propri cari più anziani, come se il darwinismo sociale fosse un ineluttabile dato di natura e non il portato anche di politiche ultra liberiste.
Proprio in Gran Bretagna, la settimana scorsa, donne che manifestavano pacificamente sono state caricate dalla polizia. Era una veglia in memoria di Sarah Everard, rapita e uccisa da un poliziotto. La sicurezza, la libertà e l’emancipazione della donne è una questione che riguarda tutti.
Inquietanti segnali di involuzione confessionale e repressiva arrivano non solo dalla Turchia ma anche dal cuore dell’Europa, dalla Polonia di Kaczyński. Le attiviste e i giovani giustamente si sono riversati in piazza in oceaniche manifestazioni di protesta. Dobbiamo fare rete, respingere l’offensiva ai diritti delle donne a livello internazionale ma dobbiamo anche ascoltare la loro voce. È un’occasione per tutti. In molte parti del mondo le donne stanno scrivendo una nuova geografia politica, culturale, economica. Le donne sono protagoniste dell’impegno ambientalista. Dalle donne di sinistra – come leggerete anche in questo numero – vengono proposte che fanno la differenza per il futuro. L’empatia, l’attenzione per gli altri, per gli affetti, per la qualità della vita, per i bisogni e le esigenze delle persone, insieme alla capacità di governare i processi politici ed economici, sono le leve del cambiamento. E non sono certo un’esclusiva femminile, basta che gli uomini abbiano voglia di mettersi in gioco e scoprire queste qualità dentro in sé. La partita è aperta e quanto mai suggestiva perché per immaginare un mondo diverso, più giusto e più umano, serve una grande mobilitazione di intelligenza collettiva.
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