lunedì 27 febbraio 2017

Si può rimettere in discussione il diritto all’obiezione di coscienza in nome del diritto all’aborto? di Michela Marzano

Si può rimettere in discussione il diritto all’obiezione di coscienza in nome del diritto all’aborto e cancellare la libertà di coscienza sulla base di ideali progressisti? La libertà di coscienza è uno di quei diritti fondamentali che sono alla base di ogni democrazia liberale. Lo afferma per la prima volta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789; lo ribadisce la Convenzione europea dei diritti umani; lo rivendica chiunque abbia a cuore non solo il rispetto dell’autodeterminazione di ogni persona, ma anche la necessità di salvaguardare lo spirito critico evitando il rischio che, smettendola di pensare con la propria testa, si finisca con l’eseguire ciecamente ciò che ci viene domandato. Al punto di scivolare “banalmente” nel male, per utilizzare le parole di H. Arendt che in certi casi considera la disobbedienza come un dovere. È nella libertà di pensiero e opinione che trova le proprie radici l’obiezione di coscienza, invocata in un primo tempo dai pacifisti nei confronti del servizio militare, ma poi estesa anche ai medici e ad altre professioni in cui l’integrità personale può talvolta fare a pugni con gli ordini, le richieste o le norme giuridiche.
Come accade però con ogni diritto, anche per l’obiezione di coscienza è necessario prevedere restrizioni, almeno ogniqualvolta altri diritti, ugualmente legittimi, rischiano di essere calpestati – come accade nel caso dell’IVG, ma anche per la procreazione assistita, il fine vita, ecc. Nonostante la legge 194 preveda che le strutture pubbliche garantiscano la possibilità di abortire a ogni donna che lo abbia deciso, i dati raccontano d’altronde come la realtà sia ben più complessa: in alcuni ospedali, il tasso degli obiettori è talmente alto (talvolta anche superiore al 90%) che molte donne sono costrette a spostarsi da una regione all’altra o a recarsi all’estero. Come ha recentemente ricordato il Consiglio d’Europa – condannando l’Italia per violazione sia del diritto delle donne ad accedere all’IVG, sia del diritto dei medici non obiettori al lavoro – non permettere ad una donna di abortire significa svuotare di senso la legge e, di fatto, accettare il ritorno di aborti clandestini. Ma come può uno Stato tollerare l’ipocrisia di quando si permetteva ad alcune donne, le più privilegiate, di abortire tranquillamente, lasciando le altre nella disperazione?
Il problema di fronte al quale siamo oggi non è quello della legittimità o meno dell’obiezione di coscienza dei medici, come alcuni suggeriscono, né quello dell’illegittimità dell’aborto, come ripetono coloro che non perdono occasione per trasformare le norme morali in pietre da scagliare. Il problema è quello del bilanciamento, e quindi dell’equilibrio necessario, tra il diritto di alcune persone all’obiezione di coscienza e il diritto di altre ad accedere all’IVG nelle strutture sanitarie pubbliche. L’apparente conflitto tra i due diritti viene infatti meno nel momento in cui, come al San Camillo di Roma, i medici appena assunti abbiano già accettato, in piena coscienza, di praticare aborti. Perché non immaginare allora di regolamentare a livello nazionale una riserva concorsuale per i medici non obiettori invece di cancellare la possibilità stessa dell’obiezione di coscienza che, come il diritto all’autodeterminazione e alla salute, fa parte delle libertà fondamentali di ognuno di noi?
http://www.michelamarzano.it/obiezione-coscienza-aborto/

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