La più ampia pubblicazione per Save the Children, è disponibile in PDF. Scarica l'Atlante dell'Infanzia 2020
STEREOTIPI DI GENERE
L’“Atlante dell’infanzia a rischio” è giunto quest’anno alla sua undicesima edizione, una pubblicazione che da oltre un decennio fornisce numeri, dati e riflessioni sui minori più vulnerabili che vivono nel nostro Paese. Quali sono i fattori che condizionano il futuro dei bambini fin dai primi anni di vita? Quali servizi possono diventare opportunità di riscatto in condizioni di disagio? In questo estratto online daremo una panoramica di tutto questo ma con un focus sulle disuguaglianze di genere.
In Italia vi è una grande disparità di genere che trova una delle sue espressioni più drammatiche nei femminicidi ma si manifesta quotidianamente in molti aspetti della vita. Quello della disuguaglianza di genere è un tema che ricorre spesso quando si parla della scarsa rappresentanza femminile nelle cariche pubbliche o ai vertici delle imprese, della ripartizione dei carichi di lavoro domestico e di cura, delle differenze salariali e dell’accesso al lavoro.Abbiamo cercato di capire dove nasce questo divario, quali sono le sue radici socio-culturali ed economiche che condizionano sin dall’infanzia e per sempre il futuro delle bambine.
Un’indagine dell’Istat sugli stereotipi relativi ai ruoli di genere in Italia indica, tra quelli più ampiamente condivisi, il fatto che debba essere l’uomo a provvedere alle necessità economiche della famiglia (27,9%), che per l’uomo più che per la donna sia molto importante avere successo nel lavoro (32,5%) e che sempre lui sia poco adatto ad occuparsi delle faccende domestiche. Convinzioni di questo tipo pesano come macigni se consideriamo, ad esempio, come sono effettivamente ripartiti i carichi di lavoro domestico tra donne e uomini occupati: 4h08’ al giorno per le prime, 1h47’ per i secondi. Una sproporzione sostanziale che non riguarda solo gli adulti ma coinvolge anche figlie e figli minori. Le piccole incombenze domestiche quotidiane sono infatti equamente ripartite indipendentemente dal genere fino agli 11 anni, ma superata quest’età si comincia a evidenziare una sproporzione del carico domestico a sfavore delle ragazze che lavorano mediamente un quarto d’ora in più dei fratelli maschi.
Gli stereotipi di genere sui ruoli si formano molto presto e condizionano precocemente anche le aspettative, i comportamenti e gli stessi interessi dei bambini.
Gli studiosi hanno coniato il concetto di “illusione della parità”.
Le ragazze sono più brave dei loro compagni di classe, abbandonano meno la scuola e si laureano di più dei loro coetanei, ma quando entrano nel mondo del lavoro scoprono che la parità è ancora lontana. La differenza salariale tra donna e uomo (a svantaggio della donna) è solo una delle disparità più visibili. Pesa moltissimo sulle occupate e non – ad esempio - anche il maggiore carico di lavoro domestico.
Gli stereotipi di genere agiscono anche su quella che viene chiamata “segregazione formativa” che vede una presenza di massa delle ragazze nei percorsi formativi che hanno al centro le materie umanistiche e sociali ma solo in piccolissima parte nelle “hard STEM”.
Apparentemente può sembrare una scelta libera da condizionamenti, in realtà è l’effetto di dinamiche più profonde. Non c’è un’adeguata valorizzazione del contributo delle donne alla scienza, con la conseguente assenza di modelli e di rappresentazione. Al contrario, la narrazione collettiva, anche dei media, è ancora troppo legata all'idea dello scienziato uomo autorevole e di successo. In questo neppure la scuola è riuscita pienamente, fino ad ora, a decostruire il modello dominante per indirizzare e stimolare parimente alunne e alunni verso le materie scientifiche.
IL FUTURO DELLE BAMBINE
Dove nascono quelle difficoltà che rendono più complicato il percorso delle bambine e delle ragazze verso il futuro che meritano?
In molti casi può succedere sin dai primissimi anni di vita, nei casi più fortunati il divario può palesarsi più avanti negli anni. Una "specializzazione" delle competenze, ad esempio, si osserva molto precocemente. Già a partire dalla scuola primaria si delinea un divario nelle capacità matematiche a favore dei bambini e di quelle alfabetiche a favore delle bambine. Secondo i ricercatori dell’Invalsi, le motivazioni si possono riscontrare in molteplici fattori, dai condizionamenti familiari e culturali alle capacità della scuola di motivare e valorizzare aspettative e competenze.
Facendo un passo indietro negli anni della formazione dei bambini, vale la pena soffermarsi sui servizi offerti nell’ambito della prima infanzia.
Nonostante sia stato finalmente riconosciuto il ruolo educativo degli asili nido - accessibili e di qualità - nel ridurre disuguaglianze e povertà educativa, e sia ora integrato sotto la guida del MIUR, a questo passaggio però non è corrisposto un investimento di risorse adeguato e un vero e proprio coordinamento: la reale accessibilità e il livello dell’offerta di servizi per la prima infanzia sono ancora prevalentemente a carico dei singoli Comuni, quindi ancora molto legati alle variabili territoriali e moltissimi Comuni non hanno né risorse né capacità amministrative per assicurare questo tipo di servizio. Lo sviluppo degli asili nido, soprattutto nelle zone più deprivate, può avere un impatto sociale significativo sia sui bambini sia sulle famiglie e in particolare sulle donne madri. L’offerta educativa nella fascia 0-6, infatti, contribuisce allo sviluppo cognitivo dei bambini (influenzando l’apprendimento ma anche le capacità di socializzazione) e costituisce un punto di riferimento essenziale per i genitori.
La possibilità di contare sugli asili nido rappresenta un volano indispensabile anche per l’occupazione femminile, considerando che un numero sempre maggiore di donne è costretto a scegliere tra vita professionale e maternità.
L’assenza di una rete di presa in carico dei bambini nella prima infanzia, scoraggia le donne dalla ricerca di un’occupazione e aumenta le richieste del part time o addirittura le dimissioni dall’impiego in corso. Le rilevazioni dell’Ispettorato del lavoro relative al 2019, riportano che il 73% delle dimissioni volontarie di quell’anno venivano da madri lavoratrici con figli molto piccoli (per un totale di 37.611 donne).
Le maggiori difficoltà per donne e ragazze nel mondo del lavoro non si limitano alla complicata conciliazione tra vita privata e professionale. In generale avranno infatti più difficoltà a trovare lavoro e, anche quando sono occupate, hanno uno stipendio più basso rispetto ai pari grado dell’altro sesso (gender pay gap).
In moltissime ragazze è presente l’intuizione che lo studio potrà essere un elemento essenziale per colmare lo svantaggio e questo le spinge a frequentare l'università.
Da non sottovalutare il fenomeno delle “sovra-istruite”: qualifiche post-laurea, soggiorni all’estero, anni di studio e dedizione non impediscono che – pur di lavorare – molte ragazze accettino lavori non adeguati alle proprie qualifiche, sotto retribuiti e magari part time.
C’è poi anche chi lascia precocemente la scuola, i cosiddetti “early school leavers”. Maschi e femmine mostrano nelle statistiche una differente “propensione” all’abbandono. Se andiamo ad analizzare la serie storica degli ultimi 15 anni in Italia, i ragazzi lasciano gli studi precocemente più spesso delle ragazze. Nel 2019 i numeri parlavano rispettivamente del 15,4% di abbandoni contro l’11,5%, ma il dato complessivo si declina con significative disuguaglianze nelle varie realtà territoriali.
Diversi fattori condizionano le differenze di genere dell’abbandono scolastico, tra questi non possiamo non considerare la maggiore facilità per i maschi, anche se meno istruiti, di inserirsi e restare sul mercato del lavoro. Nell'orizzonte delle ragazze, invece i tempi della ricerca di un’occupazione si dilatano, condizione che rende le ragazze più reticenti ad abbandonare la scuola e più concentrate e adattabili nel percorso di studio.
A RISCHIO POVERTA'
Quello della povertà è un fenomeno multidimensionale e difficile da cogliere in tutta la sua complessità. In Italia mancano stime accurate per misurare la povertà di genere perchè si fa riferimento prevalentemente alla capacità di spesa dei nuclei familiari, su base campionaria, così come per la misura del rischio povertà di Eurostat che fornisce comunque un indizio: un rischio maggiore nelle donne tra i 25 e i 54 anni.
Molti altri dati però indicano disuguaglianze di genere nella capacità economica. L’assenza di un impiego o le occupazioni saltuarie e part time, retribuzioni inferiori e minori opportunità di carriera sono tutte condizioni che contribuiscono a segnare il destino economico delle donne: nel 2017 la quota di quelle che percepivano una pensione inferiore a mille euro al mese era del 45% rispetto al 27% degli uomini.
Ma anche i dati relativi alle giovani generazioni preoccupano e dimostrano che un’inversione di tendenza non si è ancora verificata. Nel 2019, erano 1 milione 60 mila le ragazze tra i 15 e i 29 anni che non studiavano né lavoravano (NEET), quasi 1 su 4, rispetto a 940 mila ragazzi, 1 su 5. Tra i 25-34enni, 106 mila giovani donne erano definite “scoraggiate”, ma soprattutto 500 mila erano inattive "per motivi familiari" a fronte di soli 24 mila giovani uomini e, infine, 419 mila donne lavoravano in part-time involontario a fronte di 239 mila maschi. C’è anche un 40% di occupate definite “sovra-istruite” dall’Istat contro il 35% dei coetanei maschi.
Il percorso a ostacoli fin qui delineato, quindi, può influire gravemente sulle condizioni economiche delle donne e sul loro lento scivolamento nell’indigenza.
VIOLENZA DI GENERE
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