196 donne morte di femminicidio tra il 2017 e il 2019, il 57,4% delle quali ammazzate dal partner anche convivente, il 12,7% dall’ex partner. Il 28% delle donne ucciso con efferatezza,169 gli orfani di femminicidio, 174 se si contano anche i 3 piccoli ammazzati insieme alla mamma. Sono questi i principali numeri dell’indagine dal titolo “La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia” che abbiamo presentato al Senato il 24 novembre, il cui dato più agghiacciante è proprio quello della solitudine delle donne: il 63% delle morte di femminicidio in quel biennio non aveva parlato delle violenze che subiva neanche con un’amica e solo il 15% aveva denunciato, trovando per la verità una risposta inadeguata.
Questa ricerca, da cui parto per fare un ragionamento più esteso all’indomani delle celebrazioni per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è storica perché per la prima volta dei casi e dei processi per femminicidio abbiamo analizzato gli interi fascicoli processuali e non solo le sentenze finali. Trovando la conferma, per esempio, che l’inasprimento delle pene non è un deterrente, dal momento che il 35% degli uomini dopo il fatto si suicida e che la percentuale sale a 9 uomini su 10 se il femminicida ha un porto d’armi. Abbiamo purtroppo rilevato anche che, così come il processo, le sentenze non rendono spesso giustizia alle donne ammazzate, perché contengono ancora termini come “raptus” e “gelosia” e perché tendono a derubricare la violenza anche brutale al litigio, alla “relazione burrascosa” tra due, in fondo, amanti.
A tutto questo si aggiungono i dati freschi del Viminale, che raccontano come nel 2021 in Italia sia stata uccisa una donna ogni 72 ore, 109 femminicidi finora, con un aumento dell’8% rispetto all’anno precedente e 89 sono le donne che ogni giorno subiscono una qualche forma di violenza, nel 92% dei casi da mariti, conviventi, ex o fidanzati.
Di fronte a dati come questi non possiamo che chiedere a noi stessi, alla società tutta, dove stiamo sbagliando? Perché se le leggi ci sono e tanto è stato e viene fatto, le donne continuano a subire violenza e a morire? Abbiamo il dovere di porci questa domanda, con rigore, serietà, chiedendo a tutti quanti noi un salto culturale, un atto di responsabilizzazione collettiva. La lotta alla violenza contro le donne, la libertà delle donne dalla violenza deve diventare una priorità assoluta e una questione di civiltà riguardante tutti, donne e uomini. La violenza maschile contro le donne non è un fatto privato, è un fatto pubblico, non è un fenomeno emergenziale, è un fenomeno strutturale delle nostre società e come tale va affrontato. C’è quindi molto da fare.
La prima cosa è credere alle donne, credere alle donne quando denunciano, quando chiedono aiuto, non soccombere a stereotipi e pregiudizi. Solo così le donne denunceranno. La seconda è che da questa società servono parole più nette nel condannare il comportamento degli uomini, nel caricare del giusto disvalore sociale la violenza domestica e di genere e il femminicidio. Bisogna chiedere agli uomini una chiara e netta assunzione di responsabilità per superare stereotipi e pregiudizi, che ingabbiano sia le donne che loro stessi in ruoli ormai del passato.
Dai tempi dell’omicidio d’onore, tanto è stato fatto: le leggi ci sono. Serve però (in terzo luogo) la formazione, in particolare per tutti gli operatori della filiera della giustizia. Perché se non si riconosce la violenza, le normative non possono essere applicate in modo corretto e quindi non può esserci giustizia per le donne abusate, picchiate, uccise e per i loro figli. Anche gli strumenti per una maggiore tutela ci sono, dal braccialetto elettronico all’allontanamento dalla casa famigliare: utilizziamoli di più e meglio. Poi servono finanziamenti certi e adeguati per la rete antiviolenza, i centri e le case rifugio, come prevede il nuovo Piano antiviolenza, che andrà monitorato. I figli non vanno strappati con la forza alle madri e un padre violento non può essere considerato un buon padre. Il processo civile per separazione e quello penale per violenza devono poter procedere insieme, come stiamo prevedendo attraverso una serie di modifiche normative.
Ecco, io credo che il Piano nazionale di ripresa e resilienza sia una grande occasione. Non ricostruiamo la società com’era, con gli stessi stereotipi e gli stessi pregiudizi, con ruoli predefiniti per uomini e donne che stabiliscono persino le preferenze negli studi di ragazze e ragazzi. Pretendiamo modelli di organizzazione e di produzione, di valutazione del merito e orari di vita diversi e non disegnati su un solo sesso: quello maschile. Non possiamo tornare indietro, dobbiamo mettere in moto quel 50% e più di donne che non lavora e permettere a quel poco meno del 50% che già ha un’occupazione di avere parità salariale, norme contro le molestie sui luoghi di lavoro, opportunità di carriera. Tutte, devono poter condividere con gli uomini il lavoro domestico e di cura. L’Italia non può più fare a meno dei talenti e delle competenze di bambine, ragazze e donne che prima di tutto devono essere libere dalla violenza, libere di scegliere.
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