lunedì 13 febbraio 2023

Afghanistan un anno dopo, le spose bambine e la prigione del velo di Nico Piro

Ad agosto del 2021 l’Occidente ha abbandonato il Paese. I Talebani ne hanno approfittato per privare le donne dei diritti che avevano conquistato a fatica: studiare, lavorare e soprattutto non indossare burqa o hijab

«Vogliamo che le nostre sorelle tornino in classe con noi». È il novembre del 2021 ed è tempo di esami nelle scuole superiore afghane, parlo con decine di studenti in diversi quartieri della capitale, incontrando sentimenti che non mi sarei aspettato. C’è tristezza, sconforto, persino disperazione perché le aule – dalla sesta alla dodicesima classe – restano chiuse per le ragazze, in tanti casi le sorelle degli stessi ragazzi che a scuola invece continuano ad andare – foto | video

L’odore di olio bruciato sale dai carretti degli ambulanti che vendono i tipici “bolani” fritti, ma non riescono ad aggiungere gioia all’ultimo giorno di scuola prima della lunga pausa invernale. Di fronte a un liceo, facendomi largo tra la folla di ragazzi, vedo una lunga fila dall’altra parte della strada, è quella per l’emissione dei passaporti, primo indispensabile passo per provare a lasciare l’Afghanistan dove la Storia, quella con la esse maiuscola, ha appena compiuto una traiettoria circolare.

ERA IL 15 AGOSTO 2021 – Il 15 agosto del 2021 la Storia ci riporta esattamente al suo punto di partenza, cioè a quel 12 novembre del 2001 quando i talebani, sotto le bombe americane, fuggivano da Kabul. In quello strambo Ferragosto i talebani rientrano nella capitale forti delle armi “made in Usa” che avevano strappato all’Esercito nazionale afghano, il cui allestimento era costato oltre 80 miliardi di dollari al contribuente americano (svariati anche a quello italiano) e che era imploso dopo l’offensiva estiva degli studenti coranici e il ritiro degli alleati. Il 15 agosto del 2021 in Afghanistan finisce (per ora?) la guerra ma se ne certifica anche la sua inutilità e assurdità. Si ritorna a vent’anni prima, dopo oltre 250mila vittime civili e un mare di sofferenza, dolore, distruzione, rancore pronto a generare un altro conflitto.

LA GUERRA (NON) È FINITA - La guerra è finita, una buona notizia in un Paese che contamorti da 42 anni (di questi, 20 vanno nel “capitolo” occidentale del conflitto) ma non è finita come l’Occidente sperava e davanti alle scuole se ne intravedono i primi segni. Divisi al loro interno e tentando di ottenere aiuti dalla comunità internazionale (sospesi di colpo proprio il 15 di agosto), i talebani hanno ripreso a governare il Paese esattamente da dove erano rimasti, dimostrando di essere cambiati solo nella comunicazione, non nella sostanza politica. Le prime vittime del loro rifondato oscurantismo sono le donne, i cui fragili e parzialissimi progressi degli ultimi 20 anni i talebani avevano sempre considerato il segno del degrado morale della società afghana nelle mani degli occidentali e del “loro” governo-marionetta. Così, dopo il now ruz (il capodanno persiano), alla riapertura delle scuole si assiste a una scena paradossale con le ragazze che – come promesso – rientrano in classe ma vengono poi mandate via, di gran fretta, all’arrivo di ordini nuovi. Al solito, “motivi organizzativi” che non solo raccontano delle divisioni interne al movimento talebano ma testimoniano anche che in Afghanistan è in atto una messa al bando, pur non dichiarata, dell’istruzione superiore femminile. Le donne pagano anche un altro prezzo, quello degli antichi usi tribali che ne fanno merce per matrimoni combinati oppure serve da sfruttare in casa. Sono tradizioni antiche, frutto della povertà di questa terra, negli ultimi 20 anni non sono andate via ma almeno erano nati i women’s shelter, case protette dove le donne in fuga potevano trovare rifugio.

«LE DONNE HANNO PERSO TUTTO» – Ne ho visitate diverse, ho assistito ai tentativi di mediazione che le operatrici conducevano con le famiglie per tentare di risolvere le dispute, ho visto le lacrime di una bambina ridotta in schiavitù dal neo-sposo mentre lei voleva studiare. Questi “rifugi” non esistono più, sono stati tutti chiusi perché considerati luoghi di perdizione. Chiusi nel momento peggiore, in cui la povertà – esplosa dopo la fine degli aiuti internazionali – sta moltiplicando matrimoni combinati e persino la vendita di neonati per tentare di sfamare il resto della famiglia. Le donne non hanno perso solo il diritto all’istruzione, la speranza (pur minima) di non essere trattate come “cose”, hanno perso anche il diritto alla propria identità, obbligate a indossare in pubblico il burqa o l’hijab saudita per essere l’una identica all’altra, e il diritto al lavoro (salvo che nella sanità). Anche in questo caso, il posto viene negato per “motivi organizzativi”, in attesa di una risistemazione degli uffici per separare donne e uomini: nient’altro che una scusa. Spesso penso a Wazida, ex-attivista per i diritti delle donne, che vive nascosta in casa da mesi alla periferia di Kabul, in attesa di un visto per rifugiarsi all’estero che – temo – mai arriverà. «Abbiamo perso tutto», mi ha detto l’ultima volta che l’ho incontrata. È viva ma la sua vita, semplicemente, non esiste più.

https://www.oggi.it/attualita/notizie/2022/07/24/afghanistan-un-anno-dopo-le-spose-bambine-e-la-prigione-del-velo-esclusivo/


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