Diritto all’aborto
sempre più a rischio.
Pro-life o Pro-choise.
Da che parte stai? Negli States tutto fa campagna elettorale:
coriandoli, poster di famiglie perfette, slogan sull’aborto. Alcuni
temi fanno impazzire la gente. Prendete cento persone e fatele
parlare di aborto: finirà in rissa. Tutti vogliono difendere la
propria opinione, condividerla e schierarsi.
Gli schieramenti sono
importanti e i loro nomi dicono moltissimo sulla loro natura. Per gli
americani entrambi gli slogan hanno un’accezione positiva e
propositiva, ma in Italia la carica emozionale conta. Se in America
ci sono i medici Pro-choise, qui si parla di non obiettori di
coscienza. Un termine al negativo, che suggerisce la mancanza di una
scelta di coscienza o della dovuta introspezione.
Un termine giudicante.
Proviamo a mettere al
centro del dibattito la donna e i suoi diritti.
In Italia la legge è
chiara ed è la 194 del 1978. Una legge che sancisce e regola il
diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Nella stessa
legge è riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza per il
medico, che può rifiutarsi di eseguire tale pratica per convinzioni
personali. Una tutela legittima, ma che apre una dicotomia inedita
nel rapporto medico-paziente: la scelta personale del medico tra il
rifiuto e il consenso alle cure.
Ora immaginate un paese
in cui il 70% dei medici si rifiuta di offrire una prestazione
sanitaria garantita dalla legge. L’esercizio di questo diritto
diventerebbe un’impresa disperata, anche se l’applicabilità
della legge dovrebbe essere una preoccupazione dello Stato.
Il caso è tutto
italiano: parliamo di una legge che non tutela lo stesso diritto che
riconosce. La relazione annuale sulla legge 194/78 presentata a
settembre dal Ministro Lorenzin è convincente: sette ginecologi su
dieci sono obiettori, con picchi dell’80-85% in alcune regioni del
sud dell’Italia.
Nonostante i numeri, il
Ministro ritiene la legge efficace: ogni medico non obiettore ha in
media 1,7 aborti alla settimana. E’ dunque inappropriato parlare di
mancanza di risorse.
Una conclusione, a mio
avviso, semplicistica.
Non si fa un solo
accenno all’esistenza di strutture in cui il 100% dei ginecologi è
obiettore e al continuo traffico di pazienti da un ospedale
all’altro. Se poi consideriamo l’obiezione da parte di
anestesisti e infermieri, si è costretti a un cinico gioco
dell’incastro per mettere insieme una semplice equipe.
Non c’è nessun
riferimento al turismo sanitario, che richiama in Francia,
Inghilterra e Svizzera migliaia di donne in cerca di diritti. Non c’è
una parola sui consultori familiari, in calo di 300 unità tra il
2007 e il 2010. Cade nel vuoto l’inchiesta di Repubblica sugli
aborti clandestini: ventimila secondo le stime ministeriali del 2008.
Il secondo dato diffuso
dal Ministero è che il numero di aborti volontari è diminuito del
4.9% rispetto il 2011. I Pro-life sono soddisfatti, ma il dato
diventa poco significativo anche solo considerando la diminuzione
della natalità nello stesso periodo (-3,3%).
La verità è che
quando la macchina sanitaria si blocca, le donne che se lo permettono
vanno all’estero, mentre quelle delle classi più deboli ricorrono
a metodi clandestini: sale operatorie improvvisate, farmaci comprati
su internet, sedicenti chirurghi. La cronaca ne è piena. E’ il
mercato nero. Un mondo sommerso dove le donne sono lasciate alla loro
solitudine. Qualcuna muore, qualcuna se la cava.
Le anomalie del sistema
italico non si fermano qui. I metodi alternativi all’aborto
chirurgico sono inspiegabilmente osteggiati. La RU486 è ormai un
farmaco orfano: nel 2011 in Lombardia è stata utilizzata solo per il
2% degli aborti e nelle altre regioni in non più del 15-20% dei
casi. Non si capisce perché una procedura poco invasiva e poco
rischiosa sia così scarsamente utilizzata.
Non va meglio per la
“pillola del giorno dopo”, la cui prescrizione è ancora negata
da alcuni medici sebbene la legge non preveda l’obiezione di
coscienza per questo farmaco.
Il sistema è dunque al
collasso, regolato da forze contraddittorie disomogenee e
inadeguatamente monitorate.
Nel 2012 il Comitato
europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa ha dato un
primo segnale di allarme, dichiarando ricevibile il ricorso esposto
contro l’Italia dall’ong IPPF EN (International Planned
Parenthood Federation European Network) in collaborazione con la
Laiga (Libera associazione ginecologi per l’applicazione della
legge 194). Nel ricorso si afferma che l’elevato numero di medici
obiettori non garantisce il diritto stabilito dalla legge 194, che
assicura a ciascuna donna l’accesso alle procedure per
l‘interruzione volontaria della gravidanza. Una presa di posizione
importante.
Sarà l’Europa a
darci delle risposte. I tempi per la sentenza sono lunghi, parliamo
di anni, ma è verosimile che non superino in lentezza quelli dei
nostri politici. La legge 194 sta morendo ed è necessario prenderne
atto, trovare delle misure che ne permettano una piena applicabilità.
La politica dei
paraocchi e del bluff è il solito trucchetto per non far discutere.
E’ un comodo espediente che limita le responsabilità e trasforma
il Parlamento nel barometro dell’opinione pubblica.
Non possiamo
accontentarci di coriandoli, poster di famiglie perfette e slogan
sull’aborto. E’ troppo poco per un Paese democratico.
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