mercoledì 9 ottobre 2013

Legge 194: Boom di obiettori tra i medici


Diritto all’aborto sempre più a rischio.
Pro-life o Pro-choise. Da che parte stai? Negli States tutto fa campagna elettorale: coriandoli, poster di famiglie perfette, slogan sull’aborto. Alcuni temi fanno impazzire la gente. Prendete cento persone e fatele parlare di aborto: finirà in rissa. Tutti vogliono difendere la propria opinione, condividerla e schierarsi.
Gli schieramenti sono importanti e i loro nomi dicono moltissimo sulla loro natura. Per gli americani entrambi gli slogan hanno un’accezione positiva e propositiva, ma in Italia la carica emozionale conta. Se in America ci sono i medici Pro-choise, qui si parla di non obiettori di coscienza. Un termine al negativo, che suggerisce la mancanza di una scelta di coscienza o della dovuta introspezione.
Un termine giudicante.
Proviamo a mettere al centro del dibattito la donna e i suoi diritti.
 In Italia la legge è chiara ed è la 194 del 1978. Una legge che sancisce e regola il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Nella stessa legge è riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza per il medico, che può rifiutarsi di eseguire tale pratica per convinzioni personali. Una tutela legittima, ma che apre una dicotomia inedita nel rapporto medico-paziente: la scelta personale del medico tra il rifiuto e il consenso alle cure.
Ora immaginate un paese in cui il 70% dei medici si rifiuta di offrire una prestazione sanitaria garantita dalla legge. L’esercizio di questo diritto diventerebbe un’impresa disperata, anche se l’applicabilità della legge dovrebbe essere una preoccupazione dello Stato.
Il caso è tutto italiano: parliamo di una legge che non tutela lo stesso diritto che riconosce. La relazione annuale sulla legge 194/78 presentata a settembre dal Ministro Lorenzin è convincente: sette ginecologi su dieci sono obiettori, con picchi dell’80-85% in alcune regioni del sud dell’Italia.
Nonostante i numeri, il Ministro ritiene la legge efficace: ogni medico non obiettore ha in media 1,7 aborti alla settimana. E’ dunque inappropriato parlare di mancanza di risorse.
Una conclusione, a mio avviso, semplicistica.
Non si fa un solo accenno all’esistenza di strutture in cui il 100% dei ginecologi è obiettore e al continuo traffico di pazienti da un ospedale all’altro. Se poi consideriamo l’obiezione da parte di anestesisti e infermieri, si è costretti a un cinico gioco dell’incastro per mettere insieme una semplice equipe.
Non c’è nessun riferimento al turismo sanitario, che richiama in Francia, Inghilterra e Svizzera migliaia di donne in cerca di diritti. Non c’è una parola sui consultori familiari, in calo di 300 unità tra il 2007 e il 2010. Cade nel vuoto l’inchiesta di Repubblica sugli aborti clandestini: ventimila secondo le stime ministeriali del 2008.
Il secondo dato diffuso dal Ministero è che il numero di aborti volontari è diminuito del 4.9% rispetto il 2011. I Pro-life sono soddisfatti, ma il dato diventa poco significativo anche solo considerando la diminuzione della natalità nello stesso periodo (-3,3%).
La verità è che quando la macchina sanitaria si blocca, le donne che se lo permettono vanno all’estero, mentre quelle delle classi più deboli ricorrono a metodi clandestini: sale operatorie improvvisate, farmaci comprati su internet, sedicenti chirurghi. La cronaca ne è piena. E’ il mercato nero. Un mondo sommerso dove le donne sono lasciate alla loro solitudine. Qualcuna muore, qualcuna se la cava.
Le anomalie del sistema italico non si fermano qui. I metodi alternativi all’aborto chirurgico sono inspiegabilmente osteggiati. La RU486 è ormai un farmaco orfano: nel 2011 in Lombardia è stata utilizzata solo per il 2% degli aborti e nelle altre regioni in non più del 15-20% dei casi. Non si capisce perché una procedura poco invasiva e poco rischiosa sia così scarsamente utilizzata.
Non va meglio per la “pillola del giorno dopo”, la cui prescrizione è ancora negata da alcuni medici sebbene la legge non preveda l’obiezione di coscienza per questo farmaco.
Il sistema è dunque al collasso, regolato da forze contraddittorie disomogenee e inadeguatamente monitorate.
Nel 2012 il Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa ha dato un primo segnale di allarme, dichiarando ricevibile il ricorso esposto contro l’Italia dall’ong IPPF EN (International Planned Parenthood Federation European Network) in collaborazione con la Laiga (Libera associazione ginecologi per l’applicazione della legge 194). Nel ricorso si afferma che l’elevato numero di medici obiettori non garantisce il diritto stabilito dalla legge 194, che assicura a ciascuna donna l’accesso alle procedure per l‘interruzione volontaria della gravidanza. Una presa di posizione importante.
Sarà l’Europa a darci delle risposte. I tempi per la sentenza sono lunghi, parliamo di anni, ma è verosimile che non superino in lentezza quelli dei nostri politici. La legge 194 sta morendo ed è necessario prenderne atto, trovare delle misure che ne permettano una piena applicabilità.
La politica dei paraocchi e del bluff è il solito trucchetto per non far discutere. E’ un comodo espediente che limita le responsabilità e trasforma il Parlamento nel barometro dell’opinione pubblica.
Non possiamo accontentarci di coriandoli, poster di famiglie perfette e slogan sull’aborto. E’ troppo poco per un Paese democratico.

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