lunedì 26 febbraio 2018

Perché l'età è diventata l'ossessione della nostra epoca Nell'era dell'eterna giovinezza ci lamentiamo di continuo dello scorrere del tempo. Per esorcizzare la paura di non essere più desiderati. E desiderare DI CATERINA SERRA

Perché l'età è diventata l'ossessione della nostra epoca
Sotto il ritratto c’è un cartiglio, un foglietto con su scritto Col tempo. Si trova alle Gallerie dell’Accademia a Venezia. È “La vecchia” di Giorgione, il busto di tre quarti, l’indice della mano destra puntato contro di sé, appena sopra il seno. C’è un altro dipinto di Giorgione conservato in un’altra area delle Gallerie, “La tempesta”, con un’altra donna, rappresentata più giovane, nuda, nell’atto di allattare. Un’ipotesi è che le due donne siano la stessa in età diverse della vita. Con quel modo di essere viste, prima giovani e madri, poi vecchie e quindi niente, mentre mostrano, seppure in modo diverso, un seno che non è erotico in nessuna delle due, prima è tenero, per tenere in vita, poi è avvizzito, né buono da succhiare né bello da guardare.
Si rivelano per come sono, rosea e carnosa l’una nella sua giovinezza, il colorito della pelle spento l’altra nel suo profilo di vecchia, una pelle che non è più fatta per accendere le fantasie di nessuno, un dito contro il petto che sembra ammonire chi la guarda, Visto come sono diventata, come col passare del tempo diventerai anche tu?

«Abbiamo quasi la stessa età e vivo anch’io nella quotidiana consapevolezza di invecchiare», dice Susan Sontag in una delle lettere allo scrittore Kenzaburo Oe - raccolte in “La nobile tradizione del dissenso” (Archinto ed., 2000). Parlando di età della vita trascrive per lui un passo di “Anime morte” di Gogol: Cicikov aveva dimenticato di essere ormai giunto a quel fatidico stadio della vita in cui tutto in una persona impigrisce, in cui si ha costantemente bisogno di essere risvegliati per non addormentarsi in eterno. Egli ignorava il modo in cui chi comincia a invecchiare viene inavvertitamente e quasi impercettibilmente assorbito dai volgari usi della società che alla fine lo opprimono e lo avviluppano al punto che in lui non resta più un individuo, ma soltanto un cumulo di riflessi e condizionamenti che appartengono al mondo. E quando si cerca di penetrare fino all’anima, l’anima non c’è più.

Stadi, età della vita. È facile sentire parlare di età. Ho una certa età. Alla mia età. A questa età. Non dimostra la sua età. Non ha età. Con l’età. Un’ossessione. L’età intesa come tempo lineare che porta vecchiaia, che coltiva dentro di sé il seme stesso della vecchiezza. E si comincia presto a raccontare al mondo e a se stessi di non essere più quelli lì, di quegli anni lì, quelli con quella velocità, quella freschezza, quella prontezza, quella forza, quelle possibilità, perfino quella follia. Ma perché ce l’abbiamo tanto con l’età? Perché sembra farci solo tristezza? Perché rimanda rapidamente alla fine della vita, alla morte?

Mentre siamo qui a parlare, sarà già fuggito via. Dum loquimur fugerit invida aetas, è il verso che precede il più noto e popolare Carpe diem, Cogli l’attimo - anche se Carpe è di più, è afferra, carpisci, abbranca, agguanta quell’invida aetas, quel tempo che sembra mangiarsi le ore, avidamente, come non fossimo noi a perderle, tra commerci umani e compravendita di merci, che è appunto tempo speso. La spesa del tempo, la più costosa di tutte.

L’età intesa come il tempo delle scelte, il tempo dell’essere, delle occasioni. Abbiamo bisogno di fissare il tempo con le cosiddette tappe della vita, di chiuderci dentro i confini di una definizione, col marchio dell’ormai è tardi, tutto quello che potevo fare di me non so neanche se l’ho fatto ma era comunque in quel tempo lì, prima di diventare vecchi. Perché nell’epoca dell’eterna giovinezza ci si racconta vecchi, acciaccati, stanchi, sfiniti?

Il racconto che facciamo di noi non elude mai l’età. Non facciamo altro che nominarla, come un alibi, un escamotage. Come se ci definisse una volta per tutte. Bastasse a dar conto di chi siamo. Sapendo che la narrazione di sé punta a zittire l’altro, serve a dirsi verità che non vogliamo sentirci dire da nessuno.

Sembra un bisogno di controllo, di potere su quel ristretto ordine di anni che una società paurosa e quindi rigida e regolamentata impone. All’interno di un collaudato sistema che nutre e si nutre di farmaci e creme prodigiose, chirurgia miracolosa, ginnastiche per ogni segmento di corpo, ripetuti soggiorni in luoghi di sedicente benessere che tolgono anni e pieghe anche dall’anima, elisir di lunghissima vita, congelamenti, ibernazioni, immortalità.

Una cultura dell’età che anziché sollevarci, rassicurarci, ci lusinga, ci seduce, e al tempo stesso impaurisce, rendendoci fragili al punto che ci viene forzatamente spontaneo intonare la nostra lamentazione funebre da soli, prima del tempo, mentre siamo ancora in vita. È il demone dell’invecchiamento a spaventarci, l’idea stessa di vecchiezza, col suo carico di insicurezza, precarietà, fragilità? O l’incubo di non essere più visti, amati, voluti mentre siamo ancora vivi?

Mi chiedo se ciò che ci fa nominare di continuo l’età, lamentandoci dello scorrere del tempo, non sia dunque la paura di non essere più visti come soggetti vivi, desideranti e desiderati. La tristezza che ne deriva. La tristezza del non essere più desiderati perché finché si è desiderati ci si sente potenti. Anzi no, immortali. E così, è triste e vecchia, la Vecchia, perché col tempo più che capitarle di invecchiare, non le capita più quello che l’ha tenuta in vita. Il desiderio, non solo quello di qualcun altro per lei, ma il suo verso le cose, verso qualcuno.

Quello che non cambia col tempo è quello che siamo rispetto al desiderio. Anche se non abbiamo più denti, vogliamo ancora addentare i frutti dell’ultima stagione, anzi, di ogni stagione.

Entrambe le donne di Giorgione ci guardano, la bocca della prima è piccola, chiusa, come a non saper dire, forse, o a tenere dentro, a lasciar parlare il suo corpo nudo, seduttivo e materno insieme, a sintetizzare quel che si voleva e si vuole ancora dalle donne. La bocca della seconda è semiaperta, sdentata, muta in modo diverso, la bocca di un infante, letteralmente di chi non parla, in questo caso, non parla più.

Eppure, chissà che non voglia dire qualcosa anche lei col suo corpo, vecchio, sì, ma vivo, e che non voglia dire, Guarda come sono ridotta, o Guarda come anche tu sarai, brutta, triste, vecchia, ma voglia dire invece, Vedi, sono qui, sono arrivata qui, così come ci arriverai tu, più o meno così, con la stessa voglia di aprire ancora la bocca e dire qualcosa, magari di sensato, con la voglia di essere ancora al mondo, di vedere, di toccare, di provare emozioni, di desiderare qualcosa, qualcuno.
http://espresso.repubblica.it/visioni/2017/12/05/news/perche-l-eta-e-diventata-l-ossessione-della-nostra-epoca-1.315239

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