mercoledì 4 aprile 2018

Se il morbillo si cura col vaccino e il femminicidio con un piatto di spaghetti di Emanuela Valente

E se la vera epidemia non fosse il morbillo ma il femminicidio? Nel 2017 in Italia sono morte 4 persone per morbillo e 116 donne per femminicidio. La violenza assistita coinvolge circa 40mila bambini, contro i circa 4mila che contraggono malattie esantematiche. Perché allora tanta attenzione preventiva solo verso le patologie infettive? Anche la violenza contro le donne può essere prevenuta e curata: basta fare campagne informative corrette e formare gli specialisti in grado di adottare le giuste misure terapeutiche.

Sono 4885 i casi di morbillo registrati in Italia nel 2017, di cui 4 decessi. Il 90% dei casi è stato segnalato da 8 Regioni. Il 95% dei casi era non vaccinato o aveva ricevuto solo una dose di vaccino. Nello stesso periodo sono stati segnalati 65 casi di rosolia (senza decessi). Sono questi i dati ufficiali diffusi dal bollettino Iss e pubblicati nel portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica. Già, perché le malattie esantematiche esiste un vero e proprio osservatorio che raccoglie ed analizza i dati di ogni regione italiana. In questo modo è possibile osservare ed eventualmente controllare il diffondersi di epidemie, anche se si tratta di patologie a basso tasso di morbosità e ancor meno di mortalità. Eppure, per evitare anche il più piccolo rischio di veder comparire ad un tratto macchioline rosse o papule a grappoli, il Ministero della Salute ha decretato l’obbligatorietà di 10 vaccini per raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”. Non importa, cioè, se il 95% della popolazione avrebbe effettivamente contratto una malattia come la pertosse o la parotite: quello che conta è che venga prevenuto questo possibile rischio.

Sono oltre 10mila le denunce di violenze in famiglia, più di 3mila le violenze sessuali, circa 9mila le denunce per stalking raccolte solo nei primi 10 mesi del 2017. 116 le donne uccise, migliaia quelle “quasi uccise” lo scorso anno. In tutte le regioni d’Italia. Si tratta evidentemente di numeri enormi rispetto ai precedenti e altamente significativi rispetto alla popolazione. Eppure per questo tipo di “epidemia” non è stato ancora istituito un osservatorio ufficiale ed univoco cui fare riferimento, non ci sono linee guida o specialisti incaricati di gestire l’emergenza e, per dirla tutta, non c’è neppure un dicastero che se ne occupi in maniera efficiente. Il femminicidio viene ignorato dal codice penale, sottolineato dal correttore automatico di Word e camuffato persino da alcuni giornalisti, che preferiscono varianti come l’”omicidio-suicidio”, l’uccisione “per non farla soffrire”, il sempreverde “raptus” accompagnato dalla “gelosia” paranoica o dall’insostenibile “dolore per l’incomprensibile separazione”. Come definire “crampi” gli spasmi del tetano o “brufoli” i rush cutanei del morbillo.

La violenza domestica è tabù anche nei tribunali. Le donne che chiedono la separazione in molti casi non vengono credute o nemmeno ascoltate: più di una racconta che, pur essendo stata costretta a descrivere fin nei minimi dolorosi particolari i maltrattamenti subiti, in nessuna delle relazioni presentate al magistrato è stata riportata (dai ctu, dagli psicologi o dagli assistenti sociali incaricati dal giudice) la parola “violenza”, piuttosto sostituita con “conflittualità”: un disagio reciproco insomma, invece che un comportamento agito da una parte e subito dall’altra - come l’ “ennesima lite” tanto cara alla stampa. Fifty-fifty. Come dire che la poliomielite te la sei andata a cercare. Le madri che denunciano violenze familiari spesso vengono sottoposte a perizie psicologiche. La loro genitorialità viene messa a rischio o per lo meno in discussione.

Quando una donna si reca al commissariato per denunciare il marito - specialmente se padre dei suoi figli - talvolta trova davanti a sé un altro uomo che la invita a desistere. Incoraggiandola a fare di meglio (“signora, torni a casa, faccia un bel piatto di spaghetti a suo marito e vedrà che tutto si risolve”) o mettendole ancora più paura (“signora, se lei ora denuncia suo marito io poi sono costretto a chiamarlo, e dopo non è peggio? Poi lui dirà che non è vero niente e la controdenuncerà per calunnia”). Si tratta di frasi raccolte da testimonianze reali. I bambini sono quelli che maggiormente pagano il prezzo di questo modus operandi omertoso: in Italia sono 1600 i bambini e gli adolescenti orfani di femminicidio e si stima che oltre 40mila bambini ogni anno assistano alle violenze che si consumano tra le mura di casa.

Per le madri non c’è modo di salvaguardarli: o continuano a cucinare spaghetti facendo finta che tutto vada bene, nonostante il ripetersi degli episodi violenti, o rischiano di vedersi sottrarre i minori, magari portati via dalla polizia come criminali mentre sono tranquillamente a scuola, perché il padre le “controdenuncerà”. L’importante è che i bambini siano vaccinati. Non avranno mai pustole e non contageranno nessuno con l’herpes zoster, ma le conseguenze e le complicanze della violenza domestica, e talvolta quelle dell’intervento dei servizi sociali, lasciano segni indelebili più di qualsiasi varicella. Ne sanno qualcosa i tanti genitori che hanno dovuto combattere per riavere i propri figli, ne sanno qualcosa le madri di quei bambini costretti comunque a vedere il genitore maltrattante, ne sanno qualcosa anche i parenti affidatari dei bambini che hanno assistito all’uccisione della propria madre ad opera del proprio padre.

Provate ad immaginare di recarvi dal pediatra portando vostra figlia coperta di bollicine e che il medico, invece di visitare la bambina, iniziasse a chiedervi con tono di biasimo come gliele avete fatte venire, magari facendovi domande intime sulla vostra vita fin prima della gravidanza. Che, invece di individuare la malattia come morbillo piuttosto che rosolia o scarlattina, si limitasse a dirvi di non preoccuparvi: qualunque cosa sia, passerà. Che, invece di agire subito, vi rispondesse “aspettiamo, vediamo che succede, magari non peggiora”. Che, invece di prescrivervi la terapia adeguata ad evitare complicanze, vi invitasse a trovare da soli una soluzione qualsiasi, magari “un bel piatto di spaghetti e passa tutto”. Come vi sentireste? E cosa fareste, rimarreste in silenzio? O pensereste di avere tutto il diritto di denunciare quel medico, di stare subendo un sopruso o quanto meno una omissione di soccorso?

La violenza domestica ha sintomi evidenti come il gonfiore degli orecchioni: basta solo voler guardare e saperli riconoscere. Per uno specialista adeguatamente formato non è più difficile che per un medico generico individuare una malattia esantematica, e capire subito il grado di rischio. Definire la violenza e prendere immediati provvedimenti è importante come riconoscere un virus, isolarlo e trattarlo prontamente. La letteratura a riguardo non manca, i dati sono in costante aggiornamento e chiunque può raccontare di avere conosciuto, direttamente o indirettamente, una situazione di violenza. Né più né meno come si potrebbe dire di avere avuto la varicella o avere conosciuto qualcuno che l’ha avuta. Le misure preventive o terapeutiche, esattamente come i vaccini e i farmaci antivirali, esistono e potrebbero essere determinanti per un consistente abbattimento del fenomeno. Basterebbe già solo applicare la Convenzione di Istanbul, appositamente redatta da diverse nazioni e già recepita dall’Italia, che vieta le mediazioni familiari, le negoziazioni e l’affido condiviso in caso di violenze domestiche. Perché, allora, nei tribunali italiani si disattende la legge invece che applicarla? Perché una donna che lamenta maltrattamenti da parte del marito viene costretta dal tribunale ad incontri e negoziazioni con l’abusante? Perché, invece di essere tutelata e protetta, viene esposta ad ulteriori violenze a cominciare dalla negazione della sua credibilità per il solo fatto di essere donna? Ritenere la parola di una donna che denuncia le violenze meno credibile di quella di un uomo che le nega, non è in sé una grave forma di discriminazione sessuale? Perché il “garantismo” su cui si fonda il nostro sistema giudiziario garantisce di fatto i diritti dell’uomo e del padre prima che quelli della donna e dei bambini? Quando una donna va dal medico con una forte eruzione cutanea non le viene detto “signora, è sicura di avere delle bolle?”.

Quando una mamma chiama il pediatra perché il figlio ha la febbre alta e spasmi muscolari le viene forse chiesto “signora, mi passi il padre del bambino così chiedo a lui se è proprio così”? Cosa ci sarebbe di tanto sbagliato nel voler essere “garantisti” verso una donna che si sente in pericolo e chiede di essere protetta? La possibilità che qualche uomo venga accusato ingiustamente? La probabilità è più o meno la stessa di una diagnosi sbagliata: può succedere, ma è predominante il principio dell’ubi maior.

I numeri non mentono: se il numero dei femminicidi è oltre 100 volte più alto delle morti per morbillo, e il rischio di subire violenza per una donna è innumerevoli volte più grande del rischio di contrarre una malattia esantematica, perché non agire in modo da raggiungere “l’immunità di gregge”? Basterebbe innanzitutto ascoltare ed accogliere le denunce per violenze esattamente come quelle per qualunque altro reato, senza fare domande o commenti, senza dare consigli non richiesti, senza arrogarsi il diritto di decidere se quella denuncia deve essere fatta o no, senza giudicare in base alle proprie personali credenze se la persona che denuncia sia o no attendibile. Basterebbe dare seguito a quelle denunce, e anche agli esposti se contenenti reati procedibili d’ufficio, basterebbe non archiviarle (ad oggi viene archiviata una denuncia su 4), arrogandosi il diritto di decidere se quella paura e quelle minacce sono reali o solo verosimili. Basterebbe seguire un iter giudiziale rispettoso nei modi e nei tempi, che anteponga fattivamente la sicurezza della donna e dei bambini, il fondamentale diritto alla vita rispetto a qualsiasi altro diritto. Basterebbe anche dare pene esemplari e certe, in modo che gli uomini abbiano davvero timore di commettere azioni violente e le percepiscano come gravi, affinché non si sentano impuniti e garantiti da uno Stato che sottovaluta o dolosamente ignora i reati contro le donne. Infine, per rispondere agli irriducibili sostenitori del mito delle “false denunce”: quante donne sono davvero “ipocondriache” e si divertono a chiamare il medico o a recarsi al pronto soccorso – con tutto quello che comporta - per malattie che non hanno? Certamente poche e sicuramente meno, molte, moltissime meno di quelle che stanno male davvero, che hanno dolori, papule a grappoli o si sono graffiate con un ferro arrugginito. Perché il loro diritto alla vita deve essere messo in pericolo? Ubi maior. Per ogni uomo che potrebbe essere bloccato “ingiustamente” (ipotesi facilmente evitabile se il personale preposto venisse adeguatamente formato), quanti criminali fermati in tempo e quante donne salve? Alla fine, non è importante sapere se tutti gli uomini denunciati avrebbero poi messo in pratica le proprie minacce: quello che conta, ricorda il Ministero della Salute, è prevenire il rischio.
http://27esimaora.corriere.it/18_marzo_26/se-morbillo-si-cura-col-vaccino-femminicidio-un-piatto-spaghetti-dbdee652-311e-11e8-b98c-6b7fd54f26e4.shtml

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