giovedì 25 ottobre 2018

Dalla parte delle bambine. Se la A al posto della O fa paura di Manuela Cattaneo Della Volta

Un convegno a Venezia riunisce esperte ed esperti di livello internazionale sul tema della comunicazione inclusiva e paritaria e della violenza verbale con particolare riguardo alla categoria del genere
Maestra, infermiera, operaia, cameriera. E poi dottoressa, professoressa, imprenditrice. Per andare verso architetta, ingegnera, ministra, sindaca. Allora comincia a diventare difficile: cacofonico per alcuni, espressione poco elegante per altri, proprio brutto per altri ancora.
E se leggete “camionista” o “presidente”? Cosa immaginate? Se invece leggete “la camionista” o “la presidente”? Avete visto tutt’altro? O pensate a un errore di battitura?
In Italia siamo fermi qui – in compagnia di tanti altri Paesi per la verità – sul dibattito del linguaggio di genere, come è stato rilevato da un convegno vastissimo sull’argomento tenutosi a Venezia il 18 e 19 ottobre 2018.
Titolo: LIGHTS, LInguaggio parità di Genere e parole d’odio/Language, Gender and HaTe Speech, organizzato da Giuliana Giusti per Ca’ Foscari, che ha visto la partecipazione di oltre una ventina di oratori e oratrici a livello internazionale nelle discipline più svariate, in particolare della ricerca linguistica e della legislazione.
Davvero complicato rendere in un solo articolo le varie voci che si sono alternate sull’argomento e che hanno fatto fiorire domande, chiarimenti, dubbi, ulteriori ricerche, approfondimenti, commenti, pensieri. Si parte dalla grammatica, una semplice a oppure una o, per distinguere un genere da un altro: minuscoli semi, che crescono in un discorso socio-culturale-professionale dove il genere femminile cerca inclusione per trovare – spesso, non sempre – divieti con l’utilizzo di termini sessisti se non addirittura l’esclusione e l’allontanamento attraverso la modalità dello “hate speech”.
In queste quattro righe appena scritte c’è un mondo intero, un problema culturale atavico, una ricerca scientifico-linguistica in costante rinnovo e uno spazio infinito di discussione.
Ecco dunque qualche “perla” per ragionare sull’argomento: un piccolo esame di coscienza su cosa ne pensiamo del genere in genere. O meglio, ci abbiamo mai davvero pensato?
Deborah Cameron, Oxford University, ha presentato uno studio sui dibattiti in politica. Quando vengono riportati dai media, questi usano verbi differenti per le donne rispetto agli uomini. Esempio, per le donne: cigolava, ha sbottato, abbaiato, fulminava…
Mentre il verbo utilizzato per gli uomini è: “dice”.
Mat Pires, Université Bourgogne Franche-Comté, ha spiegato che lo studio della lingua scritta per includere il genere femminile, in atto da diversi anni, è di difficile realizzazione non solo perché quasi impossibile da rendere oralmente, ma anche perché differenze che si esprimono in una lingua sono improponibili per un’altra. Esempio: travailleur•se (lavoratore•trice) oppure parisiennes e parisiens diventano parisians (parigine e parigini diventano…”parigian”? Impossibile da tradurre al momento).
Pires suggerisce un vocabolario nuovo per quanto riguarda tutti i termini che potrebbero essere neutri e non lo sono: come mela-frutto e melo-albero…perché non trovare un genere universale?
Lubna Akhlaq Khan, Università di Islamabad, ha dimostrato quanto i proverbi in punjabi – la lingua più parlata in India – detti anche pietre di verità perpetuano l’ineguaglianza di genere. Ecco due esempi: “la morte della moglie è come una botta all’anca, la morte del marito è un colpo in testa”. Oppure: “nutrire le figlie femmine è come bagnare la sabbia, nutrire i figli maschi è come innaffiare i campi”.
Per inciso, la professoressa indiana ha spiegato quanto i rapporti sociali e professionali si siano evoluti negli anni in favore della parità tra i generi, eppure parlando del marito che la sostiene nella carriera ha detto: “Mi ha permesso di venire e partecipare a questo convegno”. Forse è una svista, ma è più probabile che sia l’ennesimo segnale che le donne sono le prime a dover smantellare un sistema granitico che le mette sempre in una posizione di inferiorità.
Irene Biemmi, Università di Firenze, dalla messa in atto di Polite (acronimo di Pari Opportunità nei Libri di Testo) ha mostrato cosa è cambiato a oggi nel campo dell’istruzione primaria con la direttiva di avere libri attenti all’identità di genere: nulla.
Il silenzio linguistico riflette e al tempo stesso determina l’invisibilità delle donne. Le giovani lettrici sono perciò costrette a uno sforzo continuo per leggere in messaggi, solo apparentemente neutri, la loro inclusione o la loro esclusione. Per evitare questo sforzo sarebbe sufficiente seguire alcune accortezze basilari nell’uso della lingua, come per esempio evitare gli stereotipi, l’esclusione di uno dei generi, l’irrilevanza e l’insignificanza dell’appartenenza di genere, il carattere neutro dell’informazione. Dall’analisi emerge che i libri di testo in uso sui banchi delle scuole italiane continuano a trasmettere immagini di femminilità e di mascolinità rigide e anacronistiche, che certamente non sono funzionali al rinnovamento della cultura di genere nel nostro Paese, né tantomeno alla formazione delle bambine e dei bambini.
La ricerca ha dimostrato che se c’è stato un tentativo di parificare il messaggio nei primi anni, dal 2001 si è tornati alla pubblicazione di libri di testo in cui l’incidenza percentuale del genere femminile è modesta e si sta avviando a diventare irrisoria. Stiamo parlando delle case editrici tra le più grandi e di scolastica. Intanto, fortunatamente, sono fiorite in Italia numerose altre pubblicazioni attente alla parità di genere che però diventano scelte di famiglia e non passano, ancora, attraverso i canali scolastici.
E dalla scuola al cyberbullismo, messaggi di sessismo, misoginia, odio, il passo è breve. E si dirama in maniera esponenziale in ogni direzione. Le ricerche presentate si sono susseguite in questi due giorni di convegno sottolineando il bisogno di un aggiornamento continuo per riuscire a non perdere terreno rispetto allo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Tweet e post Facebook sono i più studiati, con risultati sconcertanti rispetto al tema della parità: si evidenzia che il sesso femminile è meno violento e molto più vittima di linguaggio d’odio, che le stesse donne quando fanno uso di hate speech  lo indirizzano nei confronti di altre donne, e che gli adulti non hanno freni, come invece sembrano avere i teenager.
La legislazione arranca per restare al passo con il veloce mutamento sociale culturale e non ci riesce: mette una pezza sulla libertà di espressione e una toppa sulle offese; minaccia una punizione per le ingiurie dando la scappatoia nel caso turbi l’attività della vittima, non la persona offesa.
Se da una parte il reato on-line è considerato permanente e non c’è dunque prescrizione, e se chi condivide il messaggio diventa autore autonomo e a sua volta commette reato, dall’altra parte il problema dell’anonimato, delle false identità e dei provider che non sono perseguibili rende tutto sempre, troppo difficile.
Il mondo del web è una giungla e ricordiamoci che la società non migliora con il diritto penale, che è l’accetta. Il codice penale non previene, ha una funzione sussidiaria, avverte Elisabetta Rosi dell’Alta Corte di Cassazione.
E Luciana Delfini – Federation Nationale de Femmes de Carrière Juridique – ha rimarcato nel suo intervento:
Il conflitto tra la libertà di espressione e l’uguglianza di genere è il maggior ostacolo per combattere l’hate speech di genere. Dunque: la libertà di espressione “pesa” più dell’uguaglianza di genere, e ogni tentativo di contrastare l’hate speech (di genere) è una censura.
Risparmio al lettore le ingiurie, le violenze verbali, gli aggettivi degradanti che sono stati mostrati sul grande schermo durante il convegno, un vero e proprio mondo di violenza dove non si capisce se la fantasia superi la malvagità o viceversa, e dove soprattutto ci si chiede qual è il limite, se un limite c’è…
Per riportare al discorso iniziale di semplice parità di genere, Marina Cosi, giornalista e tra le fondatrici di Giulia (GiornalisteUniteLibereAutonome), dice:
Se io sono definita col maschile l’interpretazione è che sono un caso, un accessorio. Io mi definisco con il mio nome.
E se sono donna ho diritto a essere definita col genere femminile. Sembra semplice e logico.
Ma dietro a “Moglie e buoi dei paesi tuoi” cosa c’è? Proviamo a leggere invece: “marito e buoi dei paesi tuoi”. Cambia? Eh, sì, per me cambia. Se invece ci diciamo che è abitudine, o saggezza popolare, dobbiamo forse chiederci se non usiamo queste frasi come scudo per non cambiare, per paura del cambiamento. E se è così, di cosa abbiamo paura?
Giuliana Giusti, commentando il convegno, ha rilevato:
Elena Cornaro si è laureata con il titolo di Magistra et Doctrix in Filosofia a Padova nel 1678. Le hanno dato un titolo accordandolo al suo genere semplicemente cambiando una vocale. Dobbiamo guardare così indietro per cose che oggi risultano impraticabili?
Da Elena Cornaro passarono altri due secoli prima che le donne potessero accedere all’università. Vogliamo continuare a fare come i gamberi, oppure prima di salutare una professionista darle la dignità di cui ha diritto?
https://ytali.com/2018/10/21/quando-la-al-posto-della-fa-paura-convegno-dalla-parte-delle-bambine/?fbclid=IwAR03Cj_HERFw-OxrotfJfu3ErOIG38l36eJd88uonF2JyClagEYFRjnZj20

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