Matteo Salvini non perde tempo a fare della violenza maschile contro le donne un caso di arretratezza culturale o di "bestialità"dei migranti.
Riprendo frammenti di quello che avevo scritto sul caso Hina nel 2006.
"Se è vero, come si apprende dalle inchieste su scala mondiale, che la prima causa di morte delle donne è l’omicidio per mano di padri, mariti, fratelli, figli, amanti, vuol dire che il “boia domestico” non abita di preferenza in questo o quel paese, ma è per così dire di casa in ogni tempo e luogo. Inoltre, si può pensare che non sia solo l’ “onore” ferito dei suoi convincimenti virili, etici e religiosi, ad armargli la mano, ma anche il suo contrario: il desiderio di liberarsene. Gli uomini dunque uccidono, uccidono preferibilmente o coattivamente le donne, e questo, come si sa, è solo il traguardo estremo di una serie variegata di altre violenze per la maggior parte domestiche. Uccidono, in alcuni Paesi e culture, per ottemperanza a una legislazione arcaica desunta dalla lettura più o meno ortodossa dei testi sacri della loro religione, in altri, invece, in dispregio di tutte le leggi e i diritti acquisiti dagli Stati a cui appartengono. Uccidono sotto le dittature e sotto i governi democratici, nell’Occidente emancipato da remoti vincoli tribali e in Paesi già decimati da povertà e guerre. Uccidono per odio o amore, per affermare il loro potere o per sfuggire all’impotenza, per dare un segno di fedeltà a un ideale comunitario condiviso o per dimostrare che possono farne a meno.
Delitti di questo genere in Italia sono pressoché quotidiani, e i protagonisti finora sono stati indifferentemente connazionali e immigrati, evidenti spesso anche le analogie sia per quanto riguarda il movente che la messa in atto.
La discriminazione, lo sfruttamento, le molteplici forme di violenza che subiscono ancora le donne, parlano una lingua universale, e se sembrano talvolta “altre”, straniere tra loro, è solo per una sfasatura di tempi, di “emancipazione” -quel “ritardo” o “avanzamento” per cui il “delitto d’onore”, oggi giustamente deprecato per l’omicidio di Brescia, ha smesso di costituire un’ attenuante nei tribunali italiani solo trent’anni fa. Intervenire repressivamente, prolungando di anni l’attesa della cittadinanza per gli immigrati, vincolandola a obblighi formali di rispetto per i nostri valori e diritti sulla base magari di un test, come ha fatto lo Stato tedesco di Baden Wùrttember, oltre a essere un provvedimento di buone intenzioni ma inefficace, risulta soprattutto fuorviante per un problema che riguarda prioritariamente l’educazione, la formazione dell’individuo, le relazioni sociali, il confronto delle esperienze, l’allenamento quotidiano alla reciprocità, la conoscenza di ciò che ci rende differenti e simili al tempo stesso a tutti gli altri.
Di fronte al disagio che sta lievitando in una delicata fase di mutazione dell’Occidente, sembra che l’unica strada praticabile sia quella di “tutelare”, “monitorare”: tenere tutto sotto controllo, accumulare dati, statistiche, rapporti che finiranno regolarmente negli archivi -dopo aver rassicurato i lettori dei giornali-, salvaguardare un’immagine di ordine alzando barriere, imponendo agli immigrati un “tirocinio” o “prova” di civiltà che, a questo punto, o coinvolge anche l’Occidente, la sua storia, i suoi contraddittori “valori”, o il futuro di tutti si fa davvero inquietante."
Questo articolo è apparso su Liberazione del 25 agosto 2006.
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