Non c’è peggior sordo di chi non vuole ascoltare: è in estrema sintesi il messaggio che diciotto centri anti-violenza lombardi sul totale di 29 accreditati lanciano alla Regione con un doppio, articolato «no» alla cosiddetta schedatura delle donne vittime di maltrattamenti e a una gestione scorretta dell’Albo regionale.
Tutte le associazioni di D.i.Re (Donne in rete contro la violenza, che oggi conta 80 adesioni in Italia), da Bergamo a Casalmaggiore, da Lodi a Mantova, da Lecco a Sondrio e a Pavia, concordano con la presa di posizione della Casa di Accoglienza delle donne maltrattate di Milano, dichiarando l’intenzione di battersi contro il progressivo impoverimento delle pratiche anti-violenza, «in antitesi con quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul e dall’Intesa Stato -Regioni del novembre 2014». E sottoscrivono una lettera aperta alla Giunta regionale, discussa ieri mattina in un incontro pubblico nella sede di via Piacenza 14. Spiega l’avvocata Manuela Ulivi, presidente di Cadmi: «Al tavolo regionale anti-violenza siamo state ascoltate molto poco, più che altro ci hanno buttato addosso le loro decisioni. I responsabili della Regione sono andati a Roma al Ministero, elencando i 29 centri lombardi e chiedendo i fondi, più di 3 milioni. Ma da dare a chi? Il 28 aprile, nonostante le nostre obiezioni, hanno deliberato che all’Albo regionale, oltre ai centri storici, possono iscriversi enti o associazioni in grado di dimostrare di avere operatori (al maschile!), che abbiano maturato un’esperienza almeno triennale (addio ai 5 anni richiesti da noi) nella gestione di centri anti-violenza o sedi decentrate». E prosegue: «Questo significherebbe accreditare non luoghi bensì persone, messe sullo stesso piano dei centri storici. E svalorizzare tutto quello che abbiamo fatto, smentendo peraltro l’intesa del 2014 che contemplava una metodologia di accoglienza basata sulla relazione fra donne».
La seconda contestazione riguarda la raccolta dei dati, che è sicuramente importante, anzi indispensabile, ma non dovrebbe prevedere la tracciabilità del percorso di sostegno, un «fascicolo donna», comprensivo del codice fiscale. «Su questo punto non cederemo mai – insiste Manuela Ulivi –, che fine farebbe infatti il fascicolo? Mettiamo che una donna in un momento di grave depressione ricorra all’alcool, agli psicofarmaci o commetta atti di autolesionismo, per noi si tratta solo di una condizione temporanea, ma se inserisco questi dati nel fascicolo, verrebbero poi utilizzati dai servizi sociali, dal medico curante, dai tribunali, con un serio pericolo per le donne. Da 30 anni le ascoltiamo, cercando di garantire loro riservatezza e anonimato. Questo sarebbe solo un modo per screditarle, soprattutto se ci sono figli che potrebbero venire affidati al coniuge maltrattante…». Dunque nessun pregiudizio contro la raccolta dei dati, attività che i centri hanno sempre svolto. Ma individuando codici alternativi all’identificazione tramite il codice fiscale, una soluzione per preservare la riservatezza delle donne al tempo stesso garantire le informazioni necessarie. Nel 2016 sono stati forniti alla Regione dai centri D.i.Re lombardi dati su 5.224 donne, là dove molti enti e ospedali non l’hanno ancora fatto.
Di diversa opinione Alessandra Kustermann, responsabile del Soccorso violenza sessuale della clinica milanese Mangiagalli, che è d’accordo sulla questione dell’anonimato ma non ritiene che venga violato inviando i dati in Regione: si tratta di una pratica, usata anche per i dati sanitari, che infatti non vengono divulgati. «C’è la tendenza a rendere il maltrattamento un problema sanitario - denuncia Mimma Carta del Ca.do.m, Centro aiuto donne maltrattate di Monza -, ma anche se la donna è diventata debole, fragile, non per questo deve essere trattata a livello psichiatrico». Una strategia che secondo Marisa Guarneri, presidente onoraria di Cadmi, è in atto da qualche anno: fare diventare i centri-antiviolenza simili alle Asl, un po’ come è accaduto per i consultori svuotati dai contenuti originari ma poi rimessi in piedi «con parole nostre ma altri obiettivi». «Per fortuna la Regione è più chiara: l’accoglienza diventa “presa in carico”, segretezza e anonimato sono spariti. E il piano nazionale anti-violenza? Forse non lo vedremo mai, visto che svanisce per l’ennesima volta a causa delle nuove elezioni. La strategia del governo non è di lotta alla violenza, ma di contenimento».
Significativi i dati che riassume Gabriella Sberviglieri dell’Associazione E.O.S. di Varese: la violenza costa allo Stato 17 miliardi all’anno, ma le risorse messe a disposizione a livello nazionale sono state 20 milioni per il biennio 2015/16 e una seconda tranche di 19 milioni per il 2017/18. Il trasferimento di risorse dallo Stato alle Regioni prevedeva un 10% ai centri anti-violenza, un altro 10% alle case rifugio, il 30% destinato alla creazione di nuovi centri e il rimanente 50% a progetti di sostegno regionali. «La Regione Lombardia utilizza i nostri fondi per politiche progettuali e poi li vincola - osserva Gabriella -. Inizialmente il sistema ORA (Osservatorio Regionale Anti-violenza) non aveva incontrato obiezioni ma adesso se non si ricorre a professionalità specifiche, dal legale allo psicologo, rischia di andare perduta tutta la fase dell’accoglienza e dell’ospitalità. Ancora più pericolosa è la creazione dell’Albo, con l’anti-violenza che potrebbe diventare un business per alcuni che vogliono solo ricevere finanziamenti».
http://27esimaora.corriere.it/17_giugno_06/schedare-identificare-donne-maltrattate-il-codice-fiscale-scontro-18-centri-antiviolenza-regione-lombardia-6c894648-4ad9-11e7-a140-d6776138ac8b.shtml
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