Da settimane riceviamo storie di donne maltrattate, isolate, insultate. Lasciate in una stanza d'ospedale a rimuginare sulle proprie scelte. A soffrire le pene dell'inferno, senza anestesia, perché sentano il dolore fino in fondo. Con la campagna #innomeditutte abbiamo raccolto centinaia di esperienze. Eccone alcune
Nessuno pensava che potessero essere così tante. Ostacolate e discriminate, le donne lasciate sole e senza assistenza ad affrontare un aborto sono centinaia. E si tratta solo di quelle che ci hanno contattato, ma chissà quante altre ne esistono che rimangono in silenzio, per vergogna o per paura.
Grazie alla campagna lanciata sul sito dell’Espresso #innomeditutte, nata dopo il racconto di un’interruzione volontaria di gravidanza trasformata in tortura, abbiamo accumulato esperienze provenienti da tutta Italia. Ne riportiamo alcune. Per tutte coloro che hanno scelto di interrompere una gravidanza perché una legge di Stato lo permette. Per le madri che scelgono di non volere un altro figlio. Per i mariti che vengono tagliati fuori da un percorso che si dovrebbe affrontare in due. Per chi viene trattato come se l’aborto non fosse un diritto.
Capita quando hai 18 anni e una dottoressa cerca di convincerti a non farlo: «I tuoi genitori non potrebbero prendersi cura di lui?». Capita quando senti lo sguardo degli infermieri posarsi sulle più insignificanti zone scoperte della tua pelle, sotto quel camice verde annodato malamente. «Prima vanno a divertirsi e poi...». Speri di aver capito male. Capita anche quando, fino ai minuti prima del raschiamento, continuano a suggerirti di “ripensarci”. Senza preoccuparsi delle tue motivazioni, perché non possono esistere ragioni valide per abortire. Non per il 69 per cento dei ginecologi e neanche per il 30 per cento degli anestesisti o il 42 per cento del personale non medico in Italia. Questi dati risalgono al 2018 e sono i più recenti che abbiamo a disposizione.
Alcune delle storie raccolte sono attuali, altre risalgono a decine di anni fa. Ad esempio T. da Perugia parla del suo aborto nel 1987: «Ma vedo che nulla è cambiato in chi dovrebbe mettere un po’ di umanità e solidarietà nel proprio lavoro, soprattutto tra donne». Ricorda una stanza gelida, insieme ad altre venti come lei. Ricorda un farmaco, forse un tranquillante, ma nessuna spiegazione a riguardo. Sul lettino, prima che si addormentasse, «sentivo medici e infermiere parlare della festa a cui avevano partecipato il giorno prima. Nessuno che mi abbia tranquillizzata, neanche un misero gesto di comprensione. Ma da quanto ho letto, il 2020 è ancora peggio».
«Siamo tornati indietro di anni», lamenta un medico psichiatra che negli anni ‘80, subito dopo la 194, prescriveva molti certificati per le Ivg. Una storia, quella di M., risale a quel periodo: è il 1989 quando l’ecografia alla 22esima settimana mostra un’ernia diaframmatica. «Trafila identica a quella raccontata nella storia pubblicata sul vostro giornale - e sono passati trent’anni. Primo step, istituto di Igiene mentale dove un assistente sociale suggerisce addirittura il ricovero di almeno un giorno». M. aspetta quasi una settimana prima di recarsi in ospedale: «Mi sentivo un pacco esplosivo che cercavano di passarsi di mano pur di non essere coinvolti». Una mattina la ricoverano in una camera con partorienti e neonati e lì inizia la terapia abortiva. I dolori sono lancinanti, ma le negano un calmante. Quando le contrazioni durano ormai da 23 ore, i medici si rifiutano di intervenire perché bisogna lasciare che tutto accada. «Tra le mie gambe sento il sangue e un piccolo esserino che lentamente si muove. Mio marito ha la prontezza di prendermi in braccio ed inizia a correre verso la sala parto». Di colpo medici, ostetriche e infermieri risorgono. Dopo aver preteso di essere sedata durante l’aborto, M. finalmente si addormenta. «Appena ho potuto ho preso la mia dignità e ho lasciato quell’ospedale che ormai per me era un incubo».
Come racconta anche D., «ci sono posti in cui ti fanno sentire colpevole. Non c’è giorno che non pensi a ciò che ho fatto, anche se sono passati 15 anni». Scrive da Roma, città in cui oggi i medici non obiettori sono solo cinque e cinque è anche il numero di ospedali in cui viene effettuato l’aborto terapeutico. I dati più recenti sulle Ivg effettuate nella capitale risalgono al 2018, il Comune li ha pubblicati a maggio: sono più di seimila, mentre in tutta Italia superano quota 76mila. Si tratta del 67,5 per cento in meno rispetto al 1982, quando si registrò il più alto numero di Ivg nel Paese.
La storia di L. inizia proprio nel 2018, a Roma. È alla 24esima settimana quando scopre una rara patologia. «Devi abortire immediatamente, perché tuo figlio sarà un vegetale», le dice il suo ginecologo, ma aggiunge che non può aiutarla. Dovrà rivolgersi altrove, «forse all’estero». Presa dal panico, scopre in autonomia che c’è un reparto per la 194 all’ospedale San Camillo. Lì abortisce, al sesto mese. Sentendo il pianto disperato di suo marito, rigorosamente fuori ad aspettare che tutto finisca. La storia di L. ha un risvolto ancora più drammatico: dall’autopsia risulta un errore nella diagnosi del ginecologo: il bambino poteva nascere sano. La diagnosi chiara e definitiva lei e suo marito la aspettano da due anni. Colpa anche del Covid-19, che ha rallentato ulteriormente le cose.
L’attesa sembra essere una costante in tutte queste storie. Uno dei tanti fili rossi che le collegano tra loro. Quella di C. è avvenuta in una sala parto, ancora una volta a Roma. La lasciano da sola con un pulsante da premere «quando è successo». Sì, ma cosa? «Lo scoprirai», le rispondono le infermiere. Poi “succede” e C. spinge il bottone. «Non sai che il giorno dopo ti sentirai stranamente felice, ma saranno solo gli ormoni che rispondono ad un finto parto. Io con l’arrivo del latte sono caduta nel baratro. Un anno di analisi e l’amore di mio marito non mi hanno fatto affondare, ma è stata solo fortuna».
Una di queste storie ci viene raccontata proprio da un marito. Da Piacenza. È il 2006 quando lui e la sua compagna optano per un aborto farmacologico: «Non ti dicono che ti ritrovi su una tazza del water a fare uscire un piccolo feto. E tiri l’acqua, poi. Io ero lì accanto per tutto il tempo a tenerle la mano. E quando sai che la legge 194 prevede l’assistenza psicologica capisci che i diritti e l’aiuto previsti sono rimasti sulla carta. Zero informazione, nessun supporto. Nessuna umanità si incontra in questi drammi di donne, di uomini e di relazione».
Da Firenze invece arrivano le scuse di un’ostetrica «per non aver fatto abbastanza come professionista. Starò sempre a fianco delle donne e continuerò a lottare perché tutte abbiano un trattamento dignitoso e rispettoso». Ma una non sembra abbastanza per ricucire i danni di tutti i medici obiettori.
Un’altra ostetrica ci racconta dei turni estenuanti e dei weekend che non esistono più: solo lei e altri quattro nella sua struttura sono non-obiettori. «Abbiamo una cardiologa che non referta gli ECG e anestesisti che si appigliano al fatto che l’epidurale non sia garantita». Ma molte cose funzionano: la somministrazione della RU486 e la spiegazione dettagliata di ciò che potrebbe avvenire dopo, a casa. Come il parto sul water, che con le adeguate istruzioni si potrebbe evitare. Se solo a Piacenza le avessero date.
«Capita che le donne ringrazino prima di essere dimesse» spiega l’ostetrica. Si sentono fortunate ad aver trovato un posto dove sono seguite passo passo. Si tratta di un loro diritto, ma glielo fanno dimenticare. «Gli obiettori sono un’anomalia che dovrebbe sparire», aggiunge. Un’anomalia troppo diffusa
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