venerdì 4 aprile 2014

Smontare gli stereotipi Federica Tourn



Uno spettro si aggira per il nostro sventurato paese. Non è il comunismo e nemmeno la crisi o la disoccupazione ma la genderizzazione: terribile congiura "lgbt" per distruggere la solidità della famiglia naturale, cioè quella rettamente composta da papà (uomo) mamma (donna) e figli (a seconda).
Sembra uno scherzo di cattivo gusto ma è molto peggio: è la disarmante crociata (di cui parliamo anche noi a p. 10) portata avanti dalla Cei in risposta ad alcuni opuscoli informativi sull’omofobia destinati alle scuole superiori, che non ha mancato di influenzare l’atteggiamento di Comuni e Regioni e ha convinto il ministero all’Istruzione a rinviare a data da destinarsi i corsi anti-omofobia per insegnanti.
Una pesante ingerenza clericale nella scuola pubblica, che dovrebbe essere laica e pluralista, un’intromissione che non è certo nuova e che si è sempre fatta sentire in occasione dei singoli tentativi di fornire qualche elemento di educazione sessuale, tutti bollati come sovversivi, pericolosi e destabilizzanti: non è forse la famiglia l’unica responsabile dell’educazione – e in particolare di «quella» parte dell’educazione, così intima e personale? Per lo stesso motivo sabato scorso a Torino le «Sentinelle in piedi», movimento nato a imitazione dei Veilleurs Debout francesi, hanno manifestato contro il disegno di legge sull’omofobia, colpevole, secondo loro, di minare la famiglia tradizionale.
Il cardinal Bagnasco, nel riprendere per l’ennesima volta le fila di questa battaglia per la purezza dei costumi, ha dimenticato però che i bambini e le bambine sono già sottoposti a dei modelli e pensare che vivano in un mondo asettico dove amorevoli genitori forniscono loro gli unici riferimenti è perlomeno ingenuo.
Anche nella migliore delle ipotesi sono comunque assillati da pubblicità in cui il corpo della donna è usato per vendere, dalla televisione assorbono senza schermi una rappresentazione dei ruoli che svilisce le donne relegandole al ruolo di semplice ornamento – meglio se poco vestito – accanto a uomini che gestiscono la situazione. E non è tutto: se accedono a Internet troveranno loro coetanee di otto, dieci anni che insegnano come farsi un make up tutorial, mentre su altri canali i maschi possono abbeverarsi a ideologie machiste e guerrafondaie.
Non è una rappresentazione semplicistica, è l’inizio di un tunnel: avete provato a entrare in un negozio di giocattoli? Ci sono le corsie per maschi e per femmine, già divisi nei desideri (indotti dal mercato) sin dalla primissima infanzia – e in quelle destinate alle bambine ci sono sempre di più soltanto trucchi, strass, gioiellini, il kit completo per la perfetta (e passiva) principessa. Avete aperto i libri della scuola primaria? I padri sono rappresentati ancora come negli anni ‘50, seduti sul divano a fumare la pipa mentre la mamma prepara la cena; e la piccola di casa aiuta mentre il fratello si sfrena in giochi creativi e divertenti.
Tutto questo non è innocente e non è nemmeno evidente. Non lo è agli occhi dei piccoli, che prendono quello che gli viene offerto, ma non lo è nemmeno per gli adulti: lo dimostra, fra l’altro, l’importante corso per genitori e insegnanti proposto dall’associazione ZeroViolenzaDonne e finanziato con l’Otto per mille della chiesa valdese, «Gli adulti imparano, gli adulti insegnano la relazione fra uomini e donne», cinque incontri in quattro istituti comprensivi di altrettante periferie romane, in cui educatori e psicanalisti cercano di aiutare genitori e insegnanti a rispondere alle domande dei bambini sull’identità sessuale.
Fra le formatrici c’è anche Loredana Lipperini, scrittrice attenta alle dinamiche della comunicazione e autrice tra gli altri di Ancora dalla parte delle bambine, seguito del noto saggio di Elena Gianini Belotti uscito nel ‘73. «Il primo obiettivo – dice – è smontare gli stereotipi, perché alle bambine vengono offerti soltanto due modelli, la casalinga perfetta e la donna poco seria».
E ai maschi non va meglio, costretti a stare nei limitanti confini della virilità intesa come forza e repressione delle emozioni. Di fronte alle immagini di bambine che ancheggiano e guardano seduttive in camera o a cartoni animati come le Winxs, in cui le protagoniste spingono a «valorizzare la bellezza», considerato l’unico talento spendibile per una ragazza, molte insegnanti hanno reagito con stupore, ammettendo di non essersi mai accorte di offrire modelli di mascolinità o femminilità preconfezionati.
Come reagire? Contestualizzando quello che i ragazzini vedono e moltiplicando i modelli di riferimento a loro disposizione. E informandoli perché, anche se sembra un paradosso, in una società ipersessualizzata come la nostra i ragazzi non sanno niente di educazione sessuale e sono gettati in un mondo che li vuole precocemente attivi senza altro bagaglio che l’incertezza, il desiderio di sperimentare e la possibilità di farlo sapere a tutti in tempo reale grazie ai social network.
La famiglia – dicono gli insegnanti – ha delegato completamente alla scuola (che ne dice, cardinal Bagnasco?), che però non è attrezzata a dare delle risposte. L’Italia è infatti l’unico paese in Europa a non avere una legge sull’educazione sessuale e anche gli sporadici tentativi fatti in questi anni hanno sempre incontrato, come abbiamo visto, una pronta stroncatura da parte cattolica.
Ora giace in Parlamento, in seguito alla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne, una proposta di legge sull’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, voluta da Celeste Costantino (Sel), che promuove percorsi di formazione per riflettere sull’emotività e gli stereotipi di genere, con l’obiettivo di costruire una nuova idea di cittadinanza e rivoluzionare il concetto di convivenza fra le persone.
Questione tutt’altro che formale perché è proprio da relazioni malate che si generano violenza omofoba e femminicidi, non di rado proprio all’interno delle «famiglie tradizionali». Allora forse è necessario ribadire che non abbiamo bisogno di provvedimenti repressivi o contenitivi ma di leggi e strumenti educativi che non strumentalizzino l’infanzia e permettano a tutti di crescere senza paure e cliché, per poi essere liberi, una volta adulti, di fare scelte consapevoli e rispettose degli altri.

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