“Ho avuto spesso paura. Le scelte obbligate sono serie. Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in una avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto, non molto, nulla di impossibile; il più era ripetere gesti e strade ignorando se qualcuno mi osservava, sapendo di contar poco e però sussultando davanti ai proclami di Kesselring, freschi sul muro, che mi informavano come per meno del niente che facevo sarei stata impiccata. Essere impiccata mi faceva orrore, li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate. Non li posso guardare, non ho retto neanche i corpi appesi per i piedi a piazzale Loreto. Non era la morte, alla quale ci si abitua a testa bassa come a qualcosa che c’è sempre stato. E’ che la morte si può guardare finché porta ancora una traccia di chi era vissuto (…)”
“Prendere e portare stampa clandestina, messaggi, armi, medicine, fasce, e cercar soldi -con l’aria di fare un favore a chi te ne dava- non era difficile. Gli appuntamenti erano precisi, nessuno mancava, e se mancava si sapeva che cosa fare, chi avvertire e come. Non ci facevamo domande, ci proteggevamo l’un l’altro. E si tastavano in giro gli umori, le caute disponibilità, di chi magari non aveva saputo a chi rivolgersi, dove dare la testa. Al ritorno da Milano a Como mi aspettava alla stazione Pino Binda, un bel ragazzo biondo: dovevamo parere due innamorati che sottobraccio facessero due passi, qualche volta concedendosi un polveroso tè in piazza; gli passavo e ne ricevevo materiali e notizie. In bicicletta arrivavo a Ponte Chiasso o Argegno sotto la Val di Lanzo o fino a Varese; erano in bicicletta tutti, carichi di valigie o pacchi, la guerra è tutto un trasportare.”
“Era una liberazione, la liberazione. La fine di un’angoscia, la fine di un’epoca, si sarebbe ricominciato tutto, per qualche giorno fui trasportata anche io, anche Mimma –quel tanto che potevo nel silenzio di mio padre, anche lui sollevato, ma c’era tra noi quel gelo. In piazzale Loreto guardai i corpi sospesi per i piedi. Erano come sfatti, qualcuno aveva per pietà legato la gonna della Petacci sopra le ginocchia, i volti erano gonfi e anonimi, come se non fossero vissuti mai, cadaveri non ricomposti.”
“Oggi qualcuno si indigna che più d’una vendetta fosse tratta a guerra finita, in quei giorni e dopo. Come se una guerra che era stata anche fra la stessa gente si chiudesse a una certa ora. Non si chiude niente finché il tempo non passa e oblitera, lasciando lungo la strada chi non sa dimenticare. E noi non tornavamo integri a casa come gli inglesi o i russi o gli americani. Noi avevamo un lungo strascico che sprofondava negli anni di complicità o inerzia.”
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