venerdì 10 giugno 2016

Uomini violenti, non sanno chiedere aiuto ma l’aggressività si può curare di Sara Gandolfi e Marta Serafini


Drappi rossi

Ai balconi, alle finestre, alle cancellate, sugli alberi e sulle terrazze. Drappi rossi contro il femminicidio, e non importa se sono vestiti, sciarpe, pezzi di tessuto, o lenzuola. Ne sono appesi ovunque . Sono in memoria di Sara, la ragazza strangolata e poi bruciata a Roma settimana scorsa. Ma anche per ricordare tutte le Sara che sono state uccise
«Sono un mostro», ha detto Vincenzo dopo la confessione. Ed è la frase peggiore che potesse pronunciare, per chi segue gli autori di maltrattamento. «È un meccanismo di difesa per non entrare in contatto con la “parte oscura” di sé. Come fa chi, da fuori, lo chiama mostro e vuole soltanto buttare via la chiave, allontanare il problema invece di affrontare tutte le sue complessità», spiega la criminologa Francesca Garbarino. Da dieci anni lavora nel progetto di trattamento per sex offender al carcere di Bollate e dal 2009 al Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano. E di una cosa è certa: «È difficile che l’uomo chieda aiuto da solo».
Ricardo è un pasticcere di origini latino-americane. Ha trascorso un’infanzia traumatizzante in patria, il padre alcolista lo maltrattava pesantemente, la madre era lontana. Ha difficoltà a gestire la collera e l’impulsività. Quando la compagna minaccia di togliergli i figli, tira fuori il coltello e poi tenta di strangolarla. «Stringevo, stringevo. Quando ho visto che cambiava colore ho capito che dovevo fermarmi». Lei non lo ha denunciato stanno ancora insieme. Ricardo va regolarmente al Presidio (servizio gratuito, numero verde 800667733) dove una volta a settimana una decina di uomini come lui, autori di maltrattamenti, si incontra. Parlano, seduti in cerchio, ascoltandosi l’uno con l’altro. E così si aiutano.
Peccato che in Italia i centri per gli autori di maltrattamenti siano appena 15. Nessuno al di sotto del Lazio. A Torino è in corso un progetto sperimentale, «Opportunity», per ora unico in Italia. Con il sostegno della Tavola Valdese, il Gruppo Abele organizza un percorso residenziale per uomini «che intendono interrogarsi sulla propria aggressività». Si sono alternati finora in cinque nell’alloggio da tre posti letto, seguiti almeno per sei mesi da un’équipe tutta maschile. Francesco era in dormitorio perché su consiglio dell’avvocato aveva dovuto lasciare la casa. «La priorità resta la tutela delle vittime», chiarisce Ornella Obert, referente del gruppo area vulnerabilità del Gruppo Abele. Il progetto però ribalta l’abitudine che vuole la messa in sicurezza della donna, e non l’allontanamento dell’uomo.
Anche Marina Valcarenghi, psicoanalista, da anni lavora sul fronte della prevenzione e del recupero. «In alcune carceri si lavora già da tempo su questi problemi e le amministrazioni e i magistrati autorizzano in alcuni casi i detenuti a recarsi negli studi professionali», spiega. In Italia non esistono dati sulle «ricadute». Da Oltreoceano però arriva la conferma: i programmi di recupero funzionano. Secondo una ricerca condotta nel 2008 dall’Università di Toronto, la recidiva tra i sex offender che avevano ricevuto un trattamento è pari al 14.5 per cento dei casi. E la ricaduta diminuisce con il passare degli anni (i test sono stati condotti a 3,5 e 10 anni). Nel caso dei detenuti che non si erano sottoposti al trattamento la percentuale saliva al 33 per cento.
Al di là della teoria, per prevenire la violenza sono molti i campanelli di allarme da non sottovalutare: «Il comportamento manesco, la mancanza di controllo pulsionale, gli scatti di rabbia improvvisi e imprevedibili, la gelosia ossessiva e opprimente, un forte sentimento di supremazia maschile, la detenzione di armi per la difesa personale, la legittimazione ideologica della violenza fisica sono solo esempi», continua Valcarenghi.
I più difficili da trattare sono gli stalker, che non sopportano il lutto del rifiuto e si illudono di mantenere il contatto con la ex perseguitando la vittima. Un’escalation. Ma se la si intercetta per tempo si può bloccare. Come racconta la storia di Dino. Si apposta fuori dalla palestra della sua ex, si iscrive allo stesso corso di ballo, colonizza ogni momento della sua giornata. Alla fine lei lo denuncia.
In Francia la «presa in carico» dell’autore di maltrattamenti è obbligatoria, o meglio è spesso la solida alternativa al carcere. In Italia l’intervento non è così programmatico, ma l’articolo 282 quater della legge 199 del 2015 prevede la concessione degli arresti domiciliari con l’obbligo di trattamento. Dino va in terapia per due anni. Entra in un’altra relazione, viene lasciato e inizia a perseguitare anche la nuova ex. Ma questa volta riconosce i segnali. E torna al Presidio del Comune di Milano.
Ma ci sono anche quelli per cui bisogna davvero buttare via la chiave? «Ci sono gli psicopatici puri che godono nel far male all’altro. Ci hanno chiesto di prendere in carico uno stalker sadico e recidivo, uno che rovina il gruppo, intrattabile. Abbiamo detto no e ne abbiamo segnalato la pericolosità», ammette la Garbarino. Vincenzo si poteva fermare? «Difficile dirlo, del passato di questo ragazzo non si sa nulla. Ma non bisogna mai smettere di provare a cercare strade nuove», conclude Ornella Obert.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/uomini-violenti-non-sanno-chiedere-aiuto-ma-laggressivita-si-puo-curare/

Nessun commento: