«Non urlare mentre si subisce una violenza sessuale, non significa acconsentire. È una reazione al trauma spiegabile scientificamente con la Teoria Polivagale». A spiegarlo, dando così una interpretazione che ribalta quella che ha portato alla discussa sentenza di assoluzione dell’accusato di violenza sessuale a Torino, è Ilaria Vannucci, psichiatra e psicoterapeuta specializzata in trauma psichico, membro del Gruppo di Ricerca Internazionale sui Disturbi di Personalità coordinato dal St. Olavs Hospital di Oslo e docente in Disturbi d'Ansia e Dissociativi alla Scuola di Psicoterapia Cognitiva ATC di Cagliari. «Purtroppo questo concetto, così chiaro per chi si occupa di delle dinamiche legate al trauma psichico, ancora non passa nei circuiti giudiziari. E ciò, a danno delle vittime che non reagiscono perché traumatizzate, non certo perché consenzienti come viene mal interpretato». La sentenza assolutoria in questione è stata motivata dal collegio giudicante perché la donna che si è dichiarata vittima non ha urlato, né chiesto aiuto, ma solo espresso il suo rifiuto con ripetuti “basta”.
La donna, che ora dovrà rispondere delle accuse di calunnia per disposizione della prima sezione penale presieduta dalla giudice Diamante Minucci, secondo la psichiatra avrebbe invece avuto una reazione facilmente spiegabile con una teoria elaborata dal neuroscienziato e psicofisiologo, Stephen Porges. La tesi del direttore del Brain–Body Center dell’Università dell’Illinois sarebbe la risposta scientifica capace di smontare la motivazione della sentenza. Proprio l’assenza di «quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona» che è diventata fulcro della motivazione della sentenza, secondo la psichiatra descriverebbe «una delle possibili risposte fisiologiche di sopravvivenza durante il trauma».
In cosa consiste questa teoria?
«Alcune delle reazioni delle vittime di violenza non vanno sotto il controllo della parte corticale del cervello, ma sono mediate dalle strutture sottocorticali che forniscono la possibilità istintiva di reazione, ma non integrano dal punto di vista cognitivo quello che sta capitando. Se tu sei impegnato a sopravvivere e devi fronteggiare un pericolo nell’immediato, devi essere molto veloce per cui anche la sovrastruttura corticale, per quanto rapidissima, è sempre a rilento, quindi l’unico strumento per sopravvivere è quello di lavorare col sistema nervoso autonomo e con le strutture sottocorticali. Avviene un allentamento delle connessioni tra la corteccia frontale mediale e le strutture limbiche».
In termini pratici, cosa significa?
«Vuol dire che quando si sta affrontando un pericolo, come la violenza, lo si affronta senza la corteccia, cioè si agisce solo con sistemi automatici, quelli che si è costruiti da bambini e che sono comuni per la sopravvivenza a tutte le specie animali. La donna che si blocca come quella della sentenza non lo fa volontariamente, ma perché il suo sistema nervoso autonomo ha deciso che per lei quello era il sistema migliore per sopravvivere».
Il fatto che la donna in questione fosse stata vittima di violenze da parte del padre da quando aveva 5 anni può aver inciso?
«Certo. Fino a 8 anni si ha la massima incidenza del meccanismo di difesa dal trauma che è la dissociazione dalla realtà. Al ripresentarsi di determinati traumi quel meccanismo si riattiva creando una frattura della continuità col mondo reale. Praticamente il sistema nervoso autonomo funziona con tre sistemi gerarchici e il più antico è quello che dà la reazione dell’animale che si finge morto col predatore che incombe. Questa reazione è legata a un’immobilità ipotonica, cioè la persona può persino cadere a terra incapace di reagire e, in queste condizioni, se si ha un estremo rallentamento del battito cardiaco si può anche morire di sincope. Ad esempio il caso di cronaca del professionista morto improvvisamente a un posto di blocco. La sua morte era stata causata da un meccanismo di questo tipo e questo ci fa capire la potenza del sistema nervoso autonomo e delle strutture sottocorticali implicate nel trauma. Se si può arrivare a morire per la paralisi fisica che consegue al trauma, si può capire bene anche il non riuscire a parlare e a reagire per respingere un aggressore».
Perché non si tiene conto di questi meccanismi nei processi?
«Semplicemente perché non si conoscono. In Italia ci sono pochissimi specialisti che si occupano di questo tipo di dissociazione in maniera concreta perché ci vuole una preparazione fortemente specialistica. Si dovrebbe iniziare a creare una cultura sulla dissociazione. Nel caso specifico della donna della sentenza di Torino, lei potrebbe non essere riuscita a reagire perché il terrore e il tentativo di sopravvivenza l'hanno privata del supporto della corteccia e ha lavorato solo con le strutture sottocorticali. Il fatto di non essere collegata a livello delle funzioni superiori a volte non permette di esprimersi neanche con le parole, a volte non si riesce neanche a gridare e si può avere un’impotenza muscolare, la sensazione di diventare flaccidi. Questo si associa spesso a livello emotivo anche a sentimenti di senso di vergogna e di colpa perché la persona non si spiega come mai non ha reagito. Bisogna conoscere a fondo questi meccanismi sottostanti, ma una volta compresi è facilmente decodificabile il comportamento».
Un comportamento che, se non interpretato con le giuste conoscenze, può portare ad una assoluzione dell’accusato solo perché la presunta vittima «non riferisce di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale». A volte «il fatto non sussiste» potrebbe essere solo un fatto che non è stato analizzato con gli strumenti di conoscenza adeguati.
http://27esimaora.corriere.it/17_marzo_25/zitta-te-ordina-cervello-fisiologia-paura-silenzi-chi-subisce-stupro-473f5b2e-1187-11e7-8518-37eb22c51aa5.shtml
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