La radicalità e l’imprevedibilità di Non una di meno, la sciopero globale dell’8 marzo, la lotta di #MeToo solo i volti più visibili del movimento delle donne. Ma la rivoluzione più lunga e più profonda, quella delle donne, non smette di sovvertire ogni giorno in molti modi diversi un ordine che permette di protrarre da secoli il dominio di un sesso sull’altro. E si insinua nei pertugi più sottili, anche all’interno della Chiesa Cattolica: dobbiamo abbattere i muri del patriarcato nella Chiesa, dicono le donne di Voices of Faith, dobbiamo ribaltare abitudini e immaginari, perché non esiste ad esempio un ruolo nella Chiesa, per la missionaria che non è suora, non è consacrata laica, e non è neanche mamma o moglie? Già, la rivoluzione più lunga e più profonda…
Una Chiesa patriarcale nemica delle donne (misogina), che non ha mai favorito la parità di genere al suo interno. Anzi, ha perseverato colpevolmente nel non promuoverla, nonostante le aperture del Concilio. Ecco cos’è stata la Chiesa cattolica finora. A denunciarlo, con una potenza cristallina, sono oggi le donne dentro la Chiesa. Non fuori di essa.
Chiamano le cose col proprio nome, mettono il dito nella piaga del perché avvengono. Fanno outing. E nei giorni ne abbiamo avuta l’ulteriore conferma. Durante la conferenza di Voices of faith a Roma, dal titolo Why Women Matter, le relatrici capitanate dalla grintosa Mary McAleese – che nel 1997 diventava ottavo presidente dell’Irlanda del Nord – hanno dato la stura ad una denuncia che sa di rivoluzione.
La sede era quella della Curia generalizia dei gesuiti a Borgo Santo spirito. La presenza di clero locale, per la verità, piuttosto scarsa. Ma pazienza. Quelle voci hanno superato comunque la barriera del suono. Tant’è che la stampa (estera) ne parla copiosamente.
«La Chiesa cattolica da sempre è stata la principale portatrice del virus tossico della misoginia – scandiva McAleese, suscitando sospiri in sala – e non ha mai davvero ricercato l’unica cura possibile, sebbene essa sia tranquillamente disponibile: la parità». Cos’altro aggiungere a questo? In quell’emiciclo la narrazione non arrabbiata ma unanime, su una Chiesa che ha capovolto il messaggio evangelico escludendo da sé una metà del mondo, risuonava come verità alle orecchie delle altre donne, e arrivava come un cazzotto nello stomaco di tutti gli altri.
Le altre relatrici hanno raccontato esperienze di vita in una Chiesa istituzionale che anche all’estero fa una fatica improba ad accettare il dato di fatto dell’uguaglianza. Alla fine cosa vogliono queste donne? Che il loro Vangelo valga quanto la ‘lettura’ maschile.
Si sono alternate Zuzanna Radzik, teologa polacca, Joana Gomez, direttrice di progetto Jesuit Refugee service in Ciad e due giovani donne indiane, cattoliche, ma non battezzate alla nascita, Nivedita e Gayatri – testimoni di una fede per scelta, avendo vissuto anche la spiritualità induista in famiglia. Per tutte loro la conclusione è la stessa: «vogliamo rimanere cattoliche, cambiando però il nostro status».
Non è solo questione di visibilità, ormai. Che le donne visibili lo sono già. Se non altro perché esistono. È questione di voce. Bisogna che le si ascolti. E si riconoscano loro gli stessi diritti e doveri riconosciuti agli uomini, preti o non preti. Esiste ad esempio un ruolo nella Chiesa, per la missionaria che non è suora, non è consacrata laica, e non è neanche mamma o moglie? Fatica ad attecchire l’accettazione di questa scelta che pare essere di serie B, come molte altre scelte. Lo raccontava la portoghese Joana Gomez, che ha trent’anni o poco più e lavora col Jesuit Refugee service in Ciad. «La chiesa e la società non sono ancora preparate per una missionarietà della donna laica», dice. I laici sono sempre visti come missionari di second’ordine. Figurarsi poi le donne! «Siamo formattati a un’idea di felicità precostituita: studiare, lavorare, sposarci e fare figli. Ma c’è felicità anche nel donarsi al mondo anziché al focolare», dice lei.
Ma come si fa a passare dalla parola ai fatti? Facendo arrivare il messaggio anche al papa ad esempio. Nel dibattito finale la McAleese ha tirato fuori qualche richiesta: «Perché no il diaconato alle donne? Al papa chiederei la parità nella vita pubblica della Chiesa». Sembrano richieste fuori dal mondo, ma cosa sono in fondo? Richieste di parità. Di uguaglianza. Di pari dignità. Che credevamo ottenute per sempre dall’altra parte del mondo, quello aconfessionale.
Così non è nella Chiesa e forse finché così non sarà, sono proprio le donne non credenti a doversi schierare, combattendo a fianco delle credenti nella Chiesa. Qui dentro si può ottenere uguaglianza solo passando per la cruna di quell’ago: il patriarcato. «Dobbiamo abbattere i muri del patriarcato nella Chiesa – incoraggi la McAleese – Perché il vertice gravitazionale della misoginia ha depotenziato la trasmissione del messaggio evangelico». E non c’è nessun papa o nessun cardinale che possa “concedere” dall’alto questi diritti, perché – è quanto hanno ribadito tutte le donne in conferenza, da Nicole Sotelo, giornalista statunitense, a Ssenfula Joanita Warry, attivista ugandese, omosessuale cattolica – questa uguaglianza è data dall’essere fatti della stessa “sostanza” di Dio, uomini e donne senza distinzioni. «I diritti della donna dentro la Chiesa derivano dalla giustizia divina e non da una benevolenza o da una magnanimità papale», dice la McAleese. Averlo dimenticato «ha consegnato la Chiesa ad una chiusa elite maschile», trascinandola nel baratro della non credibilità.
Le ha fatto eco la “guerriera” Ssenfula Joanita, dalla parte degli omosessuali perseguitati in Uganda: «Perché devo rimanere nascosta quando il Vangelo mi chiama a risplendere?». Adesso il punto è: quanto a lungo il Vaticano pensa di poter ignorare queste voci dirompenti? Quanto a lungo pensa che si possa tenere nascosto al mondo che il Re è nudo e che la giustizia fa comunque il suo corso?
https://comune-info.net/2018/03/la-ribellione-delle-donne-nella-chiesa/
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