Il 2019 ha celebrato i cento anni dalla fondazione della scuola Bauhaus. Nata e forzatamente conclusa nell’ambito politico e sociale del breve periodo della repubblica di Weimar, il suo portato ha presto travalicato i confini tedeschi e quelli europei per lasciare un’impronta rilevante negli insegnamenti progettuali di molte scuole di architettura. Ha declinato arte, design e architettura attraverso un’esperienza didattica innovativa in grado di far dialogare artigianato e industria, esperienze artistiche e produzione industriale, innovazione tecnologica e elaborazione teorica.
La sua risonanza fu immediata. Gli obiettivi della grande apertura furono coinvolgenti e il tipo di formazione del tutto innovativo. Lo slogan “apprendere facendo” ne rappresenta bene la specificità: unire attività pratiche, artistiche e teoriche, con una visione ampia, integrata e interdisciplinare. La formazione prevedeva l’affiancamento di un artista e di un maestro artigiano e si articolava con un insegnamento di base propedeutico della durata di un semestre e quindi l’indirizzo verso laboratori quali la ceramica, l’arredamento, l’uso del metallo, la decorazione murale, la scultura, la grafica, la tessitura, l’architettura.
Si diventava così dapprima apprendisti di primo livello, dopo tre anni apprendista di secondo livello e dopo sei anni si diventaClaudia Mattognova giovane maestro.
In quattordici anni la scuola Bauhaus è costretta a spostarsi in tre sedi, Weimar, Dessau e Berlino, conosce tre diversi direttori, Walter Gropius, Hannes Mayer e Ludwig Mies van der Rohe, accoglie più di mille studenti. Tra questi 462 sono donne: una presenza dirompente in anni in cui l’accesso delle donne all’istruzione superiore era ancora limitato, se non addirittura negato in più di un paese europeo.
Tutti hanno ben impresso i nomi di grandi maestri come Gropius o Mies van der Rohe o apprezzano l’operato di artisti quali Albers, Kandisky o Klee. Qualcuno comincia a ricordare anche il nome di alcune insegnanti: Marianne Brandt nel laboratorio di metallurgia, Lilly Reich in quello di architettura e arredo, Anni Albers e Gunta Stölzl in quello di tessitura. Altre sono meno conosciute pur avendo ricoperto ruoli importanti: Gertrude Grunow nell’insegnamento della musica, Karla Grosch in quello della ginnastica e della coreografa, Otti Berger assistente al laboratorio di tessitura. Ben pochi conoscono però nomi quali Lotte Beese, forse la prima ad iscriversi nel 1927 al laboratorio di architettura appena aperto, la maggior parte pensa a Lucia Moholy solo come moglie di Laslo e non come fotografa.
Come mai questo cono d’ombra su una presenza che, invece, è stata molto rilevante?
All’apertura del Bauhaus, che per statuto ammetteva studenti di entrambi i sessi, le iscritte sono ben 84 mentre la presenza maschile raggiunge solo i 79 iscritti. Possiamo immaginare la sorpresa del corpo docente e le difficoltà nel superare i pregiudizi che ancora permeavano gran parte della società, anche quella che si voleva culturalmente più aperta, al punto che lo stesso direttore, davanti a questa massiccia affluenza femminile, si prodiga per attuare forme di selezione molto rigide.
Le studentesse erano numerose. Anche se la loro presenza negli anni è andata diminuendo, sia per i criteri di severa selezione, sia per quella sorta di “confinamento” attuata nei loro confronti, quando sono state progressivamente indirizzate verso ambiti ritenuti più consoni alle innate capacità domestiche femminili. Il laboratorio di tessitura era considerato una forma di artigianato artistico, relegata alle posizioni più basse nella gerarchia dell’arte e del design. Pur rappresentando una forma di confinamento, per molte divenne comunque uno spazio di autonomia che lasciava libertà di campo e di azione e che, per ironia della sorte, si rivelò anche in grado di realizzare rilevanti profitti, andando quindi a co-finanziare le digressioni artistiche delle sezioni di dominio maschile.
La storiografia femminista, la maggiore attenzione della storia agli aspetti del quotidiano assieme alla più recente tendenza ad analizzare anche le figure sullo sfondo e non solo i cosiddetti 'maestri', hanno portato sempre più studiose, e anche qualche studioso, a indagare su quelle cosiddette 'figure minori' che sono rimaste troppo a lungo nell’ombra di un marito o di un collega più famoso, o la cui opera è andata dimenticata nel tempo.
Chi sono dunque queste donne che hanno animato le aule della scuola? Non le conosciamo ancora tutte, ma il sito 100 Years of Bauhaus ha cominciato a ricostruirne i percorsi, favorendo così l'emersione dal passato, di figure, storie di vita e famiglie di appartenenza. L’elenco è ancora incompleto e sono evidenti le difficoltà nel condurre la ricerca, a cominciare da un aspetto quasi banale ma irto di difficoltà come quello di rintracciare i cognomi da nubili.
I volti e le biografie di queste donne che popolano le stanze del Bauhaus mostrano che sono giovani. Molte si iscrivono intorno ai 18-20 anni e sono già colte. Hanno tutte ricevuto un’educazione in una scuola, spesso pubblica, e molte di loro dispongono di una formazione artistica: l’americana Irene Bayer aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Berlino e frequentato l’Ecole des Beaux Arts a Parigi, Florence Henri aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Berlino e frequentato l’Accademia Moderna di Parigi, dove insegnavano Fernand Leger e Amedeo Ozenfant.
Sono donne creative e hanno voglia di mettere in atto nuovi stili di vita e di apprendimento. Molte di loro si dedicheranno alla fotografia: una disciplina nuova che è meno “incrostata” di retaggi culturali preconfezionati e che schiude ampie possibilità di sperimentazione. Nuovi linguaggi e nuovi materiali vengono sondati anche da chi viene “indirizzata” verso la tessitura, come ha fatto ad esempio Anni Albers che lavorava con materiali innovativi, tra cui i tessuti fono-assorbenti, utilizzando materiali industriali a fini artistici, e mettendo insieme il filato tradizionale della lana con il nuovo cellophane.
Claudia MattognoClaudia MattognoClaudia Mattogno
Sono donne che adottano stili di vita anticonvenzionali. Le foto che le ritraggono sono spesso opera di Lucia Moholy e ci mostrano ragazze sorridenti, che guardano dritto nell’obiettivo, che vestono abiti di grande modernità e hanno i capelli corti.
Molte rimangono nubili per dedicarsi completamente alla produzione artistica; altre sposano compagni di Bauhaus ma spesso ne rimangono all’ombra. Qualcuna di esse avrà un matrimonio duraturo, molte divorzieranno presto.
Sono viaggiatrici e si muovono agevolmente all’interno di quello che era stato il perimetro dell’impero prussiano, spesso superano questi confini e visitano Parigi, importante centro di produzione artistica e culturale. L’artista Ida Kerkovius attraverserà l’Europa settentrionale, l’architetta Lotte Beese lavorerà in Siberia con Max Stam, che in seguito sposerà ad Amsterdam. Alcune di esse compiranno viaggi di studio in Italia: Florence Henri frequenta l’ambiente futurista italiano mentre studia al conservatorio, la scultrice e scenografa teatrale Ilse Fehling riceve nel 1932 il Prix de Rome con una consistente borsa di studio.
Sono donne con vite complesse e non di rado tragiche. La chiusura del Bauhaus da parte dei nazisti nel 1933 fu seguita da anni caotici e anche drammatici per molte di loro. Numerose moriranno nei campi di concentramento, spesso rifiutando un visto di espatrio per restare accanto alle loro famiglie, come fece Otti Berger. Alma Siedhoff-Buscher muore nel bombardamento di Francoforte, altre perdono la loro produzione artistica nei bombardamenti di Berlino. Alcune fuggono in esilio ed emigrano negli Stati Uniti con i mariti come Grit Kallin Fischer, grande talento della fotografia, o come Anni Albers, che insegnerà presso Black Mountain College nel North Carolina a partire dal 1933. Altre ancora partiranno per il Sud America, qualcuna a Tel Aviv, qualcun’altra in Sud Africa come la fotografa e grafica Etel Fodor-Mittag.
Sono donne che lavorano. Aprono studi professionali autonomi e fondano aziende di tessitura a mano, come farà Gunta Stolzl nel 1931 a Zurigo. Lavorano in grandi imprese legate alla produzione tessile, come Otti Berger o alla carta da parati come Maria Rach. Fondano atelier di produzione, come Friedl Dicker, che disegna e produce giocattoli, gioielli, tessuti e scenografie, grafica.
In molte si trasferiranno a Berlino, la capitale culturale, città aperta e cosmopolita, effervescente, ma che sarà anche la loro rovina perché qui perderClaudia Mattognoanno le loro opere durante i bombardamenti. Altre si trasferiranno all’estero. Lucia Moholy, dopo aver divorziato dal marito nel 1929, dapprima si sposta a Parigi e poi raggiunge Londra, da dove collaborerà attivamente a creare il patrimonio di documentazione dell’Unesco, mentre Lotte Stam-Beese si stabilirà in Olanda dove realizzerà interventi di scala urbanistica.
Sono in gran parte donne attive socialmente e politicamente. E spesso manifesteranno il loro impegno attraverso la fotografia sociale di denuncia: Irena Blühova fu anche un’attiva antifascista durante la Seconda Guerra Mondiale, Judith Karasz fu espulsa per questo dalla scuola nel marzo 1932.
Sono donne a lungo rimaste nell’ombra. Per alcune di esse le uniche citazioni sono state quelle di “moglie di…”, Ise Gropius veniva chiamata MClaudia Mattognors. Bauhaus, ma è stata fotografa, autrice di testi, redattrice, organizzatrice di eventi, segretaria della scuola. Altre, come Lilly Reich, a lungo collaboratrice di Mies van der Rohe e già con una relativa notorietà prima di arrivare al Bauhaus, sono state oggetto solo di recente di un’attenzione specifica che ne ha ricostruito con pienezza il ruolo. Ne costituisce un esempio la figura di Judith Karasz rimasta a lungo sconosciuta pur lavorando dal 1949 al 1968 come responsabile degli archivi presso il Museo di Arti Decorative di Budapest per il quale ha fotografato centinaia di opere.
Sono donne che hanno contribuito a sedimentare memoria. Hanno svolto un prezioso lavoro di documentazione, hanno scattato ritratti, hanno ripreso momenti di vita all’interno della scuola. Lo testimoniano le numerose foto di Lucia Moholy e i premi di Margarete Reichardt nel 1937 a Parigi, nel 1939 alla Triennale di Milano, nel 1951Claudia Mattogno il diploma d’Oro e a cui nel 1970 fu affidato l’incarico di curare l’eredità Bauhaus. Un’eredità che finalmente sembra ritrovare le sue filiazioni femminili.
http://www.ingenere.it/articoli/le-ragazze-di-bauhaus?fbclid=IwAR3NlCvUKaYoOLt8og8bCMf3xPugdZgfujuelwIT-f9D_p2JTGLhP0x6qWM
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