Parla la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio Valeria Valente: «Non basta l’inasprimento delle pene, per fermare i maltrattamenti serve un cambio di rotta culturale»
La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio è stata istituita per la prima volta nel 2017, con una delibera del Senato. Obiettivo: svolgere indagini sulla reale dimensione del fenomeno del femminicidio e sulla violenza di genere in Italia. La prima Commissione, presieduta da Francesca Puglisi (anche lei dem), ha svolto 37 audizioni di ministri, esperti, docenti universitari, associazioni di donne, giudici, esponenti di enti locali, associazioni di avvocati, mass media. Numerose le indagini nelle procure e nei tribunali per raccogliere dati sul fenomeno, pubblicate poi in un report finale di oltre 400 pagine (disponibile online sul sito del Senato). La seconda Commissione è stata istituita a febbraio del 2019, con Valeria Valente come presidente. Sono ripresi immediatamente i cicli di audizioni ed è cominciato anche un giro di visite istituzionali nei Centri antiviolenza: le prime tappe sono state Potenza, Trento, Palermo. Il prossimo mese sarà a Napoli.
Non basta l’umiliazione dei 12 milioni di euro stanziati ai Centri antiviolenza nel 2017 (che divisi per il numero di donne accolte e sostenute in un percorso di recupero, come ha denunciato Avvenire, fanno poco più di 70 centesimi a vittima). C’è anche la vergogna dei fondi stanziati per l’anno in corso, il 2019, «fondi per cui non è ancora nemmeno iniziato il riparto tra le Regioni» spiega Valeria Valente, senatrice del Pd e da febbraio presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Un ritardo di 10 mesi, «a cui si deve sommare quello medio di altri 8 o 9 delle Regioni per la procedura di effettiva assegnazione»
Concretamente questo cosa significa, onorevole?
Che da un anno gli stessi Centri antiviolenza – l’unico baluardo di difesa delle donne vittime di abusi e maltrattamenti nel nostro Paese – non solo non hanno fondi per procedere con le proprie attività, ma non sanno nemmeno se li riceveranno. Un’incertezza che di fatto impedisce la programmazione degli interventi e la stesura di nuovi progetti, oltre che penalizzare (quando non azzerare del tutto) quelli già in corso.
A cosa si deve questo ritardo?
Banalmente, ai tempi della burocrazia. Nonostante più volte, come Commissione, ci siamo mossi per sollecitare il governo precedente sul Piano di riparto, nulla è stato fatto. E siamo a novembre, quando negli anni precedenti – pur già con un enorme ritardo – si procedeva appena dopo l’estate.
E il nuovo governo?
Si sta muovendo. Proprio questa settimana abbiamo incontrato il premier Conte, che ci ha rassicurati sulla priorità di questo punto. E il ministro per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, che ha insediato mercoledì a Palazzo Chigi la cabina di regia interministeriale sulla violenza contro le donne, ha promesso che in tempi brevi arriveranno i 30 milioni di euro da destinare alla Regioni per finanziare i centri. Sono segnali di un impegno che ci rincuora, ma che va mantenuto.
I reati contro le donne sono gli unici che continuano a non diminuire, nonostante l’Italia negli ultimi anni si sia dotata di norme fortemente punitive nei confronti di chi li commette. Perché?
È vero, il quadro normativo italiano si è arricchito di interventi volti a un inasprimento delle pene sul fronte delle violenze di genere. Dalla legge contro lo stalking fino al recente Codice rosso, abbiamo assistito al tentativo “aggredire” il fenomeno dal punto di vista del diritto penale, coi risultati positivi di un aumento degli arresti e delle denunce. La tutela delle donne, però, non è aumentata. Troppi i casi di violenza, troppi i femminicidi a cui quotidianamente assistiamo quasi inermi. Questo ci dice che pene più aspre non bastano. Serve un cambio di passo, a cominciare da una presa di coscienza culturale di quello che sta accadendo.
Da dove si comincia?
Dalle università, tanto per fare un esempio. Chi si occupa di violenza sulle donne, nel nostro Paese, ancora non ha la formazione e la specializzazione necessarie per farlo. Penso agli avvocati, ai medici di base, agli psicologi, agli ufficiali di polizia: quando, in un percorso di studi standard, si incontrano moduli specifici pensati perché questi professionisti sappiano trattare il caso di una donna vittima di violenza? Chi si sta occupando di arricchire i percorsi curriculari in tal senso? Scopriamo, anzi, che sono sempre gli stessi Centri antiviolenza nella maggior parte dei casi a offrire questo tipo di formazione. Come Commissione d’inchiesta siamo impegnati su questo punto costantemente: proprio con gli atenei stiamo approntando piani di collaborazione e sensibilizzazione in tal senso. E poi siamo al lavoro coi tribunali.
Come?
Stiamo svolgendo una prima indagine, attraverso la distribuzione capillare di questionari, su come vengono affrontate le separazioni civili. Ci siamo resi conto, infatti, che l’area al di fuori del penale resta del tutto scoperta a livello di controlli e attenzioni, quando invece moltissime vittime di violenza continuata in famiglia, per paura di denunciare, intraprendono proprio la via della separazione civile per mettere al sicuro se stesse e i propri figli. Ecco, a quel livello le situazioni a rischio dovrebbero essere intercettate e accompagnate con molta più frequenza di quel che avviene. Sempre coi tribunali, poi, abbiamo avviato una serie di verifiche su alcuni casi di denunce archiviate, e poi sfociate in femminicidi. Serve che certi segnali vadano intercettati prima che le donne muoiano.
LA PRIMA PUNTATA Violenza sulle donne. Lo Stato e quei 76 centesimi al giorno per le vittime
IL CASO DI MILANO: ABUSI E MALTRATTAMENTI. IL CORAGGIO DELLA FIGLIA 14ENNE, CHE DENUNCIA
Il “copione” sembra sempre lo stesso: un uomo violenta la compagna e la figlia di lei ma la donna non se la sente di andare dai carabinieri a denunciarlo perché ha paura. Ma stavolta, a far arrestare il bruto raccontando tutto al giudice, è stata la ragazzina. È accaduto a Milano. Le aggressioni nei confronti della mamma andavano avanti dal 2015 e l’ultima risale a una decina di giorni fa, quando, dopo essere finita in ospedale con costole e naso rotti, si è finalmente decisa a denunciare il compagno dal quale a giugno ha avuto un bimbo.
Ma a dire ai pm quello che accadeva nella loro casa, a descrivere le scene a cui ha assistito terrorizzata più volte, è stata la figlia maggiore della donna, una 14enne, a sua volta vittima di abusi. Ora il responsabile delle violenze, 44 anni, è in carcere con l’accusa di maltrattamenti in famiglia, lesioni e atti sessuali nei confronti della minore: con precedenti per spaccio, finito a San Vittore, nel 2018 l’uomo era stato assolto dal reato di maltrattamenti e lesioni perché le accuse erano state ritenute inattendibili a causa della reticenza della sua compagna che, nonostante le botte, lo ha sempre riaccolto in casa. A squarciare il velo sulla tremenda realtà è stata la ragazzina, stanca di vivere quell’incubo: ha ricostruito con gli agenti e il pm le vessazioni in famiglia, in particolare quelle a partire dallo scorso aprile, ovvero da quando è ritornata a casa dopo un periodo trascorso dalla nonna e poi in una comunità. La giovane, che è incinta, da quanto si è appreso, dopo aver assistito all’ultima aggressione, in ottobre, era stata ospitata dalla famiglia del suo fidanzatino.
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/donne-e-violenza-unaltra-beffa-mai-ripartiti-i-fondi-del-2019?fbclid=IwAR10prUnvlVFYcRGBVVNvM5O1Ee5hhUd89iGeI60jfsVlhEMxbCOKeelIu0
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