lunedì 22 febbraio 2021

Emancipare le donne dal lavoro di cura.di Maria Rosaria Ayroldi

Il concetto di cura nelle sue varie declinazioni è stato oggetto di studi filosofici e sociologici. Tra le studiose femministe più prolifiche, impegnate a rivendicare il valore della cura in ambito sia etico che politico.

“Il bisogno di cura, la dipendenza dagli altri in particolari fasi della vita, come l’infanzia, la vecchiaia, la malattia, sono elementi costitutivi dell’esperienza umana, eppure non hanno mai avuto la centralità che meritano, sia per l’etica pubblica sia per la teoria politica. Su una svalutazione altrimenti inspiegabile, ha certamente avuto un peso non indifferente il dominio di un sesso che ha riservato a sé la sfera pubblica, lasciando alla donna la funzione di continuatrice della specie, identificata come tale col corpo e le sue traversie, madre sempre e comunque anche se non ha generato.”

Questo scriveva Lea Melandri nel 2019

Il concetto di cura nelle sue varie declinazioni è stato oggetto di studi filosofici e sociologici. Tra le studiose femministe più prolifiche, impegnate a rivendicare il valore della cura in ambito sia etico che politico, Carol Gilligan e Joan Tronto.

Carol Gilligan, psicologa statunitense e studiosa di etica, ha inaugurato un filone di studi di estrema rilevanza che l’ha portata ad elaborare la teoria dell’”etica della cura”. Il 1982 nella sua opera In a different voice Carol Gilligan scrive: “Le donne, dunque, non solo si definiscono nel contesto dei rapporti umani, ma si giudicano, anche, in base alla propria capacità di prendersi cura delle cose e delle persone“.

La sua teoria è stata oggetto di critiche da parte delle femministe che ritenevano che “l’etica della cura” perpetuasse lo stereotipo della donna legata al lavoro di cura. Certamente, nella riflessione di Carol Gilligan, c’è il rischio di riproporre il nesso immediato tra la cura e le donne a confermare l’immagine tradizionale delle donne a lungo confinate ad un ruolo subalterno. Lei stessa, però, si preoccupa di liberare il concetto di cura da ogni dimensione sacrificale e oblativa, introducendo il momento della scelta autonoma e consapevole.

Ma è stata soprattutto Joan Tronto, esperta in studi di genere e femminismo, a estendere ad una dimensione davvero globale i confini dell’etica della cura. La politologa osserva che nella società contemporanea le attività di cura non sono più soddisfatte solo nella sfera domestica, come lavoro non pagato, ma anche in quella pubblica, sia dal mercato, coi servizi di colf, badanti e immigrati, sia dallo Stato, che offre sostegno a famiglie e lavoratori. Tuttavia la svalutazione economica e culturale di queste attività e di chi le svolge perpetua le disuguaglianze sociali: la maggior parte del lavoro di cura è delegato a donne, minoranze e classi inferiori, consentendo ad altri, soprattutto maschi o donne di classi medio-alte, di dedicarsi al lavoro professionale, produttivo, meglio retribuito e più ambito. Resta un privilegio di pochi avere il tempo da dedicare agli interessi personali, coltivando l’immagine e la crescita di sé come persone autonome e indipendenti. Il lavoro di cura corrisponde ad una cittadinanza parziale, mentre il lavoro pagato fonda una cittadinanza piena e un’effettiva partecipazione alla vita pubblica.

La pandemia ha rimesso al centro del vivere quotidiano il bisogno dell’altro/a tanto da essere, il tema del ‘prendersi cura‘, il filo conduttore del Festival di Bioetica che si è tenuto a Santa Margherita Ligure nell’agosto 2020, “da intendersi come cura di sé, degli altri e del mondo di importanza centrale nella nostra vita individuale e collettiva ma che troppo spesso è stata svalutata e considerata marginale, se non secondaria.”

Nel nostro Paese, si deve ancora superare una radicata, pervicace arretratezza culturale in cui il modello ricorrente e convenzionale è che il lavoro di cura sia di “competenza” pressoché esclusiva del mondo femminile. Infatti, quando si parla di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro si fa sostanzialmente riferimento agli equilibrismi che una donna è costretta a compiere per incastrare nella sua vita quotidiana il lavoro fuori casa con tutti gli impegni e le responsabilità legate alla cura domestica, alla cura dei figli e dei suoi famigliari, prevalentemente genitori anziani o soggetti vulnerabili.

Sto parlando, in questo caso, non solo delle donne “in carriera” ma soprattutto di quelle occupate in lavori di basso profilo gravosi e/o usuranti che si sommano al lavoro di cura domestico e di accudimento. In Italia il 75% del lavoro domestico gratuito, dalle pulizie all’andare a prendere i figli a scuola, è svolto prevalentemente dalle donne. 315 minuti al giorno contro i 104 degli uomini. In Francia, Spagna, Germania il lavoro casalingo è diviso in più equo e la percentuale svolta dalle donne è del 62% in Francia e Germania, del 62,5% in Spagna.

Abbiamo accolto tutte con entusiasmo il passaggio del Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi, nel suo discorso in Senato per il primo voto di fiducia del nuovo governo, “la mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne”.

Parità di genere, riduzione del divario salariale, genitorialità e welfare sono i temi che riguardano il ruolo delle donne nell’agenda politica dell’esecutivo.

Sarà molto difficile raggiungere l’obiettivo se gli ultimi dati Istat riportano il dato che oltre il 70% del lavoro familiare è a carico della donna; un dato, che si aggiunge a quelli drammatici sull’occupazione femminile in Italia che era già tra le più basse dell’Europa (46% vs una media europea del 60%).

I dati pubblicati dall’ISTAT nel solo mese di dicembre registrano una flessione dei posti di lavoro dello 0,4% rispetto a novembre, 101 mila occupati in meno. Di quei 101 mila 99 mila sono donne (il 98%) e 2 mila gli uomini. Su base annua sono stati persi 444 mila posti di lavoro e 312 mila nuove disoccupate sono donne.

Il passaggio che il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dedicato alla parità di genere nel mondo del lavoro è interessante:

«L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro».

Come non essere d’accordo, posto che le “farisaiche quote rosa” sono misure transitorie e che in alcuni contesti e nonostante le normative, vengono comunque disattese (vedi l’esempio della Puglia di Michele Emiliano).

C’è da augurarsi che tenga fede a quanto dichiarato rispetto al piano di riforme previste dalla Nex Generation UE: “Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza.”

Dunque tornando al discorso della cura è noto che il sistema di welfare italiano ha un impianto “fortemente familistico”, che tuttora delega alle famiglie la responsabilità di cura sia dei soggetti disabili, sia dei bambini che degli anziani in condizione di dipendenza.

E fin qui, niente di nuovo sotto il sole. Cosa fare per superare questo dilemma sociale, politico ed economico.

Ladynomics, un sito di ricercatrici di economia e di politiche di genere, nel testo per l’audizione alla Camera dei Deputati sul PNRR Next generation indica, tra le proposte di investimento per le donne, quelle in infrastrutture sociali, in servizi per la conciliazione, servizi sociali, istruzione.

Certamente non l’unico ma, a mio parere, uno snodo fondamentale sono le infrastrutture sociali i cui costi, che ad oggi vengono annoverati nella “spesa corrente”, potrebbero diventare investimento strutturale produttivo.

Destinare risorse alla cura all’infanzia, aumentare il numero degli asili nido, riducendone o addirittura azzerando la retta dell’asilo nido determinerebbe una maggiore disponibilità economica a disposizione dei genitori, dunque più possibilità di spesa.

Non solo, una maggiore occupazione, prevalentemente femminile nel settore dell’infanzia, avrebbe anche una ripercussione intergenerazionale: avere o aver avuto una madre che lavora è il miglior predittore per una donna. Ai benefici dal lato dell’occupazione e della crescita economica si sommano benefici per i bambini dal momento che sembrerebbe che tra i bambini che frequentano il nido, si rileva un maggiore livello cognitivo e di socializzazione futuro.

Pensare a piccoli impianti sportivi di prossimità, nei quartieri, rendendoli disponibili gratuitamente per le attività sportive extracurriculari, forse allontanerebbe i bambini e i ragazzi non solo dalla strada ma probabilmente anche da tv, computer, cellulari e videogiochi, i cui danni sono a tutti noti, oltre a rendere efficace il concetto di equità.

L’ideale sarebbe che le scuole secondarie di primo e secondo grado, frequentate da adolescenti, diventino attrattive trasformandole, sul modello di alcuni Paesi scandinavi, in civic center aperti tutto il giorno, offrendo oltre a un luogo di aggregazione più sano e controllato, diverse attività e sollevando le madri, e qualche volta i padri, dal faticoso compito di trasformarsi in autiste/accompagnatrici verso le attività extrascolastiche, sottraendo tempo a se stesse.

Più asili nido, più strutture sportive, edilizia scolastica, investimenti per rendere le più scuole più sicure, accoglienti, adeguate alle più recenti concezioni della didattica genererebbero una maggiore occupazione in termini di insegnanti, operatori scolastici, addetti dei servizi esternalizzati, personale del settore edile, innestando un circolo virtuoso di maggiore occupazione e consentirebbe alle donne che lavorano un maggior respiro e serenità.

Anche la cura e l’assistenza alle persone anziane e disabili è una fetta di welfare che merita attenzione e competenza poiché sono una componente del lavoro di cura almeno altrettanto importante di quella destinata all’infanzia.

Nel 2017 una ricerca dell’Auser-Cgil denunciava la generale scarsità delle strutture residenziali per gli anziani non autosufficienti e le profonde differenze territoriali. Una provincia come Trento disponeva da sola di un numero di posti in strutture residenziali maggiore di quello di una regione come il Lazio, dove vive una popolazione 10 volte superiore. Dunque necessitano investimenti anche in questo settore che sta diventando strategico, visto l’invecchiamento della popolazione.

Secondo dati pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità, negli ultimi 50 anni l’invecchiamento della popolazione italiana è stato uno dei più rapidi tra i Paesi maggiormente sviluppati e si stima che nel 2050 la quota di ultra65enni ammonterà al 35,9% della popolazione totale, con un’attesa di vita media pari a 82,5 anni (79,5 per gli uomini e 85,6 per le donne)

Il numero molto alto di decessi nelle Rsa, a causa del Coronavirus, ha fortemente incrinato la fiducia nella formula “residenzialità” e ha alimentato la ricerca di soluzioni alternative a favore della deistituzionalizzazione e di una personalizzazione degli interventi a domicilio per i soggetti vulnerabili, disabili, persone anziane non autosufficienti, minori affetti da dipendenze, ecc.

Che si vada in questa direzione lo si intravede nelle dichiarazioni di autorevoli, esponenti del mondo cattolico, come mons. Vincenzo Paglia, che non vede nel ritorno alla famiglia un “rischio”, ma una grande opportunità.

Il ministro Roberto Speranza, confermato da Draghi al Ministero della Salute, nel precedente governo Conte II ha istituito con Decreto una Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana.

A presiederla è stato chiamato Mons. Vincenzo Paglia Gran cancelliere del Pontificio Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e ne fanno parte personalità del mondo scientifico e sociale.

Ritenuto necessario ripensare in toto un modello assistenziale rivolto alla popolazione anziana in grado di articolare un continuum di servizi in setting diversi, primariamente presso le dimore degli assistiti, nel loro habitat, nel tessuto familiare e sociale, la mission della commissione sarebbe quella di coordinare l’attività del Ministero in relazione all’assistenza della popolazione anziana con riferimento, in particolare, all’assistenza domiciliare.

Sorprende che, in uno Stato laico, si sia chiamato un uomo, un prelato, a presiedere una commissione che deve pensare ad un nuovo modello di assistenza sanitaria e sociale che dovrebbe aiutare gli anziani a vivere nelle loro case, nel loro habitat, con le loro famiglie.

Ora, visto che tutti stanno guardando alle risorse del Recovery plan, mi chiedo, ma in tutto l’apparato del Ministero della Salute e del mondo scientifico nonché tra gli esperti di economia e statistica sanitaria davvero non si sono trovate persone, magari donne, all’altezza di questo compito così delicato?

L’idea di riportare gli anziani non autosufficienti nell’ambito familiare la si trova anche nella mozione approvata all’unanimità dal Consiglio regionale del Lazio su proposta del consigliere Paolo Ciani, vicepresidente della commissione Sanità e Affari sociali ed esponente della Comunità di Sant’Egidio che propone di superare il modello di assistenza incentrato su Rsa e case di riposo e investire su nuovi modelli assistenziali per gli anziani, volti a coniugare il vivere in casa con una intensità di cura flessibile.

“Innanzitutto innovando in profondità l’assistenza agli anziani, costruire alternative all’istituzionalizzazione e tenere i nostri cari a casa. L’intento è favorire una molteplicità di soluzioni abitative – dimora naturale, housing sociale pubblico o privato, residenzialità leggera, cohousing pubblico o privato, condomini protetti, case famiglia, microaree – e portare le cure sanitarie a domicilio. Questo permetterà una migliore qualità della vita, riducendo i costi per le amministrazioni pubbliche.”

La mia paura è che si incrocino in un loop negativo la flessione dei posti di lavoro delle donne, con l’idea di riportare anziani non autosufficienti nell’alveo familiare, pur con la garanzia di servizi di supporto.

Il rischio insito nella deistituzionalizzazione è ovviamente quello di trasferire il carico assistenziale alle famiglie e più precisamente alle donne, all’interno delle famiglie, la qualcosa potrebbe trasformarsi in un boomerang specie per le donne con lavori precari o sottopagati.

In passato si sono visti programmi di riorganizzazione in funzione di contenimenti della spesa sanitaria, come la chiusura di piccoli ospedali, senza preventivamente potenziare la rete di servizi territoriali e renderla più appropriata e coerente ai bisogni della comunità e per i quali invece l’Ospedale era funzionale.

Per la verità qui si tratta di spenderli, i soldi;

Le Rsa dovrebbero, invece, essere ripensate come un nodo della rete sociosanitaria, potenziando il numero delle pubbliche e di quelle private in grado di offrire elevati standard qualitativi, (da monitorare sia al momento dell’accreditamento sia successivamente con controlli random diluiti nel tempo) soprattutto per pazienti disabili e non autosufficienti e di programmare un modello socio sanitario che sappia offrire l’intero spettro dei servizi, da quelli di rete e prossimità, di lotta alla solitudine e di prevenzione, a interventi domiciliari di sostegno sociale e sanitario continuativo, alla semiresidenzialità in centri diurni.

Anche in questo caso si prefigurerebbero investimenti in edilizia sanitaria, personale sociosanitario e servizi esternalizzati, innestando un circolo virtuoso di maggiore occupazione in settori dove la presenza femminile supera il 70%.

Nella nuova compagine governativa, guidata da Draghi, compare il Ministero della Disabilità.

La pandemia e il lockdown hanno creato non pochi problemi anche per i caregiver, prevalentemente donne, aumentando il carico del lavoro di cura e di assistenza dei disabili a causa anche della sospensione e la riduzione dell’aiuto di badanti o assistenti domiciliari. In aggiunta, le caregiver si sono ritrovate a dover gestire, altre problematiche come la convivenza forzata con altri familiari, magari in spazi ristretti, e la presenza dei figli a casa per la chiusura delle scuole.

C’è da augurarsi che, ora che esiste il dicastero della disabilità, le tre proposte (due presentate al Senato e una alla Camera), per il riconoscimento del Caregiver familiare abbiano un iter più rapido.

Personalmente trovo che quello della disabilità è un settore molto delicato le cui esigenze di programmazione e allocazione di risorse si intrecciano con quelle dei Ministeri dell’Istruzione, Lavoro e politiche sociali, Salute, Politiche giovanili, Infrastrutture e trasporti, Pari opportunità e famiglia e anche lo Sport il cui Ministero è stato soppresso e la delega è nelle mani del Presidente Draghi.

Probabilmente, ma è il mio personale parere, piuttosto che un dicastero dedicato, senza portafoglio, avrei visto più utile una Struttura di missione per le politiche in favore delle persone con disabilità all’interno di ciascun Ministero e un tavolo tecnico interministeriale che facesse da collettore delle istanze delle famiglie e delle associazioni per pianificare politiche inclusive e interventi che vadano incontro ai bisogni delle famiglie, ma soprattutto delle donne che spesso sono costrette a lasciare il lavoro per dedicarsi a un congiunto con disabilità oppure ad un genitore anziano e malato.

Nel 2008, nel mentre il Presidente Draghi ricopriva la carica di Governatore (dal 29 dicembre 2005 al 31 ottobre 2011), la Banca d’Italia così si esprimeva: Ogni 100 posti di lavoro creati per le donne se ne creano in realtà 115, grazie alla esternalizzazione del lavoro di cura (Banca d’Italia, 2008). Attualmente alcune stime indicano che per ogni 10 donne che entrano nel mondo del lavoro vengono creati altri 3 posti di lavoro, soprattutto nel settore della cura a bambini e anziani, nelle pulizie domestiche, e nei servizi alla famiglia in generale (ripreso da Alleyoop il sole24ore)

Non è un caso, infatti, che ancora oggi i paesi europei a più elevato tasso di occupazione femminile siano anche i paesi che spendono maggiormente nel welfare e, dove le donne lavorano di più e possono contare su una rete di servizi di cura, i tassi di natalità crescono.

La Commissione Europea ha confermato che la parità di genere è uno dei i criteri con cui giudicherà i piani nazionali Next Generation EU, che dovranno anche indicare le debolezze nazionali esistenti in proposito, l’aggravamento a causa della crisi e gli strumenti per affrontare il problema nei vari capitoli di investimento.

Certamente, quando è stato stilato il programma di Azione per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritto nel 2015 dai Governi dei 193 Paesi membri dell’ONU, non c’era nessuna Pandemia da Covid19 a preoccupare i Paesi aderenti. Tuttavia l’Italia, tra i paesi firmatari, si è impegnata a raggiungere entro il 2030 l’obiettivo n.5 ( sono in tutto 17): Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze.

Ce la faremo? Staremo a vedere cosa prevederà la versione definitiva del Recovery Plan che l’attuale governo sta preparando. Chiudo con uno stralcio contenuto nel messaggio di auguri di fine anno di Susanna Camusso: “senza le donne, continuando ad escluderle e a marginalizzarle non c’è cambio di paradigma… perché mancherebbe quello sguardo e soprattutto quei saperi che leggono il bisogno di cura, che sanno declinare l’economia della cura.”.

https://www.dols.it/2021/02/20/emancipare-le-donne-dal-lavoro-di-cura/?fbclid=IwAR0rg5OxC2MtTJC7VJRL5ODf_zodgMlnnKHeAQo2CN8CTcEsDEjD7WIPN1s



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