venerdì 23 maggio 2014

L'Europa per le donne Mariagrazia Rossilli


L'Europa ha avuto un fondamentale ruolo di traino nelle politiche per le donne. Che hanno avuto una battuta d'arresto con la crisi, in un cortocircuito tra politiche europee e politiche nazionali.

Il quadro che emerge dal Report on Progress on equality between women and men in 2013 dell’UE rivela poche luci e molte ombre. Progressi si registrano nel campo dell’istruzione in cui gli obiettivi dell’agenda politica “Europa 2020” possono dirsi, per quanto riguarda le donne, vicini a esser raggiunti, rispetto alla riduzione della dispersione scolastica (nel 2012 il 10,9% delle ragazze a fronte del 14,4% dei ragazzi) e al tasso di giovani 30- 34enni laureati (nel 2012 pari al 39,9% delle donne a fronte del 31,5% degli uomini). Non costituisce invece un progresso la riduzione dei gender gap rispetto al tasso di occupazione, disoccupazione e alle retribuzioni in quanto risultato più del peggioramento delle condizioni degli uomini che del miglioramento delle condizioni delle donne. Nella crisi la disoccupazione è aumentata per donne e uomini, ma nel 2012 il gap è ridotto allo 0,1% nella media UE-27 e sono 15 gli stati in cui la disoccupazione maschile supera quella femminile (erano 5 nel 2007). Mentre il tasso di occupazione maschile (20-65 anni) è diminuito (dal 77,7 % del 2007 al 74,5% nel gennaio 2014), quello femminile è un po’ aumentato (dal 62,1% al 63%), rimanendo però di 12 punti percentuali inferiore a quello maschile, differenza che diventa di 25 punti percentuali se si considerano donne e uomini genitori di bambini piccoli.
Disoccupazione e occupazione femminile sono entrambe aumentate perché molte donne sono entrate nel mercato del lavoro per compensare la perdita di lavoro o la riduzione del salario degli uomini. Se le donne non svolgono più il ruolo di “tampone” nel mercato del lavoro come durante le passate crisi economiche – visto che questo ruolo è ormai svolto oggi dai giovani - (1), è pur vero che la grande crescita del part-time involontario durante la crisi nasconde forme di parziale disoccupazione. Il part-time maschile, benché aumentato durante la crisi, rappresenta solo l’8% dei lavoratori nell’UE-27 di contro al 33% delle lavoratrici il 30% delle quali lo sono involontariamente. Continuando l’attuale trend, l’obiettivo di un tasso di occupazione (20-65 anni) del 75% potrà essere raggiunto per le donne solo nel 2038 e ci vorranno più di 70 anni per chiudere il gap retributivo tra uomini e donne che nel 2013 è nella media UE di 16 punti percentuali (nel 2010 era di 18 punti). E’ poi incalcolabile il tempo entro cui si potrebbe annullare il gap nelle pensioni medie che è di 39 punti percentuali. Sono soprattutto le pensionate over 65, le madri singole e le immigrate, a esser le più rappresentate tra i gruppi a rischio povertà ed esclusione sociale (il 26,9% di donne è a rischio povertà nell’UE-27 a fronte del 24,8% di uomini la cui povertà è comunque aumentata) (2).
Molti obiettivi dell’Agenda 2020 appaiono oggi irraggiungibili. A questi fallimenti ha contribuito la crisi economica, peraltro già in pieno svolgimento nel 2010 quando questi obiettivi erano stati stabiliti. Ma ad aggravare la stessa crisi, nonché il gap tra i vari paesi, hanno contribuito anche le politiche di austerità messe in atto dai governi, in larga parte indotte dall’UE. La combinazione degli effetti della crisi economica e di quelli indotti dalle politiche di austerità ha contribuito a rivelare a pieno i limiti della governance europea acuendo tensioni già presenti nelle politiche dell’Agenda di Lisbona e nella Strategia Europea per l’occupazione (SEO).
Come è noto, dalla fine degli anni ’90, allo scopo di aumentare il tasso di occupazione, le linee guida della SEO hanno raccomandato ai paesi membri di accompagnare misure specifiche volte a favorire l’occupazione femminile con l’adozione del gender mainstreaming. In particolare, le politiche per le pari opportunità raccomandate hanno riguardato la la conciliazione di responsabilità familiare e lavorative tramite congedi parentali, servizi di cura per bambini e anziani e l’incentivazione della flessibilità di contratti, tempi e condizioni lavorative. Mentre incentivava lo sviluppo di contratti di lavoro flessibili e atipici, di cui le donne son state le prime destinatarie, la Commissione europea raccomandava di di assicurare un equilibrio tra flessibilità del mercato e sicurezza di chi lavora, principalmente tramite l’adeguamento dei sistemi di sicurezza sociale. Tuttavia le politiche occupazionali e quelle relative ai sistemi di sicurezza sociale sono di competenza nazionale. Sotto la pressione congiunta dei tagli della spesa pubblica e delle riduzioni dei contributi per aumentare la competitività delle imprese, tutti i sistemi previdenziali hanno subito la competizione tra gli stati membri nelle riforme al ribasso. Da qui lo squilibrio tra flessibilità e sicurezza e la diffusa precarizzazione del lavoro, innanzi tutto di donne e giovani. La crisi economica ha aggravato questa situazione in quanto si è delineata la tendenza a sostituire i contratti di lavoro standard con quelli a tempo determinato e precari, tanto più che le politiche dell’UE hanno messo al primo posto la riduzione del deficit e del debito pubblico,sottovalutando la necessità di politiche per rilanciare crescita economica e domanda di lavoro. In questo quadro le politiche di austerità sono state adottate in assenza del gender mainstreaming. Nel settore pubblico le riduzioni di personale, salari e servizi (dalla sanità agli asili) ha colpito pesantemente le donne direttamente per la perdita di posti lavoro, rappresentando le lavoratrici il 70% dei dipendenti pubblici (media UE-27), e indirettamente per l’aumento del carico di lavoro di cura non retribuito.
Se l’assenza del mainstreaming di genere è grave nelle scelte delle politiche economiche nazionali, è forse ancor più grave la scarsa attenzione alle pari opportunità da parte della Commissione Europea. Nelle Country Specific Recommendations inviate annualmente dalla Commissione ai paesi membri la prospettiva di genere risulta pressoché assente. Negli anni della crisi e dell’austerità l’integrazione della dimensione di genere è stata effettiva solo nelle politiche europee per la ricerca scientifica, mentre è stata deficitaria nelle politiche sociali e per l’occupazione. Ciò trova conferma nel Social Investment Package adottato dalla Commissione Europea nel 2013 in cui si raccomanda agli stati membri di implementare misure volte all’inclusione attiva mediante la promozione della partecipazione al mercato del lavoro, l’adeguamento dei sistemi previdenziali ai nuovi rischi sociali, gli investimenti in istruzione e prevenzione della povertà infantile e in servizi per la salute. Non solo queste indicazioni non son declinate secondo la differenza di genere, ma risultano in parte inconciliabili con gli obiettivi dell’UE di riduzione del deficit e del debito pubblico. La crisi e le politiche di austerità hanno insomma fatto scivolare ai margini dell’agenda politica europea l’approccio di gender mainstreaming e le pari opportunità. E’ paradossale che questi sviluppi si siano verificati proprio quando il Trattato di Lisbona, pur senza nessun significativo trasferimento di competenze all’UE, conferisce un’inedita rilevanza agli obiettivi sociali con il riferimento all’economia sociale di mercato (art. 3) e con la clausola sociale orizzontale (art. 9) che dovrebbe introdurre una forma di mainstreaming della dimensione sociale in tutte le politiche. Il tutto è accaduto quando ha acquisito valore vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell’UE che all’art. 23 stabilisce che la parità uomo donna deve essere assicurata in tutti i campi e, agli artt. 30-36, il riconoscimento di tutti i diritti sociali, dal diritto ai congedi di maternità e parentali al diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e all’assistenza sociale e abitativa per coloro che non dispongano di risorse sufficienti. Altrettanto paradossale è stato lo stallo nell’approvazione della legislazione vincolante in materia di diritti delle donne e parità di genere proprio quando il Parlamento europeo, composto da una rispettabile presenza femminile (circa il 35%), è divenuto colegislatore a tutti gli effetti. Nessuna legislazione vincolante è stata approvata, se si escludono la direttiva, frutto solo dell’Accordo quadro tra le parti sociali, che porta a 4 mesi la durata dei congedi parentali (2010/18/UE), la direttiva sull’uguaglianza e la tutela della maternità delle lavoratrici autonome (2010/41) e la proposta di direttiva in via d’approvazione che prevede che, entro il 2020, ci sia una presenza del 40% di donne nei consigli di amministrazione delle società con più di 250 dipendenti. Solo nel mese di Marzo 2014 la Commissione Europea ha approvato una Raccomandazione – non vincolante - per rafforzare il principio della parità retributiva tra uomini e donne attraverso una migliore trasparenza di categorie e sistemi salariali. Per l’opposizione di alcuni governi e delle organizzazioni imprenditoriali è invece bloccata da anni la proposta di direttiva migliorativa della normativa esistente sui congedi di maternità. Mentre sono senz’altro positive l’approvazione della direttiva sul traffico di essere umani e le campagne europee contro la violenza contro le donne, appare invece lesivo il voto con cui il Parlamento europeo ha respinto il rapporto Estrela sul riconoscimento dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne.

Insomma sembra essersi interrotto quel trend progressivo che ha fatto delle politiche di pari opportunità e dei diritti delle donne un elemento centrale dello sviluppo della Comunità europea fin dalla fondazione. Queste politiche devono essere rilanciate al più presto.

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