L'Europa ha avuto un
fondamentale ruolo di traino nelle politiche per le donne. Che hanno
avuto una battuta d'arresto con la crisi, in un cortocircuito tra
politiche europee e politiche nazionali.
Il quadro che emerge
dal Report on Progress on equality between women and men in 2013
dell’UE rivela poche luci e molte ombre. Progressi si registrano
nel campo dell’istruzione in cui gli obiettivi dell’agenda
politica “Europa 2020” possono dirsi, per quanto riguarda le
donne, vicini a esser raggiunti, rispetto alla riduzione della
dispersione scolastica (nel 2012 il 10,9% delle ragazze a fronte del
14,4% dei ragazzi) e al tasso di giovani 30- 34enni laureati (nel
2012 pari al 39,9% delle donne a fronte del 31,5% degli uomini). Non
costituisce invece un progresso la riduzione dei gender gap rispetto
al tasso di occupazione, disoccupazione e alle retribuzioni in quanto
risultato più del peggioramento delle condizioni degli uomini che
del miglioramento delle condizioni delle donne. Nella crisi la
disoccupazione è aumentata per donne e uomini, ma nel 2012 il gap è
ridotto allo 0,1% nella media UE-27 e sono 15 gli stati in cui la
disoccupazione maschile supera quella femminile (erano 5 nel 2007).
Mentre il tasso di occupazione maschile (20-65 anni) è diminuito
(dal 77,7 % del 2007 al 74,5% nel gennaio 2014), quello femminile è
un po’ aumentato (dal 62,1% al 63%), rimanendo però di 12 punti
percentuali inferiore a quello maschile, differenza che diventa di 25
punti percentuali se si considerano donne e uomini genitori di
bambini piccoli.
Disoccupazione e
occupazione femminile sono entrambe aumentate perché molte donne
sono entrate nel mercato del lavoro per compensare la perdita di
lavoro o la riduzione del salario degli uomini. Se le donne non
svolgono più il ruolo di “tampone” nel mercato del lavoro come
durante le passate crisi economiche – visto che questo ruolo è
ormai svolto oggi dai giovani - (1), è pur vero che la grande
crescita del part-time involontario durante la crisi nasconde forme
di parziale disoccupazione. Il part-time maschile, benché aumentato
durante la crisi, rappresenta solo l’8% dei lavoratori nell’UE-27
di contro al 33% delle lavoratrici il 30% delle quali lo sono
involontariamente. Continuando l’attuale trend, l’obiettivo di un
tasso di occupazione (20-65 anni) del 75% potrà essere raggiunto per
le donne solo nel 2038 e ci vorranno più di 70 anni per chiudere il
gap retributivo tra uomini e donne che nel 2013 è nella media UE di
16 punti percentuali (nel 2010 era di 18 punti). E’ poi
incalcolabile il tempo entro cui si potrebbe annullare il gap nelle
pensioni medie che è di 39 punti percentuali. Sono soprattutto le
pensionate over 65, le madri singole e le immigrate, a esser le più
rappresentate tra i gruppi a rischio povertà ed esclusione sociale
(il 26,9% di donne è a rischio povertà nell’UE-27 a fronte del
24,8% di uomini la cui povertà è comunque aumentata) (2).
Molti obiettivi
dell’Agenda 2020 appaiono oggi irraggiungibili. A questi fallimenti
ha contribuito la crisi economica, peraltro già in pieno svolgimento
nel 2010 quando questi obiettivi erano stati stabiliti. Ma ad
aggravare la stessa crisi, nonché il gap tra i vari paesi, hanno
contribuito anche le politiche di austerità messe in atto dai
governi, in larga parte indotte dall’UE. La combinazione degli
effetti della crisi economica e di quelli indotti dalle politiche di
austerità ha contribuito a rivelare a pieno i limiti della
governance europea acuendo tensioni già presenti nelle politiche
dell’Agenda di Lisbona e nella Strategia Europea per l’occupazione
(SEO).
Come è noto, dalla
fine degli anni ’90, allo scopo di aumentare il tasso di
occupazione, le linee guida della SEO hanno raccomandato ai paesi
membri di accompagnare misure specifiche volte a favorire
l’occupazione femminile con l’adozione del gender mainstreaming.
In particolare, le politiche per le pari opportunità raccomandate
hanno riguardato la la conciliazione di responsabilità familiare e
lavorative tramite congedi parentali, servizi di cura per bambini e
anziani e l’incentivazione della flessibilità di contratti, tempi
e condizioni lavorative. Mentre incentivava lo sviluppo di contratti
di lavoro flessibili e atipici, di cui le donne son state le prime
destinatarie, la Commissione europea raccomandava di di assicurare un
equilibrio tra flessibilità del mercato e sicurezza di chi lavora,
principalmente tramite l’adeguamento dei sistemi di sicurezza
sociale. Tuttavia le politiche occupazionali e quelle relative ai
sistemi di sicurezza sociale sono di competenza nazionale. Sotto la
pressione congiunta dei tagli della spesa pubblica e delle riduzioni
dei contributi per aumentare la competitività delle imprese, tutti i
sistemi previdenziali hanno subito la competizione tra gli stati
membri nelle riforme al ribasso. Da qui lo squilibrio tra
flessibilità e sicurezza e la diffusa precarizzazione del lavoro,
innanzi tutto di donne e giovani. La crisi economica ha aggravato
questa situazione in quanto si è delineata la tendenza a sostituire
i contratti di lavoro standard con quelli a tempo determinato e
precari, tanto più che le politiche dell’UE hanno messo al primo
posto la riduzione del deficit e del debito pubblico,sottovalutando
la necessità di politiche per rilanciare crescita economica e
domanda di lavoro. In questo quadro le politiche di austerità sono
state adottate in assenza del gender mainstreaming. Nel settore
pubblico le riduzioni di personale, salari e servizi (dalla sanità
agli asili) ha colpito pesantemente le donne direttamente per la
perdita di posti lavoro, rappresentando le lavoratrici il 70% dei
dipendenti pubblici (media UE-27), e indirettamente per l’aumento
del carico di lavoro di cura non retribuito.
Se l’assenza del
mainstreaming di genere è grave nelle scelte delle politiche
economiche nazionali, è forse ancor più grave la scarsa attenzione
alle pari opportunità da parte della Commissione Europea. Nelle
Country Specific Recommendations inviate annualmente dalla
Commissione ai paesi membri la prospettiva di genere risulta
pressoché assente. Negli anni della crisi e dell’austerità
l’integrazione della dimensione di genere è stata effettiva solo
nelle politiche europee per la ricerca scientifica, mentre è stata
deficitaria nelle politiche sociali e per l’occupazione. Ciò trova
conferma nel Social Investment Package adottato dalla Commissione
Europea nel 2013 in cui si raccomanda agli stati membri di
implementare misure volte all’inclusione attiva mediante la
promozione della partecipazione al mercato del lavoro, l’adeguamento
dei sistemi previdenziali ai nuovi rischi sociali, gli investimenti
in istruzione e prevenzione della povertà infantile e in servizi per
la salute. Non solo queste indicazioni non son declinate secondo la
differenza di genere, ma risultano in parte inconciliabili con gli
obiettivi dell’UE di riduzione del deficit e del debito pubblico.
La crisi e le politiche di austerità hanno insomma fatto scivolare
ai margini dell’agenda politica europea l’approccio di gender
mainstreaming e le pari opportunità. E’ paradossale che questi
sviluppi si siano verificati proprio quando il Trattato di Lisbona,
pur senza nessun significativo trasferimento di competenze all’UE,
conferisce un’inedita rilevanza agli obiettivi sociali con il
riferimento all’economia sociale di mercato (art. 3) e con la
clausola sociale orizzontale (art. 9) che dovrebbe introdurre una
forma di mainstreaming della dimensione sociale in tutte le
politiche. Il tutto è accaduto quando ha acquisito valore vincolante
la Carta dei diritti fondamentali dell’UE che all’art. 23
stabilisce che la parità uomo donna deve essere assicurata in tutti
i campi e, agli artt. 30-36, il riconoscimento di tutti i diritti
sociali, dal diritto ai congedi di maternità e parentali al diritto
alle prestazioni di sicurezza sociale e all’assistenza sociale e
abitativa per coloro che non dispongano di risorse sufficienti.
Altrettanto paradossale è stato lo stallo nell’approvazione della
legislazione vincolante in materia di diritti delle donne e parità
di genere proprio quando il Parlamento europeo, composto da una
rispettabile presenza femminile (circa il 35%), è divenuto
colegislatore a tutti gli effetti. Nessuna legislazione vincolante è
stata approvata, se si escludono la direttiva, frutto solo
dell’Accordo quadro tra le parti sociali, che porta a 4 mesi la
durata dei congedi parentali (2010/18/UE), la direttiva
sull’uguaglianza e la tutela della maternità delle lavoratrici
autonome (2010/41) e la proposta di direttiva in via d’approvazione
che prevede che, entro il 2020, ci sia una presenza del 40% di donne
nei consigli di amministrazione delle società con più di 250
dipendenti. Solo nel mese di Marzo 2014 la Commissione Europea ha
approvato una Raccomandazione – non vincolante - per rafforzare il
principio della parità retributiva tra uomini e donne attraverso una
migliore trasparenza di categorie e sistemi salariali. Per
l’opposizione di alcuni governi e delle organizzazioni
imprenditoriali è invece bloccata da anni la proposta di direttiva
migliorativa della normativa esistente sui congedi di maternità.
Mentre sono senz’altro positive l’approvazione della direttiva
sul traffico di essere umani e le campagne europee contro la violenza
contro le donne, appare invece lesivo il voto con cui il Parlamento
europeo ha respinto il rapporto Estrela sul riconoscimento dei
diritti sessuali e riproduttivi delle donne.
Insomma sembra essersi
interrotto quel trend progressivo che ha fatto delle politiche di
pari opportunità e dei diritti delle donne un elemento centrale
dello sviluppo della Comunità europea fin dalla fondazione. Queste
politiche devono essere rilanciate al più presto.
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