martedì 29 settembre 2015

Gender e scuola: contro la paranoia ci vuole empatia di Monica Lanfranco

L’Italia è percorsa da nord a sud da varie e diverse iniziative d’incontro e dibattito che coinvolgono chi fa scuola e formazione: su tutte aleggia la surreale questione del ‘gender’, sulla quale è dovuta intervenire, in toni minacciosi, anche la ministra dell’Istruzione.
Figlia dei tempi digitali contemporanei, della paura ancestrale della sessualità e di ciò che non si conosce, la gigantesca bufala del gender calza a pennello per esemplificare quella che il filosofo coreano Byung- Chul Han definisce come ‘storm shit’ (tempesta di cacca) nel libro Nello sciame-visioni del digitale. In un Paese nel quale parlare di sessualità, affettività, relazioni tra i generi è da sempre un tabù non poteva essere facile farlo nelle scuole.
L’ignoranza (endemica e di ritorno) nel nostro Paese è stata la leva per l’attivazione di una potentissima catena di sant’Antonio, resa inarrestabile dal web e dai social network, impastata di banalità talvolta grottescamente comiche, ma non per questo meno pericolose. Va da sé che per scardinare gli stereotipi di genere, brodo di cottura di sessismo e omofobia, bisogna cominciare dall’asilo, ed eccolo lo spettro dell’indottrinamento: il terrore per l’equilibrio dell’infanzia. Durante la merenda le maestre dovranno parlare di masturbazione, a tre anni sarà obbligatorio diventare omosessuale, genitori correte a firmare in Comune (!) per impedire che passi il gender alle elementari: la registrazione in un gruppo whatsapp fatta da una madre, resa pubblica dall’Espresso sembra la gag ben riuscita di un programma comico, ma invece è realtà.
Nel parlare di buone pratiche contro il sessismo e l’omofobia è necessario sapere che ci si trova davanti, prima di tutto, alla paura. La paura, scatenata dall’ignoranza, è un sentimento potente, e ci vogliono empatia e chiarezza per contrastarla. Bene lo sa chi da molti anni lavora nel mondo dell’educazione, come per esempio la Rete di cooperazione educativa, che per fine ottobre ha organizzato il suo annuale appuntamento, al quale parteciperò, centrandolo proprio sul corpo e le sue emozioni.
Carlo Ridolfi, uno degli organizzatori, mi ha inviato una riflessione che mi pare utile. Eccola:
Toni è un amico, più giovane di me, padre di un bambino e una bambina che vanno a scuola con mio figlio. Toni è un ragazzo semplice, a volte anche un pò troppo.
L’altra sera siamo andati insieme ad un’assemblea pubblica su La Buona Scuola e il Gender, organizzata in un paese vicino al nostro da una bravissima assessora all’Istruzione. C’era molta gente. Le relatrici erano tre giovani donne: un’avvocata e due psicologhe. Impeccabili sul piano dei contenuti. Eppure il mio amico Toni, che era venuto all’incontro per avere qualche chiarimento su una questione che ha occupato per tutta l’estate le discussioni sotto gli ombrelloni o sui sentieri di montagna e ha intasato la chat in whatsapp della classe dei nostri figli, è tornato a casa scontento. Lo capisco.
Genitori e insegnanti, più o meno, spesso meno che più, informati, sono allarmatissimi sulle notizie che si sono diffuse o che sono state diffuse ad arte per quella che è una vera e propria offensiva ideologica (ma le ideologie non erano morte?).
Molta parte di questa offensiva è costruita sul piano emotivo, mescolando frasi di documenti ufficiali estrapolate qua e là, opinioni personali, un bel po’ di falsità e qualche riferimento concreto. Si tocca una dimensione delicatissima che coinvolge ciascuno e ciascuna di noi. Ora, se a questa situazione di nervi scopertissimi si risponde, come è stato fatto l’altra sera, opponendo una seria di riferimenti normativi (interessantissimi e fondamentali); rispondendo alle richieste di chiarimento di Toni ‘è una questione di ermeneutica’ e facendo intendere che sono questioni tecniche che solo da competenze tecniche devono essere trattate, il risultato concreto è del tutto diverso da quello che probabilmente si sarebbe voluto. Il mio amico Toni può anche andarsi a cercare su google qual è il significato della parola ‘ermeneutica’, ma questo non gli toglierà la sgradevolissima sensazione di esser stato calato nei panni di Renzo Tramaglino davanti al latinorum dell’Azzeccagarbugli. Non saranno i documenti ufficiali, come i ‘chiarimenti’ del Miur o i riferimenti a questo o quel testo scientifico, che ci aiuteranno ad affrontare la questione. E’ necessario, anzi, è vitale, secondo me, trovare modi e forme di comunicazione che, salvaguardando i contenuti, riescano ad esser percepiti, compresi, condivisi. Altrimenti, una volta di più, perderemo avendo ragione…

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