«Amal avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Era sufficientemente vicina per vedere che portava le lenti a contatto. Si immaginò il soldato curvo su uno specchio che si infilava le lenti negli occhi prima di vestirsi e andare a uccidere. Che strano, pensò, quello che ti viene in mente tra la vita e la morte. Si domandò se i soldati si sarebbero dichiarati pentiti dell'uccisione "accidentale" di una cittadina americana. O se la sua vita sarebbe semplicemente finita nel marasma del "danno collaterale».
Così inizia Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa, uno dei libri più appassionanti degli ultimi anni, la cui lettura insegna più di ogni altra il dramma dell'abbandono della propria casa, della violenza, della persecuzione ma anche della fiera resistenza contro un mondo che ancora troppo spesso dimentica la sua umanità. In questo caso si tratta di una famiglia palestinese, popolo perseguitato dalla illegittima occupazione israeliana.
Potrebbe però benissimo essere la storia di una donna eritrea, costretta a fuggire dalla feroce dittatura di Afewerki, come Aster Yohannes che insieme a suo marito Petros Solomon ha fatto perdere le sue tracce, probabilmente perché massacrati dalle guardie "ammaestrate" di quel regime. Oppure Asabe, donna nigeriana costretta a venire in Italia e a prostituirsi sul ciglio delle nostre strade, nell'indifferenza generale.
O ancora Chau, che lavora come badante di un anziano signore romano guadagnando appena 400 euro al mese a nero, costretta a vivere un lavoro totalizzante, privo di occasioni di svago, socializzazione, riposo. O Anca, venuta in Italia per cercare lavoro per ritrovatasi a lavorare come schiava nei campi agricoli di Ragusa dove guadagna appena 600 euro al mese e sistematicamente viene violentata da un padrone italiano che puzza di alcool e di vigliaccheria.
Quanto è emerso lo scorso anno a Ragusa, come è stato già sopra ricordato, racconta di un Paese che è in caduta libera, dal punto di vista etico e politico. A distanza di poco meno di un anno non si sono presi provvedimenti utili per sconfiggere quella forma di riduzione in schiavitù e doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo.
Donne usate per fare soldi e fare sesso. Il governo italiano sembra disinteressato, impegnato come è nel jobs act, figuriamoci cosa gliene importa delle donne immigrate sfruttate e violentate nelle nostre campagne. E infatti, continuano le denunce, i convegni, gli articoli sui giornali, le interrogazioni parlamentari ma di provvedimenti per salvare quelle lavoratrici non se ne vedono.
Nel mentre molte donne rumene continuano ogni giorno ad essere costrette a prostituirsi con il datore di lavoro che le ricatta di licenziamento se non si concedono alle sue perversioni. Abusi e sfruttamenti si perpetuano nelle campagne siciliane, tra le serre e i campi aperti. Se ti rivolti perdi il lavoro, l'alloggio, la possibilità di inviare pochi soldi a casa, ovunque essa sia, di mantenere i figli.
Fare una stima del numero delle donne che vivono queste continue violazioni è impossibile. Molte lavorano in nero e non denunciano per paura delle conseguenze, subiscono in silenzio le violenze e addirittura arrivano anche al concepimento. L'emergenza riguarda anche gli aborti. Secondo stime approssimative si tratta di circa cinque o sei interruzioni alla settimana, a cui si aggiungono gli aborti clandestini sul territorio e quelli effettuati in altre strutture provinciali.
Le donne migranti braccianti dell'Est Europa, non solo rumene ma anche ucraine e, in passato, polacche, insediatesi soprattutto nel meridione d'Italia sono quasi pari a quella degli uomini. Si tratta però di lavoratrici vulnerabili, sottopagate, soggette a ricatti sessuali e occupazionali che mostrano la natura para schiavistica e sessista del capitalismo moderno. Donne che mediamente percepiscono 25-35 euro giornalieri per otto e più ore di lavoro, mentre i loro compagni di lavoro uomini arrivano ai 45-55 euro; spesso costrette a prostituirsi per 15-20 euro con il loro datore di lavoro.
Le prestazioni sessuali derivano dal ricatto della miseria, dovuto a salari miseri, alla mancanza di strumenti adeguati per uscire dallo sfruttamento lavorativo e dal ricatto occupazionale. Senza dimenticare che il passo dalla prostituzione indotta alla violenza sessuale è davvero breve. Se ci stai prendi 20 euro, altrimenti ti prendo uguale altrimenti ti licenzio. Così ragionano alcuni padroni italiani. Secondo Medici senza Frontiere, oltre la metà degli stranieri impiegati come braccianti agricoli non ha un permesso di soggiorno, a cui si aggiunge un 25% di persone con un regolare permesso per richiesta d'asilo, alle quali, ai sensi della legge italiana, non è consentito lavorare.
Per una donna, essere irregolare vuol dire essere soggetta alla minaccia di essere denunciata e di conseguenza spesso rimpatriata se non si accettano i rapporti sessuali. Pochi si occupano del tema. Se c'è un doppio sfruttamento (in quanto donna e in quanto straniera), se ciò si manifesta ancora in modo duplice soprattutto nelle nostre campagne (in quanto sfruttata lavorativamente e sessualmente), si manifesta di contro una sorta di quasi impenetrabile pregiudizio: in quanto donne, braccianti, straniere risultano le più invisibili tra gli invisibili. E si sa dei fantasmi non si occupa mai nessuno. Semplicemente non esistono.
Fantasmi, donne trasparenti, vittime della nostra colpevole ignavia e di una fame di profitto e di potere che ricorda gli anni bui del fascismo. Qualcuno diceva "lavoratori di tutti il mondo unitevi", si riferiva agli uomini e anche alle donne. Iniziare ad aggregare, a tenere insieme, a unire le migliaia di lavoratrici schiavizzate nei nostri campi e spesso costrette a forme varie di violenza genererebbe un passo in avanti che sconvolgerebbe i piani dei padroni e di questo governo. Vale la pena provarci, anche a costo di rischiare di essere classificati tra "i danni collaterali". Meglio combattere questa battaglie che essere parte di questo sistema.
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