lunedì 26 settembre 2016

Colpa di noi maschi se troppe madri lasciano il lavoro di Beppe Severgnini

Silvia P. è un nome di fantasia. La storia che racconta non è fantasiosa né fantastica. È il resoconto amaro della lotta di moltissime mamme. Non tutte, forse, saprebbero descriverla come Silvia. Ma tutte hanno pensato cose simili, sofferto le stesse frustrazioni, provato le stesse tentazioni: basta, mollo tutto. Maternità e carriera, al di fuori delle illusioni nei convegni, non sono compatibili.
Non è un problema solo italiano.
Nel 2012 l'americana Anne-Marie Slaughter, un'analista di politica estera, pubblicò, su The Atlantic, «Why Women Still Can't Have it All» (Perché le donne ancora non possono avere tutto), e impose la questione sulla scena internazionale. Nei primi quattro giorni, riferisce Wikipedia, «il pezzo attirò 725.000 lettori e 119.000 like su Facebook, facendone l'articolo più letto nella storia della rivista».
La lettera di Silvia, apparsa giovedì su La27ora, in mezza giornata è arrivata a 50.000 like: fate voi i conti.
Perché queste reazioni, a distanza di anni e di un oceano? Perché il problema esiste; parlarne serve a esorcizzarlo, non a risolverlo. La società italiana è ancora dominata dai noi maschi, e le regole le facciamo noi. Regole vuol dire orari, ferie, permessi, promozioni, carriere. Vuol dire sguardi: quelli di chi ti fa capire che andar via presto o arrivare tardi, sai com'è, non va bene.
Una gravidanza non è un impiccio né una malattia. È la vigilia della festa della vita, che tutti dovremmo celebrare come merita. Lo facciamo? No. Le carenze pubbliche le conosciamo. Partiamo dalle cose semplici. I bambini non li porta a scuola lo Spirito Santo, che ha altro da fare. Negli USA ci pensa lo school bus; in Italia tocca ai genitori o ai nonni (quando ci sono). Le aziende - magari le stesse che organizzano convegni sul «valore delle donne» - spesso negano il part-time. Ho trovato una brava collaboratrice, anni fa, perché la radio dove lavorava le ha detto, dopo la nascita della figlia: tempo pieno o dimissioni. Il marito viaggiava per lavoro. Ha dovuto dimettersi. Altro che #fertilityday.
Una società sana capisce che la maternità è un'opportunità. Riccarda Zezza, a TedxMatera, ha titolato così il suo intervento: «Maternity as a Master». Ha ragione. Diventar madri è un master d'alto livello. Si ritorna al lavoro più tenaci, più capaci di affrontare le  difficoltà, più mature. Ma il datore di lavoro deve capirlo. Non è questione di legislazione, che esiste (le poche donne che ne abusano, lo sappiano: danneggiano tutte le altre). È questione di regole del gioco collettivo. Con queste carriere, con queste aspettative, con questi luoghi di lavoro e con questi colleghi, una giovane donna italiana deve scegliere: figli o carriera. C'è una terza via: il sacrificio disumano. Ma non si può e non si deve chiedere.
Grazie dunque, Silvia, d'aver scritto questa lettera. Ieri ci siamo parlati al telefono: sei quella che sembri, una donna speciale. Dichiarandoti sconfitta, hai vinto. Hai aiutato, in poche righe luminose, tante donne come te. Chissà che qualche maschio di potere, leggendole, veda la luce. Non quella della lampada abbronzante: un'altra.
http://27esimaora.corriere.it/16_settembre_23/colpa-noi-maschi-se-troppe-madri-lasciano-lavoro-ee97407c-81b7-11e6-a75e-55268404eade.shtml


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