Tutto ebbe origine dalla Famiglia Bradford, lui, lei e otto figli.
Abitavano a Sacramento, in California, in una casa enorme, e avevano una vita bellissima dentro una serie televisiva dei primi Anni 80.
«Cosa vuoi fare da grande?» mi domandò un giorno candidamente una zia. «La signora Bradford», risposi entusiasta, incurante del singhiozzo strozzato di mia madre che mi sognava libera, emancipata e in carriera.
Se ho avuto uno, due, poi tre figli non è stata colpa, o merito, dell’orologio biologico, della ribellione alle ambizioni materne, di un delirio patriottico o di un maldestro uso della contraccezione ma di un telefilm americano da cui ero ossessionata all’età di 12 anni.
Pensavo che sarebbe stato facile fare tutto: lavorare, essere una brava mamma, sedurre mio marito a giorni alterni, uscire con gli amici, tenere a bada il caos domestico.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di rimanere incinta da lavoratrice dipendente. «Sono felice per te», esclamò il mio capo. «Rientrerai prestissimo, vero?» proseguì. Il senso di colpa diventò la mia cifra stilistica.
Mio marito è uno dei cosiddetti “cervelli in fuga”. Lavora in Inghilterra perché in Italia i giovani ricercatori universitari sono trattati come volontari più che come professionisti e non potevamo permettercelo. Fa il pendolare tra Milano e Londra: niente di più comodo per un ménage familiare che si ispira alla famiglia Bradford.
I nonni non hanno potuto né voluto immolarsi per la sacra causa dei nipoti e forse non sarebbe stato neppure giusto.
Il primo giorno di asilo nido di mio figlio, l’educatrice spiegò che l’inserimento sarebbe durato tre settimane durante le quali sarei dovuta essere sempre disponibile («Ma devo andare in ufficio!» «Converrà che la serenità di suo figlio viene prima di tutto, signora». «Convengo»). Poi aggiunse che non poteva accettare il bambino se non avessi ricamato il suo nome e cucito i cappiolini sugli asciugamani. Quando replicai che non sapevo ricamare né cucire e neppure il significato del sostantivo “cappiolino”, lei scosse la testa e il mio senso di colpa si trasformò da cifra stilistica in scafandro.
Negli ultimi 13 anni - perché questa è la mia anzianità di madre nonché l’età del primogenito - ho sviluppato rapporti simbiotici e amorosi con le baby sitter dei miei figli («Se dovessi scegliere tra tuo marito e la tata?» «Non hai un’altra domanda?»), ho fatto salti mortali per partecipare a riunioni di classe e a recite scolastiche («Vi aspettiamo alle quattro». «Ma alle quattro lavoro!» «La vita è questione di priorità, no? E già che c’è, si ricordi di portare carta igienica, fazzoletti di carta e due risme di fogli A4»), ho abbandonato conference call per colpa di febbri improvvise, virus intestinali, pidocchi, ho perso pezzi per strada, sono stata insultata da un’infermiera del consultorio perché, per poter dormire qualche ora la notte, allattavo a orari e non a richiesta, mi sono sentita inadeguata, ho rinunciato al posto fisso, ho risposto centinaia di volte alla domanda: «Non sarebbe meglio che smettessi di lavorare?», chiedendomi perché non viene mai rivolta ai padri.
Ho avuto fortuna: ho tre figli sani e simpatici, un marito presente seppur a intermittenza, un lavoro per entrambi, il tempo pieno a scuola. Se tornassi indietro rifarei tutto.
Eppure in questi tredici anni ho imparato che, come madre, me la devo cavare da sola. Perché i figli, in questo paese non sono considerati responsabilità di entrambi i genitori né tantomeno sono visti come un patrimonio della società tutta. Qui i figli sono solo un problema delle madri. «Li avete voluti? - È il messaggio, costante e inequivocabile -. Adesso cresceteveli e arrangiatevi. Del resto, mica ve lo abbiamo chiesto noi di guardare la Famiglia Bradford, quando eravate piccole».
Elasti alias Claudia de Lillo è autrice di rubriche, blogger e conduttrice radiofonica. Il 20 settembre è uscito il suo quarto libro, «Alla pari» (Einaudi)
http://www.lastampa.it/2016/09/22/italia/speciali/fertility-day/la-solitudine-delle-mamme-6axqY2msp3hVvTSBwNXOYL/pagina.html
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