«Non una di meno». È il grido che, nelle scorse settimane, ha chiamato alla più importante manifestazione femminista di questi anni. Si svolgerà a Roma nelle prossime ore. Appuntamento alle h.14 in Piazza della Repubblica.
È la cresta dell’onda mondiale che, dall’Argentina alla Polonia, va riempiendo strade e piazze, scuotendo governi e opinioni pubbliche. Lo stesso motto «Non una di meno» arriva dal Cono Sur, da quel «Ni una menos» rimbombato a Buenos Aires il 3 giugno scorso. Quel grido arriva a noi accompagnato dalla presentazione di una nuova Internazionale femminista.
A proposito della grande mobilitazione simultanea iniziata ieri – 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne – le compagne argentine scrivono:
«ci riuniremo ed organizzeremo in molteplici e differenti forme: assemblee popolari, radio aperte, escraches, lezioni pubbliche, interruzione delle attività nei luoghi di lavoro, interventi artistici e politici nello spazio urbano […] Confluiremo tutte assieme in una mobilitazione che connette Ciudad Juarez con Mosca, Guayaquil con Belfast, Buenos Aires con Seul e Roma.»
La piazza romana di oggi e l’assemblea di domani chiederanno con forza, tra le altre cose, la profonda revisione del Piano Nazionale Straordinario Antiviolenza, adottato un anno fa dal governo Renzi e giudicato da più parti limitato e ambiguo.
Non una di meno
Ci siamo chiesti: come possiamo contribuire, a modo nostro e nei nostri spazi, a questa mobilitazione?
Nell’appello di Nonunadimeno si legge:
«il femminicidio è solo l’estrema conseguenza della cultura che lo alimenta e lo giustifica. È una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata.»
Ciò è molto più vero di quanto possano comunicare tali parole, per quanto giuste.
Nel femminicidio, disgraziatamente, noi ci viviamo. Da troppo tempo.
Il femminicidio e il punto di vista del femminicida sono nella nostra cultura, annidati in profondità, tanto che non sappiamo più distinguerli dal resto.
Per fare un esempio, quante grandi canzoni descrivono innocentemente, svagatamente, addirittura orgogliosamente l’uccisione di una donna da parte di un uomo?
Quante canzoni adottano punto di vista e autogiustificazione del maschio assassino?
Da Via Broletto a Hey Joe, il femminicidio è orecchiabile, gradevole, fa battere il ritmo col piede, e noi empatizziamo con l’io narrante, specialmente nella versione di Willy DeVille tifiamo per Joe, il femminicida che scappa, che fugge verso il Messico, impunito, libero. Femminicidio è libertà.
«Sto andando verso Sud
giù, dove posso essere libero
Nessuno mi troverà
Nessun boia mi metterà intorno una corda
perché ho sparato alla mia donna…»
Un esempio persino più eclatante, una rappresentazione crudele del femminicidio a cui assistiamo sin da bambini e nessuno ci ha mai insegnato a mettere in discussione, è al centro del documentario Donne a metà di Mariano Tomatis. Ripeschiamo da un vecchio post la descrizione della scena:
«un maschio vestito di tutto punto – abbigliato per ostentare potere – lega una donna seminuda, la chiude in una cassa, la sevizia e la sega in due senza che la vittima metta mai in discussione il proprio ruolo e la sorte che deve subire. È la rappresentazione acritica di un femminicidio. È il supplizio della Dalia Nera, ma prima [di Donne a metà] ben pochi ci avevano fatto caso […] Che figata, una donna immobilizzata, infilzata da lame e segata in due! Applausi.»
Di Donne a metà la collega Michela Murgia ha scritto: «Guardatelo e diventerà irrilevante scoprire come si taglia una donna in due. Sarà più importante capire il perché.»
Per questo, proprio oggi, ne riparliamo, e lo consigliamo. Quello che noi maschi possiamo fare è curarci lo sguardo. Fare ogni giorno ginnastica oculare, per imparare a vedere il femminicidio, per metterlo a fuoco. Buona visione.
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