«Hate speech»,
discorso dell’odio. È così che in inglese si parla degli insulti.
Quegli «atti linguistici» particolari che non servono solo a
«dire», ma anche a «fare» qualcosa. Ossia ad offendere, a ferire,
a far male. Perché quando si insulta una persona, lo scopo non è
affatto quello di manifestare il proprio disaccordo e dialogare con
l’interlocutore, ma piuttosto quello di togliergli le parole di
bocca e farlo tacere.
Sono anni che lo
insegno ai miei studenti a Parigi. Sono anni che mi sforzo di
spiegare, come diceva il grande Albert Camus, che è solo quando si
utilizzano le parole in modo corretto che si riesce poi a diminuire
la quantità di disordine e di dolore che c’è nel mondo. Ecco
perché la lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni passa
anche attraverso l’attenzione che si pone al linguaggio. Ecco
perché gli insulti legati al razzismo, all’omofobia o al
maschilismo contribuiscono solo a peggiorare le condizioni di chi,
«diverso», non corrisponde agli stereotipi.
Quello che non avrei
mai immaginato, però, è il sentimento di desolazione che avrei io
stessa provato di fronte questi insulti. Come è accaduto ieri sera
alla Camera, durante la riunione serale della Commissione Giustizia.
Dopo una giornata di ostruzionismo e dibattiti molto duri in Aula,
conclusasi con l’assalto alla Presidenza da parte dei colleghi del
M5S, si dovevano votare gli emendamenti al decreto legge sulle
carceri. Invece di votare, però, il clima in Commissione ha
cominciato subito a degenerare. Accuse reciproche di ostacoli al
lavoro democratico. Invettive. Urla. Fino agli insulti.
«Voi donne del PD
siete qui perché siete brave solo a fare i pompini», urla Massimo
Felice De Rosa prima di essere allontanato dai commessi. Prima di
altre urla. Perché poi è sempre così che finisce quando ci si
insulta. A meno di non restare bloccati nel mutismo, come mi è
accaduto. Impotente. Terribilmente impotente.
Le parole sono pietre,
diceva già Carlo Levi. Ed è come una pietra che mi è arrivata
addosso questa frase, lasciandomi senza parole. Prima di realizzare
che tutto quello per cui mi sono battuta da sempre mi si stava
sbriciolando in mano. Prima di riprendermi pian piano e decidere di
sporgere denuncia con le altre colleghe del PD. Prima di capire che
il solo modo di reagire per denunciare queste pratiche sessiste è
riappropriarsi della parola e manifestare la propria soggettività,
nonostante il tentativo altrui di farci tacere.
«Noi rappresentiamo i
cittadini, voi siete il male assoluto». Era così che era iniziato
tutto. Da chi rivendica sempre pacifismo e volontà di cambiare le
cose democraticamente. Quanta democrazia e pacifismo c’è dietro la
violenza degli insulti?
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