venerdì 31 gennaio 2014

La testimonianza di Michela Marzano, una delle 7 deputate Pd bersaglio del deputato M5S Massimo De Rosa



«Hate speech», discorso dell’odio. È così che in inglese si parla degli insulti. Quegli «atti linguistici» particolari che non servono solo a «dire», ma anche a «fare» qualcosa. Ossia ad offendere, a ferire, a far male. Perché quando si insulta una persona, lo scopo non è affatto quello di manifestare il proprio disaccordo e dialogare con l’interlocutore, ma piuttosto quello di togliergli le parole di bocca e farlo tacere.
Sono anni che lo insegno ai miei studenti a Parigi. Sono anni che mi sforzo di spiegare, come diceva il grande Albert Camus, che è solo quando si utilizzano le parole in modo corretto che si riesce poi a diminuire la quantità di disordine e di dolore che c’è nel mondo. Ecco perché la lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni passa anche attraverso l’attenzione che si pone al linguaggio. Ecco perché gli insulti legati al razzismo, all’omofobia o al maschilismo contribuiscono solo a peggiorare le condizioni di chi, «diverso», non corrisponde agli stereotipi.
Quello che non avrei mai immaginato, però, è il sentimento di desolazione che avrei io stessa provato di fronte questi insulti. Come è accaduto ieri sera alla Camera, durante la riunione serale della Commissione Giustizia. Dopo una giornata di ostruzionismo e dibattiti molto duri in Aula, conclusasi con l’assalto alla Presidenza da parte dei colleghi del M5S, si dovevano votare gli emendamenti al decreto legge sulle carceri. Invece di votare, però, il clima in Commissione ha cominciato subito a degenerare. Accuse reciproche di ostacoli al lavoro democratico. Invettive. Urla. Fino agli insulti.
 «Voi donne del PD siete qui perché siete brave solo a fare i pompini», urla Massimo Felice De Rosa prima di essere allontanato dai commessi. Prima di altre urla. Perché poi è sempre così che finisce quando ci si insulta. A meno di non restare bloccati nel mutismo, come mi è accaduto. Impotente. Terribilmente impotente.
Le parole sono pietre, diceva già Carlo Levi. Ed è come una pietra che mi è arrivata addosso questa frase, lasciandomi senza parole. Prima di realizzare che tutto quello per cui mi sono battuta da sempre mi si stava sbriciolando in mano. Prima di riprendermi pian piano e decidere di sporgere denuncia con le altre colleghe del PD. Prima di capire che il solo modo di reagire per denunciare queste pratiche sessiste è riappropriarsi della parola e manifestare la propria soggettività, nonostante il tentativo altrui di farci tacere.
«Noi rappresentiamo i cittadini, voi siete il male assoluto». Era così che era iniziato tutto. Da chi rivendica sempre pacifismo e volontà di cambiare le cose democraticamente. Quanta democrazia e pacifismo c’è dietro la violenza degli insulti?

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