giovedì 10 luglio 2014

In Italia il lavoro paga di più, ma la differenza con gli uomini aumenterà di Corinna De Cesare e Rita Querzè



Lo sciopero delle sottane. Era il 1968 della Primavera di Praga e delle occupazioni studentesche, I Beatles cantavano Lady Madonna e in un piccolo laboratorio di Dagenham, contea di Essex a est di Londra, un gruppo di 187 operaie della Ford scioperava per avere lo stesso trattamento salariale dei 55 mila colleghi uomini. «Lo sciopero delle sottane» fu il sarcastico titolo del Mirror. Il ministro del Lavoro Barbara Castle incontrò le ragazze di Dagenham e due anni dopo fece approvare in Gran Bretagna l’Equal pay act. Sono passati più di 40 anni da allora, le ragazze della Ford hanno ispirato un film di successo («We want sex»), la parità retributiva è sancita da innumerevoli trattati ma il divario salariale uomo donna continua a essere d’attualità. La Commissione europea, per la seconda volta consecutiva, ha fatto cadere nel 2014 la Giornata per la parità retributiva nell’ultimo giorno di febbraio «perché è come se le donne lavorassero gratis per i primi due mesi dell’anno». Da quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata per la parità, il divario salariale in Europa è passato dal 17,5% al 16,4%.

«Ma il lieve miglioramento degli ultimi 4 anni — hanno subito precisato da Bruxelles — è in buona parte attribuibile alla crisi economica e ai suoi effetti su settori occupazionali tipicamente maschili più che a un aumento dei salari delle donne». Non va meglio fuori dall’Europa: «Le donne sono quasi la metà della forza lavoro — ha scritto l’Institute for women’s policy research di Washington — quattro volte su dieci sono capofamiglia, sono più istruite degli uomini eppure continuano a guadagnare meno». L’istituto di ricerca ha anche analizzato quanto sia diminuito il divario negli ultimi decenni giungendo alla conclusione che se «le cose continuassero ad andare allo stesso ritmo degli ultimi 50 anni, giungeremmo alla parità nel 2058». Nella Gran Bretagna di «We want sex» il divario è ancora al 19,1%, nella Germania della cancelliera Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia siamo al 14,8%. Negli Stati Uniti, nonostante gli annunci del presidente Barack Obama, un impiegato uomo guadagna in media 88.600 dollari all’anno, contro i 78.400 delle donne, il 13% in meno. Tanto che il Washington Post ha pubblicato un approfondimento sul tema titolando: «Le politiche sul divario retributivo restano intrappolate alla Casa Bianca».

La situazione in Italia E in nel nostro Paese? Con sorpresa, secondo i dati pubblicati dalla Commissione europea, il divario salariale uomo donna è da noi fermo al 6,7%. Eppure c’è poco da festeggiare: basta infatti confrontarsi con qualsiasi esperto di gender economy per capire che su questi numeri qualcosa non torna. «Sono basati su medie che non tengono conto del basso tasso di occupazione femminile fermo da noi al 46% — spiega Roberta Zizza, economista della Banca d’Italia, che al gender pay gap ha dedicato un lavoro nel 2013 —. Il campione delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari, è selezionato positivamente: comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse». Non solo: analizzando il dato che gli esperti definiscono «grezzo», si scopre che il divario retributivo in Italia, anziché diminuire, con il passare degli anni aumenta. Nelle tabelle Eurostat era al 4,9% nel 2008, poi salito nel 2009 (5,5%) e negli anni successivi fino ad arrivare al 6,7% del 2014. Il rischio che la situazione peggiori L’analisi di Roberta Zizza è in linea con i lavori di due ricercatrici di origine italiana che lavorano all’estero, Barbara Petrongolo (London School of economics) e Claudia Olivetti (Boston University). Sulla stessa lunghezza d’onda anche Daniela Del Boca, economista dell’Università di Torino. « È vero, quando si fa un confronto tra le retribuzioni di un uomo e di una donna nello stesso settore, a parità di qualifica e di servizio, si scopre che il gap si aggira intorno al 6%. Che è sempre troppo, intendiamoci. Ma il punto è che queste percentuali calzano se si parla del lavoro in grandi aziende e a livelli professionali medio alti. Se si inglobassero anche le professionalità più basse, la nostra situazione non sarebbe diversa da quella degli altri Paesi europei».

Per affiancare alla raffinatezza di analisi degli studi accademici, l’informazione grezza che arriva dalle buste paga, si può dare un’occhiata ai dati raccolti da Od&M consulting, società che fa capo a Gi Group, sugli stipendi di poco meno di 400 mila lavoratori dal 2009 a oggi. Si scoprirà che in effetti la differenza di stipendio è maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti e quadri si attestano rispettivamente al 9,3 e 5,9%. «Il punto è anche che negli anni della crisi il divario tra gli stipendi di uomini e donne non è affatto diminuito», fa notare Simonetta Cavasin, direttore generale di Od&M. L’impatto del «fattore F» Quali sono gli ostacoli da rimuovere per avere una reale parità retributiva? E come contrastare una tendenza che potrebbe addirittura far crescere il divario nei prossimi anni? Su un punto gli economisti sono d’accordo con i direttori del personale: bisogna convincere le ragazze a non scartare a priori — come avviene spesso oggi — gli studi e i settori meglio retribuiti. Abbiamo troppe insegnanti e poche ingegnere. Troppe addette al personale e poche commerciali. Questa realtà è frutto di forme di autocensura che cominciano sui banchi di scuola.

Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea il gender pay gap si palesa subito dopo la discussione della tesi: in Italia a un anno dal titolo gli uomini guadagnano in media il 32% in più ̀delle loro colleghe (1.194 euro contro 906 in termini nominale). Il consorzio ha analizzato i dati dei laureati magistrali del 2008 e ha scoperto che a cinque anni dalla laurea, il divario aumenta al 31% (1.587 contro 1.211 euro). Su questa realtà pesa anche un’altra questione, meno dibattuta. Le donne sono più disponibili degli uomini ai contratti flessibili. Il problema è che i contratti flessibili mediamente sono ancora meno retribuiti. E garantiscono un flusso di entrate più incerto. «La situazione è esattamente quella appena descritta — constata anche Paolo Iacci, dell’Associazione italiana direttori del personale —. Attenzione, però: pensare di compensare il gap riportando le donne su posti di lavoro più stabili sarebbe irrealistico. Per come sta andando il mercato del lavoro, è molto più probabile che la flessibilità aumenti anche per gli uomini, come già avviene nei Paesi del Nord Europa». Insomma, fatta eccezione per poche professionalità con forte potere contrattuale, è più facile che siano gli uomini (seppure controvoglia) ad allinearsi alla flessibilità delle donne. Certo l’attuale disparità di trattamento, porterà con sé un ulteriore sperequazione in prospettiva, in materia di pensioni. Per finire, un po’ di responsabilità in tutta questa situazione è anche in capo alle donne. Meno capaci di farsi avanti con il capo del personale per chiedere l’aumento.

«Per carità, tutto vero — osserva Simona Cuomo, dell’osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi di Milano —. Però va detto che le donne in materia di stipendi sembrano condannate all’inadeguatezza. Se non chiediamo l’aumento siamo considerate poco determinate e consapevoli. Se lo chiediamo l’assertività viene scambiata per arroganza». Troppo timide o troppo arroganti. Visto che tocca scegliere, non sarà forse meglio la seconda possibilità?

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