Lo sciopero delle
sottane. Era il 1968 della Primavera di Praga e delle occupazioni
studentesche, I Beatles cantavano Lady Madonna e in un piccolo
laboratorio di Dagenham, contea di Essex a est di Londra, un gruppo
di 187 operaie della Ford scioperava per avere lo stesso trattamento
salariale dei 55 mila colleghi uomini. «Lo sciopero delle sottane»
fu il sarcastico titolo del Mirror. Il ministro del Lavoro Barbara
Castle incontrò le ragazze di Dagenham e due anni dopo fece
approvare in Gran Bretagna l’Equal pay act. Sono passati più di 40
anni da allora, le ragazze della Ford hanno ispirato un film di
successo («We want sex»), la parità retributiva è sancita da
innumerevoli trattati ma il divario salariale uomo donna continua a
essere d’attualità. La Commissione europea, per la seconda volta
consecutiva, ha fatto cadere nel 2014 la Giornata per la parità
retributiva nell’ultimo giorno di febbraio «perché è come se le
donne lavorassero gratis per i primi due mesi dell’anno». Da
quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata per la parità, il
divario salariale in Europa è passato dal 17,5% al 16,4%.
«Ma il lieve
miglioramento degli ultimi 4 anni — hanno subito precisato da
Bruxelles — è in buona parte attribuibile alla crisi economica e
ai suoi effetti su settori occupazionali tipicamente maschili più
che a un aumento dei salari delle donne». Non va meglio fuori
dall’Europa: «Le donne sono quasi la metà della forza lavoro —
ha scritto l’Institute for women’s policy research di Washington
— quattro volte su dieci sono capofamiglia, sono più istruite
degli uomini eppure continuano a guadagnare meno». L’istituto di
ricerca ha anche analizzato quanto sia diminuito il divario negli
ultimi decenni giungendo alla conclusione che se «le cose
continuassero ad andare allo stesso ritmo degli ultimi 50 anni,
giungeremmo alla parità nel 2058». Nella Gran Bretagna di «We want
sex» il divario è ancora al 19,1%, nella Germania della cancelliera
Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia siamo al 14,8%.
Negli Stati Uniti, nonostante gli annunci del presidente Barack
Obama, un impiegato uomo guadagna in media 88.600 dollari all’anno,
contro i 78.400 delle donne, il 13% in meno. Tanto che il Washington
Post ha pubblicato un approfondimento sul tema titolando: «Le
politiche sul divario retributivo restano intrappolate alla Casa
Bianca».
La situazione in Italia
E in nel nostro Paese? Con sorpresa, secondo i dati pubblicati dalla
Commissione europea, il divario salariale uomo donna è da noi fermo
al 6,7%. Eppure c’è poco da festeggiare: basta infatti
confrontarsi con qualsiasi esperto di gender economy per capire che
su questi numeri qualcosa non torna. «Sono basati su medie che non
tengono conto del basso tasso di occupazione femminile fermo da noi
al 46% — spiega Roberta Zizza, economista della Banca d’Italia,
che al gender pay gap ha dedicato un lavoro nel 2013 —. Il campione
delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari,
è selezionato positivamente: comprende in misura relativamente
maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro
caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse».
Non solo: analizzando il dato che gli esperti definiscono «grezzo»,
si scopre che il divario retributivo in Italia, anziché diminuire,
con il passare degli anni aumenta. Nelle tabelle Eurostat era al 4,9%
nel 2008, poi salito nel 2009 (5,5%) e negli anni successivi fino ad
arrivare al 6,7% del 2014. Il rischio che la situazione peggiori
L’analisi di Roberta Zizza è in linea con i lavori di due
ricercatrici di origine italiana che lavorano all’estero, Barbara
Petrongolo (London School of economics) e Claudia Olivetti (Boston
University). Sulla stessa lunghezza d’onda anche Daniela Del Boca,
economista dell’Università di Torino. « È vero, quando si fa un
confronto tra le retribuzioni di un uomo e di una donna nello stesso
settore, a parità di qualifica e di servizio, si scopre che il gap
si aggira intorno al 6%. Che è sempre troppo, intendiamoci. Ma il
punto è che queste percentuali calzano se si parla del lavoro in
grandi aziende e a livelli professionali medio alti. Se si
inglobassero anche le professionalità più basse, la nostra
situazione non sarebbe diversa da quella degli altri Paesi europei».
Per affiancare alla
raffinatezza di analisi degli studi accademici, l’informazione
grezza che arriva dalle buste paga, si può dare un’occhiata ai
dati raccolti da Od&M consulting, società che fa capo a Gi
Group, sugli stipendi di poco meno di 400 mila lavoratori dal 2009 a
oggi. Si scoprirà che in effetti la differenza di stipendio è
maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati
raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti
e quadri si attestano rispettivamente al 9,3 e 5,9%. «Il punto è
anche che negli anni della crisi il divario tra gli stipendi di
uomini e donne non è affatto diminuito», fa notare Simonetta
Cavasin, direttore generale di Od&M. L’impatto del «fattore F»
Quali sono gli ostacoli da rimuovere per avere una reale parità
retributiva? E come contrastare una tendenza che potrebbe addirittura
far crescere il divario nei prossimi anni? Su un punto gli economisti
sono d’accordo con i direttori del personale: bisogna convincere le
ragazze a non scartare a priori — come avviene spesso oggi — gli
studi e i settori meglio retribuiti. Abbiamo troppe insegnanti e
poche ingegnere. Troppe addette al personale e poche commerciali.
Questa realtà è frutto di forme di autocensura che cominciano sui
banchi di scuola.
Secondo l’ultimo
rapporto Almalaurea il gender pay gap si palesa subito dopo la
discussione della tesi: in Italia a un anno dal titolo gli uomini
guadagnano in media il 32% in più ̀delle loro colleghe (1.194 euro
contro 906 in termini nominale). Il consorzio ha analizzato i dati
dei laureati magistrali del 2008 e ha scoperto che a cinque anni
dalla laurea, il divario aumenta al 31% (1.587 contro 1.211 euro). Su
questa realtà pesa anche un’altra questione, meno dibattuta. Le
donne sono più disponibili degli uomini ai contratti flessibili. Il
problema è che i contratti flessibili mediamente sono ancora meno
retribuiti. E garantiscono un flusso di entrate più incerto. «La
situazione è esattamente quella appena descritta — constata anche
Paolo Iacci, dell’Associazione italiana direttori del personale —.
Attenzione, però: pensare di compensare il gap riportando le donne
su posti di lavoro più stabili sarebbe irrealistico. Per come sta
andando il mercato del lavoro, è molto più probabile che la
flessibilità aumenti anche per gli uomini, come già avviene nei
Paesi del Nord Europa». Insomma, fatta eccezione per poche
professionalità con forte potere contrattuale, è più facile che
siano gli uomini (seppure controvoglia) ad allinearsi alla
flessibilità delle donne. Certo l’attuale disparità di
trattamento, porterà con sé un ulteriore sperequazione in
prospettiva, in materia di pensioni. Per finire, un po’ di
responsabilità in tutta questa situazione è anche in capo alle
donne. Meno capaci di farsi avanti con il capo del personale per
chiedere l’aumento.
«Per carità,
tutto vero — osserva Simona Cuomo, dell’osservatorio sul
Diversity management della Sda Bocconi di Milano —. Però va detto
che le donne in materia di stipendi sembrano condannate
all’inadeguatezza. Se non chiediamo l’aumento siamo considerate
poco determinate e consapevoli. Se lo chiediamo l’assertività
viene scambiata per arroganza». Troppo timide o troppo arroganti.
Visto che tocca scegliere, non sarà forse meglio la seconda
possibilità?
Nessun commento:
Posta un commento