Dopo le ormai
‘storiche’ pagine facebook, per non dire dei siti antifemministi
che identificano chiunque lotta per i diritti di genere, o contro la
violenza maschile, come misandrica e nazifem ecco servito l’hashtag
in lingua inglese #womenagainstfeminism, al quale va aggiunto, per
la cronaca, quello #WhyIDontNeedFeminism.
Women-against-feminism
Non è da oggi che si
indaga sull’impatto, la trasmissione e la sedimentazione del
femminismo sulle giovani generazioni; le domande, (e l’angoscia per
le temute risposte), scivolano di volta in volta da donna a donna
quando le giovani che hanno incontrato i movimenti di emancipazione e
liberazione diventano adulte, e nel frattempo si guardano intorno,
verificando i risultati e l’incarnazione delle proprie conquiste
nelle figlie, nelle sorelle minori, nelle allieve, nelle conoscenti e
nella società tutta.
Quando, oggi come ieri,
s’inciampa nella giaculatoria del ‘il femminismo è morto’, o,
come in questo caso, del ‘io non ho bisogno del femminismo’ è
interessante ragionare su quale sia la genesi di queste affermazioni,
e lo scopo che hanno. Una prima considerazione è che la
banalizzazione di ogni pensiero è sempre in agguato, frutto
dell’ignoranza e della superficialità, a sua volta indotte dalla
velocizzazione dell’era tecnologica.
Libere di dire che non
c’è bisogno del femminismo: ma è ridicolo ignorare che, se
milioni di giovani donne oggi esprimono una loro opinione (non ancora
dovunque nel mondo, dove altrettante milioni non possono farlo, e se
ci provano rischiano anche la morte) questa libertà è decisamente
frutto del femminismo.
In molti dei cartelli
delle giovani contestatrici (che adottano le identiche modalità
delle sorelle profeminism, come in questo progetto) c’è la
confusione tra diritti ottenuti (prima inesistenti, come la parità
sul lavoro, in famiglia, il divorzio, o l’interruzione di
gravidanza) e la prevaricazione: avere pari diritti e doveri non è
voler male all’altro. Significa poter esistere senza essere
considerate una appendice, una brutta copia o una declinazione
imperfetta rispetto all’originale (il maschile).
Nella superficiale
strumentalizzazione della comunicazione di cosa sia il femminismo (e
di chi siano le femministe) c’è un punto che penso sia centrale:
molte delle giovani che si dicono antifemministe sostengono di
esserlo perché non si sentono vittime. Mi pare che questo sia
importante: non far sentire le donne come vittime, come fragili, come
deboli e necessitanti tutela è stato uno tra i primi scopi del
percorso femminista.
Per quanto ingrate e
ignoranti nel liquidare la fatica di chi le ha precedute (ma anche da
compatire, perché ignare della bellezza, del divertimento e della
magica condivisione che le maggiori hanno potuto apprezzare stando
nel femminismo, dicendosi femministe, e continuando ad esserlo)
queste giovani piene di iniziativa sono le migliori (inconsapevoli,
come spesso accade alle figlie ingrate) testimoni del successo del
femminismo.
Così come in maniera
gioiosa si dicono femministe molte giovani (e anche qualche uomo) nel
video del più grande giornale femminista al mondo, Ms magazine anche
le antagoniste sono libere di dirsi.
In questo caso di dirsi
contro un pensiero di liberazione, quale il femminismo è: dal mio
punto di vista farlo è rischioso perché poco vale la libertà
individuale se non la si connette con la responsabilità sociale
delle proprie azioni. Altro punto debole del rifiuto del tesoro di
diritti acquisiti è la fiducia incondizionata nella sola
soggettività individuale e la negazione del valore del collettivo,
quindi della storia sociale delle donne e della genealogia politica
dalla quale si proviene, ma sempre di libertà si tratta. E, per una
femminista, vederla praticata da giovani donne, per quanto in
direzione opposta, è una bella vittoria.
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