«La presidenza va al marito dell’assessore», oppure «Il sindaco di Cosenza: aspetto un figlio! Il segretario Ds: Il padre sono io». E ancora «Marianna Madia, il ministro è incinta». Suscitano ilarità e sconcerto questi accostamenti linguistici nei media che non tengono conto del genere. Salvo trasformarsi repentinamente in scelte grammaticali ineccepibili quando la connotazione è ironica: ecco che spunta la giudice licenziata in tronco perché si era tolta i vestiti nel suo ufficio per prendere il sole. Oppure c’è la aspirante sindaca nel pezzo che deride Nathalie Kosciusko-Morizet fotografata mentre fuma insieme ad alcuni clochard. Sono esempi significativi tratti dal manuale “Donne, grammatica e media”, fortemente voluto dall’associazione di giornaliste GiULiA, che viene presentato venerdì 11 luglio, alle ore 10,30, nella sala Aldo Moro della Camera dei Deputati. Così sappiamo che è corretto dire ingegnera e chirurga, architetta e ministra, senatrice e prefetta.
E avvocata è preferibile ad avvocatessa, mentre professoressa resta in auge come studentessa e dottoressa, ormai entrate nell’uso comune. A delineare il nuovo dizionario italiano declinato secondo il genere è Cecilia Robustelli, docente di linguistica italiana all’Università di Modena. Che con voce autorevole fa una serie di proposte operative per superare ogni perplessità – eliminando anche l’alibi del suono strano o anti-estetico – circa l’adozione del genere femminile per nomi professionali e istituzionali “alti”, suggerendo soluzioni di facile applicazione, come nota Nicoletta Maraschio presidente onoraria dell’Accademia della Crusca.
Ha dato un forte segnale in questo senso Laura Boldrini, che sul sito del Parlamento si definisce la presidente:
«Se io attribuissi ad un uomo una connotazione femminile quell’uomo si ribellerebbe. Allora il rispetto passa anche attraverso la restituzione del genere»
Ci aveva provato quasi trent’anni fa Alma Sabatini con le sue “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”.
«Alcune erano proposte lessicali e sintattiche difficili da accettare, andavano fin troppo contro la tradizione e la grammatica – nota Cecilia Robustelli – per esempio in presenza di nomi maschili e femminili, si concordava al femminile se nella frase le femmine erano più dei maschi».
«Era una riflessione molto complessa per i tempi, anche l’assoluta condanna verso la desinenza in “essa” vista come dispregiativa oggi appare superata. Probabilmente risuonavano all’orecchio di Alma Sabatini le definizioni piene di scherno di inizio ‘900, le “pettorute deputatesse” di Alfredo Panzini»
Così la stampa si scaglia contro il suo lavoro, ridicolizzandolo. “Ah, ah, dovremmo scrivere professora!”. E per quasi trent’anni le riflessioni sul linguaggio sessista restano in soffitta. L’incertezza e le continue oscillazioni sono coltivate dalle stesse istituzioni. «Se arriva un comunicato da Palazzo Chigi che parla del ministro Roberta Pinotti, è facile che la “o” resti tale. Anche in passato a voler essere chiamata senatrice è stata soltanto Franca Falcucci nel 1974, una mosca bianca!» prosegue Cecilia Robustelli.
«Mi fa sorridere la ministra Maria Elena Boschi, che interrogata da Daria Bignardi risponde “preferisco essere chiamata ministro”. Ma non esistono due opzioni, il genere è un parametro fisso come lo è un numero, è un meccanismo regolatore della nostra lingua»
Le proposte sono ispirate a gradualità e buon senso. Per esempio viene ammessa “un’abitudine innocua” come quella di definire il nome proprio femminile con l’articolo, come la Merkel, la Mogherini, in quanto sottintenderebbe un “la famosa” e peraltro appartiene alla tradizione linguistica fiorentina. E se la parola “recensora” appare troppo audace, si può sempre usare la perifrasi colei che fa la recensione.
Ma com’è nata l’idea di questa guida? Risponde Maria Teresa Manuelli, che ha progettato e curato il volume: «Venivamo spesso interpellate dai colleghi “ma qual è il femminile di fabbro?”, “si può dire rettrice?”… Così, confrontandoci durante l’assemblea nazionale di GiULia è emersa l’esigenza di chiamare le cose con il loro nome. Anche perché gli errori e i dubbi spesso non nascevano da un atteggiamento sessista o da cattiva volontà, bensì da semplice ignoranza. Ma è solo l’inizio, non siamo entrate nel merito di dissimmetrie semantiche fondate su stereotipi, la donna svenevole, fragile o isterica, la mogliettina, la stellina, il dottor Rossi e signora e via di questo passo».
Punta il dito contro una visione androcentrica e una forse inconsapevole pigrizia mentale Sergio Lepri, storico direttore dell’Ansa, che racconta: «Se l’Ansa scriveva “la presidente Jotti” e non “il presidente Jotti” come l’interessata in un primo tempo voleva, i giornali scrivevano “la presidente Jotti”; e alla fine anche Nilde Jotti accettò di essere chiamata “la presidente”». Diversamente dalla senatrice Susanna Agnelli che voleva a tutti i costi essere chiamata senatore e si risentì molto per la definizione al femminile. Ma, fa notare Lepri, solo da noi le forme femminili non sono accettate. In Francia si dice regolarmente “la ministre”, “la présidente”, “la juge”, “la conseillère”; in Germania Angela Merkel è “kanzlerin”, la ministra è “ministerin”. Quanto alla Spagna, hanno addirittura “la presidenta”, “la profesora”, con l’autorità che viene dalla Real Academia Española…
Eppure, la strada da percorre è ancora lunga: secondo il recente sondaggio Linguaggio e stereotipi di genere, diffuso in rete da Se non ora quando Genova, è forte la resistenza al cambiamento sia da parte degli uomini, sia delle donne. Alla domanda “quando ti riferisci a una donna e al suo mestiere, usi la lingua italiana declinata al femminile?”, il 22,87% per cento del campione ha risposto “mai”; il 33,58% “qualche volta”; il 27,49% “spesso” e il 16,06% “sempre”. Tra le motivazioni di chi rifiuta il cambiamento, una donna ha addotto “il lavoro è un lavoro, non un genere”, mentre un uomo ha definito una “violenza femminista” declinare i nomi al femminile, e poi chiamare una donna chirurga o architetta sarebbe riduttivo per la donna stessa!
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