lunedì 29 gennaio 2018

Chiara Saraceno: "La cultura maschilista prevale, l'Italia è impreparata a dare riconoscimenti alle donne qualificate" di Flavia Piccinni

La sociologa e filosofa parla ad HuffPost: "Stereotipi di genere rigidi, una divisione del lavoro famigliare asimmetrica, una cultura aziendale maschilista, politiche di conciliazione scarse o assenti"
"Siamo una società che invecchia e per questo poggerà sempre più sulle spalle di chi è in età da lavoro" esordisce così la sociologa e filosofa Chiara Saraceno, quando le chiedo degli squilibri che affliggono il nostro Paese. "Anche per questo – continua - il contributo dei migranti diventa fondamentale. Sono mediamente giovani, quindi in età da lavoro ed anche di fecondità, quindi in grado di contribuire doppiamente all'oggi e al domani della nostra società: nel lavoro e nella demografia. Perché questo contributo possa pienamente realizzarsi occorre che siano date ai migranti possibilità reali di integrazione, di riconoscimento e arricchimento del loro capitale umano, che ai loro figli vengano riconosciuti, se lo desiderano, i pieni diritti di cittadinanza". La riflessione di Chiara Saraceno ha aperto discussioni su più fronti, ed è ampiamente contenuta nel suo ultimo lavoro pubblicato per Laterza, L'equivoco della famiglia, nel quale ha indagato i limiti, i compromessi e il futuro dei nuclei famigliari italiani.

Nel suo ultimo saggio nota come "le politiche sociali per le famiglie concretamente esistenti sono molto scarse, con conseguenze gravi per il futuro di tutti". Ma a pagare il prezzo più caro non sono forse i giovani?
L'unica scelta politica fatta effettivamente in nome dei giovani, per non gravare eccessivamente su di loro, è la riforma delle pensioni. La più odiata non solo per il disastro degli esodati, ma perché ha allungato, forse in modo troppo semplicistico e soprattutto in modo più radicale per le donne che per gli uomini, il tempo del lavoro necessario prima di andare in pensione. Solo di recente è stato sollevato, dalla CGIL, il problema di quale pensione potranno avere coloro che sono oggi giovani e hanno carriere lavorative e contributive interrotte e povere. Ma questo tema non è al centro del dibattito politico e neppure della agenda elettorale dei vari partiti, tutti preoccupati di garantirsi il voto degli anziani, più numerosi.

Non è neppure al centro della mobilitazione giovanile.
Adesso i giovani sono giustamente preoccupati dell'oggi, dall'accedere a un lavoro che garantisca loro, prima di una pensione futura, un reddito decente e un orizzonte temporale abbastanza lungo per poter fare progetti di vita. Aggiungo che spesso il conflitto generazionale che si dà oggettivamente in società è composto in famiglia, nella misura in cui è spesso il reddito, inclusa la pensione dei vecchi, che consente ai giovani di reggere l'intermittenza delle occupazioni e/o di poter uscire di casa per formarsi una famiglia. Siamo al punto che oggi molti genitori che se lo possono permettere stipulano polizze per garantire una pensione integrativa ai figli o gli studi universitari ai nipoti. Rafforzando in questo modo la riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze. La sfiducia nella politica nasce anche da qui, dalla sensazione che si possa contare solo su soluzioni e risorse private, oltre che dallo spettacolo di trasformismi e conflitti che spesso poco o nulla hanno a che fare con la vita quotidiana e i bisogni dei cittadini, anche se spesso ne cavalcano gli umori e ne sfruttano il particolarismo.

A questo punto sembra che l'unico destino sia lavorare fino a 75 anni.
Premetto che fino a qualche anno fa, e per le persone della mia generazione (ultrasettantenne), lavorare fino a 75 anni era il privilegio di alcune professioni: i magistrati, i professori universitari. I vescovi, nella Chiesa cattolica, potevano rimanere a capo della loro diocesi anche oltre quell'età. Paradossalmente, al progressivo innalzarsi dell'età alla pensione di vecchiaia per motivi demografico-attuariali, che riguarda professioni meno prestigiose e sicuramente spesso fisicamente più faticose, si è accompagnata l'eliminazione di quel privilegio. Salvo farlo ritornare progressivamente come obbligo, man mano che si alza l'età alla pensione per tutti.

Qual è il suo punto di vista a riguardo?
Personalmente riterrei più sensato lasciare libertà di andare in pensione quando si vuole entro una finestra che definisca un minimo e un massimo e che tenga conto, per il calcolo della rendita, sia degli anni in più o in meno di godimento della pensione che prevedibilmente questa scelta comporta, sia delle speranze di vita in buona salute connesse a determinate biografie professionali, sia del lavoro di cura effettuato nel corso della vita. Bisognerebbe anche pensare per tempo a spostare lavoratori anziani da mansioni troppo faticose, e rischiose. Dovrebbe essere anche possibile una uscita "dolce", combinando un part time lavorativo con un part time pensionistico. Ma una società che complessivamente, in tutti i suoi attori, non riesce a produrre un contesto amichevole, stimolante, in cui le giovani generazioni - autoctone, migranti, straniere anche se nate qui – si sentano valorizzate e possano pensare il proprio futuro è destinata all'implosione.

Una situazione che penalizza ulteriormente le giovani donne.
Le difficoltà che queste condividono con i coetanei sono ulteriormente amplificate dal fatto che la società italiana, a tutti i livelli, è ancora singolarmente impreparata alla presenza di donne qualificate, che si aspettano di entrare e stare nel mercato del lavoro a pari condizioni con i loro coetanei, anche se e quando decidono di avere un figlio. Persistono stereotipi di genere rigidi, una divisione del lavoro famigliare asimmetrica, una cultura aziendale maschilista, politiche di conciliazione scarse o assenti.

Non è un caso che la maggior parte dei Neet siano donne che vivono nel Mezzogiorno.
Le donne sono diventate tra loro sempre più diseguali in base a caratteristiche personali. Le più istruite e che vivono nel Centro-Nord, per quanto ancora discriminate rispetto agli uomini loro pari, hanno infinitamente molte più possibilità di affermazione e di conciliare, se lo desiderano, lavoro e famiglia delle meno istruite, specie se vivono nel Centro-Sud. Ciò dovrebbe sollecitare un'attenzione per politiche che colmino il divario, in termini di investimento, nell'istruzione, in servizi per l'infanzia e per la non autosufficienza, cruciali per chi non può permettersi il costo del mercato, in politiche del tempo di lavoro.

Qual è la risposta della politica?
Purtroppo, sia nel governo Renzi, che ha avuto il maggior numero di ministre, sia in quello Gentiloni, questi temi, già appannati nei governi precedenti, sono ulteriormente stati spinti fuori dall'agenda e dal dibattito pubblico, in una sorta di azzeramento delle consapevolezze acquisite. Anche nel dibattito attorno al jobs act e alla folle precarizzazione indotta dal decreto Poletti sui contratti a termine, il costo specifico che questi provvedimenti hanno per le giovani donne è stato poco o per nulla messo a fuoco nel dibattito politico e sindacale. Per non parlare del fatto che su questi temi non si è mai sentita la voce della sottosegretaria con delega alle pari opportunità.

Perché le donne non riescono a individuare obiettivi comuni?
Le donne non sono mai state uguali, omogenee tra loro, come per altro gli uomini. Ciò che le accumunava e tuttora in larga parte le accomuna è l'asimmetria di potere rispetto agli uomini e il fatto che la loro appartenenza di sesso possa essere utilizzata per discriminarle, per far loro violenza, per sminuirle. Nessun uomo viene aggredito o sminuito in quanto uomo. L'insulto più sanguinoso, da un punto di vista maschilista, è quello di essere omosessuale, cioè "non un uomo vero". Invece una donna, anche di potere, può sempre essere attaccata come tale, che sia brutta o bella, giovane o vecchia, vestita in modo seducente o castigato.

Secondo un recente sondaggio un italiano su due ha paura dell'avanzata fascista. Ci stiamo riscoprendo un paese fascista?
Forse il fascismo, le idee del fascismo, non ha mai perso il suo fascino presso una parte della popolazione. L'idea di una superiorità razziale, e fortemente maschilista, della legittimità dell'uso della violenza per imporla, l'individuazione di capri espiatori, il sentirsi forti perché parte di un gruppo con regole e rituali pseudo-militari ha continuato ad avere un'attrazione presso alcune fasce della popolazione.

Esiste però una legittimazione inedita.
La novità è proprio che oggi i gruppi che organizzano queste persone si sentono legittimati a farsi valere esplicitamente, e ad occupare uno spazio pubblico. Da non sottovalutare il rancore e l'insoddisfazione diffusi tra individui e gruppi che si sentono tagliati fuori dal benessere e dal riconoscimento, e sono alla ricerca sia di vittime sulle quale far valere la propria superiorità, sia di capri espiatori cui attribuire la colpa della propria condizione. La presenza di immigrati, la cattiva gestione che se ne è fatta concentrandoli nelle periferie più disagiate, ha offerto una opportunità per entrambi questi obiettivi. Non credo che dobbiamo temere un ritorno del fascismo inteso come regime politico. Ma non siamo vaccinati rispetto a modelli culturali e atteggiamenti di tipo fascista.

E razzista?
Ci si può chiedere se ci sia mai stato un periodo in cui il razzismo non è stato presente in Italia. Verrebbe piuttosto da osservare che, di volta in volta, ha cambiato obiettivo. La facilità con cui la maggior parte della popolazione ha assistito alla persecuzione contro gli ebrei, il razzismo nei confronti delle popolazioni indigene all'epoca delle conquiste coloniali, la virulenza, ed insieme la sistematica gerarchia del disprezzo nei confronti dei vari gruppi di stranieri ed etnie con i rom, i neri e i mussulmani all'apice, sono testimoni del fatto che il razzismo è un atteggiamento latente che, appena trova un bersaglio, riemerge.

Questo cosa significa?
Ciò non vuol dire che siamo tutti razzisti e forse neppure la maggioranza. Ma che non possiamo illuderci di esserne protetti. E che razzismo non è solo quello dichiaratamente tale, ma quello, molto più diffuso, che si nasconde dietro il "io non sono razzista, però...". Dove anche legittime preoccupazioni o critiche dei comportamenti di qualcuno diventano quasi automaticamente generalizzazioni nei confronti di interi gruppi individuati (e spersonalizzati) in base ad una caratteristica particolare: il colore della pelle, la religione, la storia migratoria.

Dopo il biotestamento, e il fallimento dello jus soli, qual è secondo lei il prossimo obiettivo da conquistare?
È una vergogna che lo jus soli/jus culturae sia stato abbandonato. Ma anche la trasmissione del cognome materno accanto a quello paterno e non in alternativa, o solo su richiesta, ma proprio come meccanismo di default. E il riconoscimento della filiazione delle coppie dello stesso sesso: non la step child adoption, che è un atto successivo e richiede che passi del tempo, ma il riconoscimento della bigenitorialità all'atto della nascita. È un diritto dei bambini, prima che dei genitori.
http://www.huffingtonpost.it/2018/01/23/chiara-saraceno-la-cultura-maschilista-prevale-litalia-e-impreparata-a-dare-riconoscimenti-alle-donne-qualificate_a_23333725/

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