L'anno è appena iniziato e una giovane donna nigeriana, Miracle Francis, uccisa dal marito, inaugura la triste contabilità legata al femminicidio, un fenomeno di cui si parla molto ma che non va mai in crisi. Eppure le regole e le leggi che dovrebbero contrastare questi crimini, ci sono; il problema è che non vengono applicate con la necessaria competenza né con quella tempestività che sarebbe indispensabile. Ed è questa diffusa "timidezza interpretativa" a far sì che troppo spesso non si intervenga con provvedimenti adeguati nei confronti degli uomini violenti.
A denunciare che operatori giudiziari, polizia, avvocati e perfino magistrati, non sempre "applicano con la necessaria precisione ed efficacia i numerosi istituti processuali e sostanziali esistenti", è proprio una toga: Fabio Roia, magistrato dal 1986, già sostituto procuratore a Milano addetto al dipartimento "fasce deboli", ex componente del Csm, da tempo un esperto molto attivo sull'argomento al Tribunale della sua città che, con il libro Crimini contro le donne, Franco Angeli editore, spiega come nasce, di che cosa si nutre la violenza degli uomini che la commettono e, soprattutto, suggerisce a chi ne è vittima, come uscirne.
Roia ricorda che, sul piano storico, solo nell'ultimo scorcio del secolo scorso sono state cancellate certe leggi vetuste, (tipo il delitto d'onore o l'adulterio femminile perseguito come reato a senso unico), norme, usi e costumi che hanno a lungo alimentato la convinzione delle donne che la loro persona venisse dopo il dovere della "conservazione del nucleo familiare", sempre e a tutti i costi. Convinzione che é spesso alla base del loro sentirsi responsabili per ciò che subiscono, quasi non fossero state "abbastanza" moglie e madri come si deve, e che le rende, alla fine, perfino giustificazioniste nel confronti dei loro compagni, mariti e partner violenti.
In proposito, Roia cita una recente ricerca dell'Ista del 2014, "secondo la quale soltanto tre donne su dieci vittime di violenza domestica, riconoscono che l'atto violento posto in essere dal partner costituisce un reato". Mentre le restanti sette tendono a catalogare questi comportamenti con altre definizioni. E ricorda che solo il 5% di loro si rivolge ai centri antiviolenza dove, invece, ci sono competenti professioniste volontarie pronte ad ascoltarle e a tendere loro la mano. Chiedere aiuto è il primo passo che una donna che subisce violenza dovrebbe fare, sottolinea il magistrato , e indispensabile è rivolgersi a operatori formati ed esperti che conoscono le politiche e le buone pratiche per intervenire anche a livello tecnico. Un contatto che, attraverso "il colloquio rivelatore", (passaggio fondamentale per riconoscere la violenza subita), può aiutare a intraprendere il cammino verso una nuova vita.
Non essere più vittime di violenza si può e una via d'uscita esiste. Ma è necessario cercarla, presto e nel modo giusto. Per liberarsi dalla sudditanza culturale e riprendersi la dignità e l'esistenza.
Al di là delle parole, i perché di un libro che spiega le leggi che abbiamo...
Il libro parla delle leggi, le spiega, le interpreta, indica quali devono essere le buone pratiche perché oggi, malgrado l'esistenza di una apprezzabile normativa italiana che tutela la donna vittima della violenza domestica, gli operatori giudiziari, polizia, avvocati ed anche gli stessi magistrati, non sempre applicano con la necessaria precisione ed efficacia i numerosi istituti processuali e sostanziali esistenti. Inoltre abbiamo una serie di disposizioni che ci derivano dalla legislazione europea che possono trovare diretta applicazione nelle singole vicende giudiziarie ma che a volte non vengono tradotte in provvedimenti per timidezza interpretativa o, forse, scarsa conoscenza del rapporto fra le diverse fonti normative.
Crimini contro le donne non è però un pesante inno al diritto, ma un modo ragionato di spiegare come il dramma sociale della violenza dell'uomo nei confronti della donna possa essere contenuto e forse definitivamente sconfitto partendo da un'analisi storica che vede il nostro Paese, sul piano culturale e quindi della produzione delle leggi, in uno stato iniziale di arretratezza rispetto ad altre realtà. Basti pensare infatti che la riforma del diritto di famiglia è soltanto del 1975. Prima l'uomo era il capo delle relazioni, gestiva e orientava tutte le vite familiari, poteva pretendere dalla propria moglie anche rapporti sessuali non sempre desiderati. L'attenuante del delitto per causa di onore è stata abrogata nel 1981. Se la moglie veniva colta in una situazione di adulterio il marito la poteva tranquillamente ammazzare rischiando anche soltanto tre anni di carcere. La famiglia rappresentava il primo nucleo sociale di riferimento che andava sempre e comunque salvaguardato tanto che la legge sul divorzio è intervenuta appena nel 1970. La donna non aveva accesso a cariche pubbliche ed a ruoli di potere. Siamo cresciuti in questo clima patriarcale e maschilista e la nostra cultura di conservazione del nucleo familiare ha soffocato il messaggio che veniva lanciato alle donne di scegliere di rompere la relazione violenta per non subire le vessazioni che l'uomo, che agiva normalmente per perdita di potere rispetto alla crescita sociale della donna, le infliggeva.
La violenza contro le donne può essere repressa nei tribunali, ma può essere sconfitta soltanto con un continuo processo di trasformazione , magari non ipocrita o di facciata, della nostra cultura che porti al rispetto della diversità di genere. Quando dico che "non è mai l'otto marzo" non affronto il problema delle leg, ma denuncio gli stereotipi, i pregiudizi, i retropensieri che ancora oggi affliggono il nostro modo di essere. Dalla comunicazione giustificazionista, alla pubblicità sessista, passando anche per le aule dei tribunali. Troppe volte il processo viene fatto alla vittima e non agli autori della violenza.
Qual è il comportamento pratico da tenere quando una donna, un'amica, una parente, una vicina, chiede aiuto perché subisce violenza?
Secondo una recente ricerca dell'ISTAT del 2014 soltanto tre donne su dieci vittime di violenza domestica riconoscono che l'atto violento posto in essere dal partner costituisce un reato. Le restanti sette tendono a catalogare questi comportamenti con altre definizioni non attribuendo alle condotte quel disvalore sociale che andrebbe invece alimentato anche attraverso l'uso delle parole. Per questo nel libro parlo di "crimini" contro le donne. Avrei potuto usare il sostantivo "reati" ma ho preferito tentare la via dell'impressione linguistica. Normalmente la donna, proprio perché cresciuta nel mito della necessità di conservazione del nucleo familiare, tende a catalogare la violenza dell'uomo come una forma di reazione legittima a una sua carenza personale manifestata nel ruolo di moglie o di madre, spostando su di sé il centro del problema e creandosi degli irrazionali sensi di colpa. E' per questo fattore (sub) culturale che la donna non ne vuole parlare all'esterno della cerchia familiare.
La donna vittima di violenza di genere deve comprendere alcune cose fondamentali. La violenza dell'uomo non potrà essere gestita e, senza un intervento esterno forte, (necessario anche per tutelare i figli minorenni che magari assistono al clima violento endofamiliare soffrendo e riportando conseguenze comportamentali che potranno svilupparsi anche in futuro), il ciclo della violenza, ingannatorio anche perché seduttivo, non potrà essere interrotto. Appare fondamentale anche parlarne con qualcuno che sia formato all'ascolto, che non giudichi, e che sappia come gestire la situazione. I centri antiviolenza, per competenza e per presenza di operatrici multidisciplinari (avvocate, psicologhe), si presentano come i luoghi maggiormente attrezzati per accogliere la vittima di violenza domestica anche perché, sul piano giuridico, non hanno alcun obbligo di segnalazione qualora accertino la presenza di un reato procedibile d'ufficio quale è, per il nostro sistema, il delitto tipico della violenza domestica previsto dall'articolo 572 del codice penale riferito alla fattispecie dei maltrattamenti contro familiari e conviventi. Eppure, sempre secondo l'indagine Istat del 2014, soltanto il 5% delle donne vittime di violenza domestica si rivolge ad un centro specializzato. Occorre incrementare questo flusso attraverso una comunicazione adeguata e competente anche perché i centri antiviolenza sono presenti in quasi tutto il territorio nazionale ed il rapporto fra donna sofferente e luogo dell'accoglienza necessità di una forte contiguità.
Lei è un magistrato molto attivo sull'argomento al tribunale di Milano, ma anche un esperto da tempo impegnato a informare sull'argomento. Quali consigli può dare a una donna perché vinca la paura e denunci le violenze subìte? Può ottenere giustizia? O una speranza per una vita diversa per sé e per i figli?
È normale che la donna vittima di violenza domestica abbia paura di rivolgersi a qualcuno oppure di mettere in moto la macchina del processo penale che dovrebbe funzionare, ma che ancora oggi presenta delle crepe inaccettabili. E, se non lo fa, quale potrebbe essere la sua alternativa? Continuare a vivere in un clima di violenza che sarà progressivamente più intenso e totalizzante.
Bisogna convincersi allora che l'impossibilità di un cambiamento deve costituire la spinta per raccontare la sofferenza ad una persona consapevole - il colloquio rivelatore è il primo momento di riconoscimento della violenza subita- e quindi intraprendere un progetto che porti alla costruzione di una quotidiano diverso. Fondamentale è avere a che fare con operatori formati ed esperti che sappiano anche fornire indicazioni tecniche appropriate. L'avvocato deve essere specializzato perché, qualora si scelga di intraprendere la strada del processo penale, che non è tuttavia l'unica possibile, dovrà svolgere il ruolo di osservatore attento e preparato delle attività compiute dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero soprattutto nella fase delle indagini, verificando che vengano posti in essere tutti i presidi di protezione della vittima di reati di genere oggi previsti dalle leggi.
Esistono anche strumenti di tutela in ambito civile come la possibilità di richiedere al giudice un ordine di protezione con il quale l'agente violento viene allontanato dalla casa familiare ed avviato ai servizi sociali per un periodo di intervento trattamentale finalizzato a contenere le connotazioni violente del suo comportamento. Il processo penale può avere poi un effetto terapeutico sulla stessa vittima qualora venga svolto con tempestività, efficacia, tempi adeguati alle esigenze di tutela della donna, e porti ad un giudizio di riconoscimento delle violenze sofferte e denunciate.
Molte donne vogliono leggere le motivazioni delle sentenze di condanna dei loro uomini non già per alimentare un senso di vendetta che, in questi processi, non esiste, bensì per riscontrare la validazione istituzionale di sofferenze che non hanno rivelato per molti anni. Come a dire lo Stato mi ha creduto, non ero io che sbagliavo, era lui che mi ingannava con violenza. La formazione continua, l'affinamento degli interventi, la corretta applicazione dei numerosi istituti giuridici posti a tutela delle vittime devono essere le direttrici di intervento per tutti gli operatori giudiziari i quali hanno il dovere di abbattere i tempi della risposta di giustizia ed allontanare quei reflussi subculturali che ancora aleggiano nei tribunali e nella società. Alle donne vittime di questa violenza, che noi uomini commettiamo per inadeguatezza di genere, mi sento di dire che certamente un'alternativa di vita non solo è possibile, ma deve essere assicurata, come presidio di civiltà ineludibile, attraverso un complesso movimento culturale che porti le istituzioni ad intervenire sempre con adeguatezza e profondità in tutte le direzioni sociali.
Fabio Roia
Crimini contro le donne
Franco Angeli
Pagg 162, euro 24
http://www.repubblica.it/rubriche/passaparola/2018/01/04/news/crimini_contro_le_donne-185788569/
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