In Italia di femminicidio muore una donna ogni due giorni. L’assassino è di solito il marito o il compagno, oppure l’ex. L’anno che è appena trascorso ne conta circa 120. Sono reati che si consumano fra le mura domestiche e che non conoscono differenze sociali. L’Inchiesta sul femminicidio voluta dal Ministero della Giustizia ne registra un totale di circa 600 negli ultimi quattro anni, 145 nel solo 2016. I numeri raccontano massacri. I femminicidi sono solo la punta dell'iceberg. Ci sono le donne che vengono malmenate, violentate, perseguitate. Una su tre ha subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di abuso.
Ma una donna spaventata, maltrattata, umiliata cosa può fare? Può rivolgersi oggi a un Centro Antiviolenza. Esiste nel nostro paese un numero verde, il 1522, che raccoglie la richiesta di aiuto delle vittime di abusi domestici. Il servizio mette in contatto la donna con il Centro a lei più vicino, a ogni ora del giorno, ogni giorno. Si tratta di una rete, fatta di altre donne, che cerca di far fronte a questa crescente richiesta di protezione e di aiuto. In Italia come in Europa, sono migliaia le associazioni che gestiscono Centri antiviolenza.
La Casa delle donne per non subire violenza, Onlus ne ha fatto una mappatura sin dal 1990 e oggi ne conta nel nostro Paese circa 160. E poi c’è Wave, sigla che sta per Women Against Violence Europe. Il network raccoglie 45 Paesi tra cui 28 Stati dell’Unione, la Croatia, la Turchia e in parte i Balcani. Nei fatti comprende 4.000 Centri Antiviolenza, sparsi in tutta Europa. Il coordinamento è affidato in Italia dal 2008 a D.i.Re (Donne in rete contro la violenza).
Nel Regno Unito, dove in media di femminicidio muore una donna alla settimana, il programma di protezione delle vittime si chiama EDV ed è innovativo. Affronta la violenza domestica costruendo attorno alla vittima una ragnatela di possibilità. Riunisce attorno a un tavolo le principali agenzie pubbliche, organizzazioni e servizi (MARAC) e l’Indipendent Domestic Violence Advisor (IDVA), un consulente indipendente con il compito di seguire la vittima e i suoi figli in tutti i passaggi necessari per sottrarsi alla violenza domestica, garantendone la protezione e la sicurezza.
È da una di queste associazioni in Italia che parte il percorso di liberazione di una ragazza di appena 20 anni, mamma di un bambino di tre, che chiameremo Anna. Da lei sappiamo che incontra le donne del Centro della sua città che è gennaio. Fa freddo e c’è un vento gelido che porta pioggia. Racconta loro della paura, dell’ansia che la sovrastano e la paralizzano da quando vive braccata, perseguitata, spiata dall’uomo che era stato il suo compagno fino a poco tempo prima. Non accetta un no come risposta, lui la vuole ad ogni costo. Lei ha deciso invece di non volerlo più.
Al Centro antiviolenza arriva dopo una telefonata, nella quale una voce gentile e competente le chiede di raccontare e raccontarsi; così i dettagli e i tratti importanti di quella storia finiscono tutte in una scheda di accoglienza. In quel documento dolori e tumefazioni prendono forma, insieme alle generalità del maltrattante, a quelle della donna (le volte che, come Anna, non si voglia l’anonimato) e del minore, vittima a sua volta di violenza assistita. Questo lavoro di sintesi e di compilazione, se è fatto in maniera meticolosa e circostanziata, è prezioso. Può servire da traccia per la predisposizione di una querela redatta correttamente. Che poi la vittima arrivi presso le forze dell’ordine accompagnata da un pool di esperte è circostanza che riesce, il più delle volte, a fare davvero la differenza.
Il primissimo contatto è fondamentale, la tempestività dell’intervento anche. Alla telefonata l’operatrice formata per l’occorrenza fa seguire l’accoglienza fisica, a tutti gli effetti. Serve del tempo e una strategia efficace per portare in salvo chi è stata violata, ma tante volte l’urgenza è il bisogno primario di metterla in sicurezza, quella donna. Così, quando una vittima non può tornare a casa senza rischiare la vita, il Centro attiva protocolli in emergenza, cerca un rifugio.
E lo fa sfruttando la padronanza del territorio. Esiste una rete di strutture, disseminate nelle regioni. Non sono accessibili se non attraverso una procedura che si attiva ad hoc e che coinvolge le forze dell’ordine. Le cosiddette case-rifugio sono luoghi di accoglienza che garantiscono un tetto e un pasto caldo alle vittime e ai loro bambini, un ricovero che può durare anche dei mesi.
Anna viene presa in carico che non ha bisogno di un riparo perché sta già dai genitori, ma di assistenza legale invece sì. Nel suo caso quello che è necessario è, per prima cosa, fermare lo stalking. Serve poi aiutarla a regolamentare l’affidamento del bambino. E così, le avvocate del Centro antiviolenza l’accompagnano in questura dove viene intanto richiesto l’ammonimento contro l’ex compagno, in modo da far cessare gli atti persecutori; è un’intimazione, il passo che si compie prima di arrivare alla querela e al processo vero e proprio. Bisogna poi che si stabiliscano delle regole, che si chieda per la mamma l’affidamento esclusivo del piccolo; al padre dovranno fissarsi dei giorni di visita precisi, con l’obbligo di contribuire al mantenimento del minore. Le avvocate ricorrono al giudice civile, dunque, affinché regoli i rapporti tra i genitori e il figlio.
Anna è una donna giovane ma ha già le idee molto chiare. Altre sono più fragili di lei, arrivano stanche alla decisione di liberarsi dal maltrattante, sfiancate da anni di abusi. Il Centro antiviolenza interviene anche da questo punto di vista e offre alle vittime la necessaria assistenza psicologica. Sono tutte storie di relazioni tossiche; alcune sono storie di matrimoni tossici.
Quella che chiameremo Anouk è una donna di mezza età, una straniera dai tratti mediorientali, occhi scuri e capelli neri. Arriva al Centro antiviolenza perché ha un marito geloso e ossessivo che la separazione non gliela concederebbe mai. Dalle operatrici fa una scoperta che le salverà la vita: impara di non avere bisogno del permesso di lui per avviare le pratiche che la porteranno al divorzio. E comincia così il percorso per allontanare da sé quell’uomo abusante che la maltratta da troppo tempo.
Anche nel momento più duro, davanti al giudice penale, il Centro antiviolenza siede accanto alla vittima e la sostiene attraverso azioni che mirano ad essere insieme concrete e altamente simboliche. Tra tutte, c’è la costituzione di parte civile che è scelta precisa di chi decide di agire a tutela degli interessi di tutte le donne. Da sole, non sempre, le vittime troverebbero la strada migliore. Ecco che il volontariato, sperimentato ogni giorno da altre donne, finisce per essere il faro che illumina esistenze che si credevano perdute.
Certamente ci sono dei limiti. A sentire le operatrici la nota dolente è per lo più sempre la stessa: servono fondi. “C'è da dire che i Centri antiviolenza non godono dell'aiuto economico delle istituzioni, salvo qualche sporadico bando”, avverte Loredana Mazza, avvocata e presidente del Centro Antiviolenza Galatea che opera nel catanese da anni. Delle somme previste dalla legge del 2013 solo una piccola parte finora è davvero finita nelle casse dei Centri, per non tacere del fatto che il governo Gentiloni ha recentemente tagliato risorse già insufficienti.
Il percorso per chi decide di denunciare è complicato e dolorosissimo. Dopo anni di soprusi, attraversando il dolore fisico e la paura, se si è più fortunate di altre si arriva alla consapevolezza di dover morire ma finalmente si passa oltre. Scatta come una molla la voglia di farcela. E i costi? Nel caso di violenza domestica il legale va col patrocinio a carico dello Stato, nel senso che è assicurata alle vittime di abusi la difesa gratuita, indipendentemente dal reddito dichiarato. Anche nel caso del ricovero e della permanenza in casa rifugio, non ci sono spese per la vittima, il Comune di residenza si fa carico della retta.
Per la donna che lavora esiste da pochissimo la possibilità di prendersi un periodo di astensione. È un congedo retribuito, fino a tre mesi, rivolto alla dipendente del settore privato che dimostri di essere inserita in percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica, da non più di tre anni. È una novità degli ultimi tempi, non vale ancora per tutte le lavoratrici, restano fuori le collaboratrici domestiche e familiari, così pure tutto il pubblico impiego.
Ci vogliono leggi migliori, certamente, un sistema di tutele più coerente è auspicabile. Serve un supporto concreto e continuo ai Centri antiviolenza, nel loro lavoro quotidiano. “Ritengo che per fare fronte comune alla lotta contro il fenomeno si dovrebbe puntare oggi a pretendere dallo Stato leggi più severe e meno schizofreniche, interventi più efficaci dall’autorità giudiziaria; e la creazione all'interno delle forze dell’ordine di squadre specializzate”: lucidamente vengono fuori priorità e bisogni, dalle parole dell’avv. Mazza. “Quanto alle amministrazioni locali, si dovrebbe invece pensare seriamente all'inserimento, nei bilanci annuali, di capitoli di spesa dedicati alla lotta alla violenza”.
Nell’ultimo decennio sono state emanati alcuni provvedimenti importanti. La Convenzione di Istanbul che per prima definisce la violenza di genere nei termini di una violazione dei diritti umani ha imposto agli Stati membri azioni rivolte alla prevenzione del fenomeno, alla protezione della vittima e alla punizione del reo: tre P, per salvare la vita delle donne.
Se è vero che dopo il 2013 nel nostro paese sono state inasprite le pene, se sono state introdotte aggravanti (quando la violenza è commessa all’interno di una relazione affettiva), se oggi è previsto l’arresto in flagranza obbligatorio nelle ipotesi di stalking, se la legge dispone (per la verità già dal 2001) che il maltrattante sia allontanato dalla casa familiare, nella realtà tuttavia il sistema non tutela abbastanza la vittima. Non funziona ancora come dovrebbe. Sul fronte delle nuove migrazioni, poi, è anche peggio. Le migranti sono oggi le vittime in assoluto più vulnerabili e indifese.
Come si argina la mattanza, ce lo dicono le operatrici impegnate tutti i giorni sul campo. La voce unanime dei Centri è che occorre, sopra ogni altra cosa, uno sguardo sulla violenza di genere che non si fermi più al solo livello dell’emergenza. Serve che la politica capisca che il fenomeno si debella solo con interventi strutturali. Non bastano più le giornate commemorative, non è più tempo. Serve altro, serve impegno. E unità d’intenti.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/maltrattamenti-sulle-donne-come-funzionano-i-centri-antiviolenza/
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